La Cassazione afferma che il doppio termine di decadenza dell'impugnazione non si applica all'azione del lavoratore volta ad ottenere l'accertamento del proprio rapporto di lavoro subordinato in capo al committente in assenza di una comunicazione scritta equipollente ad un atto di recesso.
La vicenda vede quale protagonista un lavoratore che agiva in giudizio per chiedere l'accertamento della pregressa esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con una società e l'illegittimità dell'interruzione del rapporto disposta da altra società che aveva stipulato con la prima un contratto di appalto.
La domanda veniva rigettata dai Giudici di merito, i...
Svolgimento del processo
1. La Corte d'appello di Roma, con sentenza n. 3494/2017, confermava la pronuncia del locale Tribunale che aveva respinto la domanda proposta nei confronti della S. S.p.A. da C. V., domanda diretta ad accertare la pregressa esistenza d'un rapporto di lavoro subordinato tra le parti a decorrere dal 2.1.2007 (epoca della stipula tra la S. S.p.A. e la H. s.r.l. di un contratto di appalto) ai sensi dell'art. 29, comma 3-bis, d.lgs. n. 276 del 2003, l'illegittimità dell'interruzione del rapporto disposta dalla H. s.r.l. a far data dal 31.3.2013 in quanto disposta da un soggetto solo apparentemente datore di lavoro, nonché volta ad ottenere la condanna della S. S.p.A. al ripristino del rapporto medesimo, al risarcimento del danno e al pagamento di differenze retributive (per euro 93.836,24).
I giudici di merito rigettavano tali domande per essere il lavoratore decaduto dall'azione, intentata oltre i termini di cui all'art. 6 I. n. 604/66 e 32, comma 4 lett. d), I. n. 183/10 (giacché l'utilizzazione della prestazione lavorativa da parte della S. era cessata il 31.12.2012 e l'impugnativa stragiudiziale era stata proposta il 24.3.2013, quindi oltre il sessantesimo giorno).
2. Riteneva la Corte territoriale che nel caso in esame, non esplicitamente regolato dalla legge, il dies a quo per la decorrenza del termine decadenziale non potesse che identificarsi con la cessazione tout court della prestazione resa dal lavoratore in favore del soggetto ne cui confronti reclamava la sussistenza dell'effettivo rapporto, a qualunque causa tale cessazione fosse dovuta: infatti, sempre ad avviso della Corte di merito, era tale cessazione (e non la scadenza dell'appalto che si assumeva fittizio) a determinare la mora accipiendi del soggetto che si pretendeva datore di lavoro reale e solo con essa diventava attuale e concreta la lesione della funzionalità del corrispondente rapporto.
Tale interpretazione, ad avviso della Corte capitolina, era coerente con le omologhe nuove previsioni in tema di decadenza oltre che con la ratio interna della disposizione in esame, che era da cogliere nell'esigenza di assicurare - nelle ipotesi di presunta interposizione datoriale nel rapporto - stabilità e certezza alle posizioni giuridiche coinvolte, introducendo una ragionevole misura temporale di esercizio dell'azione del lavoratore e non lasciando il controinteressato (soggetto non rivestente formale ruolo di datore) oltremodo esposto alle rivendicazioni dell'altro; tale ratio - sempre secondo i giudici d'appello - poteva essere soddisfatta solo ancorando la decorrenza del termine decadenziale al momento d'inveramento della lesione, come sopra identificato (ossia al momento del venir meno dell'impiego del lavoratore presso il soggetto formale committente).
In breve, la Corte d'appello condivideva l'iter argomentativo del Tribunale secondo cui, operando la decadenza su base obiettiva, quel che contava ai fini dell'individuazione del dies a quo era il dato storico dell'effettiva (non momentanea) interruzione della prestazione resa a favore dell'appaltante, irrilevanti essendo le aspettative di sua ripresa che il lavoratore avesse nutrito sulla base delle assicurazioni che l'appaltante medesimo poteva avergli fornito in tal senso.
3. Per la cassazione della sentenza C. V. ha proposto ricorso sulla base di cinque motivi.
4. La S. S.p.A. ha resistito con controricorso.
5. Il Procuratore generale ha presentato requisitoria per iscritto concludendo per l'accoglimento del ricorso (conclusione, poi, modificata, in sede di discussione orale).
6. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione dell'art. 6 della I. n. 604/1966, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. e, in via subordinata, violazione dell'art. 132 cod. proc. civ. per motivazione intrinsecamente illogica ed asserzioni tra loro inconciliabili (art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ.).
Censura la sentenza impugnata per aver fatto decorrere il termine di decadenza stragiudiziale dalla cessazione del rapporto pur in assenza di un atto di licenziamento comunicato per iscritto.
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell'art. 6 della I. n. 604/1966, dell'art. 29, comma 3 bis, della I. n. 276/2003 e dell'art. 32, comma 4, lett. d) I. n. 183/2010, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ..
Censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che il rapporto si fosse interrotto con carattere di definitività il 31.12.2012.
3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione tra le parti, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., fatto consistente nella circostanza che il rapporto era rimasto sospeso essendo stato solo temporaneamente interrotto a dicembre del 2012 ed avendo ripreso corso, con altra società, dopo il 31.3.2013.
4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., dell'art. 115 cod. proc. civ. per grave travisamento delle risultanze processuali, nonché violazione degli artt. 1175 e 1375 cod. civ..
Censura la sentenza impugnata per non aver valorizzato, anche ai fini del dies a quo del decorso della decadenza, la circostanza - di cui la stessa Corte territoriale dà atto - che la S. si era impegnata alla prosecuzione del rapporto con il ricorrente dopo il 31.3.2013, il che presupponeva una scadenza del rapporto a tale data e non a quella del 31.12.2012.
5. Con il quinto motivo il ricorrente denuncia, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione tra le parti in relazione all'omessa pronuncia sul capo 4) dell'atto di appello, nonché nullità della sentenza per palese contraddizione.
Censura la sentenza impugnata per non essersi pronunciata sul motivo di appello che riguardava la mancanza degli elementi tipici dell'appalto genuino nei vari contratti intercorsi tra la S. S.p.A. e le società appaltatrici.
6. I primi due motivi di ricorso - da esaminarsi congiuntamente perché connessi - sono fondati per le ragioni di seguito illustrate.
L'art. 32 della I. n. 183/2010 contiene, al primo comma, la nuova formulazione del primo e del secondo comma dell'art. 6 I. n. 604/1966 (Norme sui licenziamenti individuali) sull'impugnativa stragiudiziale del licenziamento, lasciando invariato il terzo comma, che prevede la competenza funzionale del giudice del lavoro per le controversie derivanti dall'applicazione della legge medesima.
Si prevede che il licenziamento debba essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch'essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore, anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso.
Il secondo comma dell'art. 6 I. n. 604/1966 stabilisce ora che l'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso.
La nuova articolata disciplina di impugnativa e decadenze, introdotta dall'art. 32, comma 1, si salda con le prescrizioni degli ulteriori commi - 2, 3 e 4 - che, in disparte il comma 1-bis aggiunto successivamente, recano la previsione dell'estensione dell'ambito di applicazione dell'art. 6 riformato.
Così, in particolare, l'art. 32, comma 4, lett. d) della I. n. 183/2010 (ratione temporis applicabile al caso di specie) statuisce che: "Le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche: a) ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla scadenza del termine; b) ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge; e) alla cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell'articolo 2112 del codice civile con termine decorrente dalla data del trasferimento; d) in ogni altro caso in cui, compresa l'ipotesi prevista dall'articolo 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, si chieda la costituzione o l'accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto".
Quella che rileva nel presente giudizio è la disposizione di cui al comma 4 lett. d).
La questione che si pone è se una lettura della stessa in stretta correlazione con il comma 1 del medesimo art. 32 sia tale da richiedere anche in questo caso, ai fini dell'operatività del termine di decadenza, che vi sia una comunicazione scritta.
Questa Corte, nell'interpretare le disposizioni introdotte con l'art. 32 I. cit., ne ha configurato nel tempo un ambito di applicazione rigorosa, consapevole che le limitazioni al libero esercizio dell'azione, dovute all'introduzione d'un doppio e ristretto termine di decadenza (per l'impugnativa stragiudiziale e per la successiva azione in giudizio), hanno un carattere eccezionale ( cfr. Cass. 25 maggio 2017, n. 13179 in motivazione; Cass., Sez. Un., n. 4913 del 2016).
In primo luogo, questa Corte, ritenuto imprescindibile che vi sia una comunicazione scritta da cui far decorrere il termine di decadenza, ha escluso l'operatività di detta decadenza in caso di licenziamento intimato oralmente (v. Cass 11 gennaio 2019, n. 523; Cass. 12 ottobre 2018, n. 25561; Cass. 9 novembre 2015, n. 22825).
Ed infatti, l'esistenza di una comunicazione scritta è uno degli elementi che caratterizzano l'applicazione della norma; non a caso, anche nell'ipotesi del trasferimento ex art. 2103 cod. civ. (pur estranea a quella di cessazione del rapporto di lavoro) è prevista la necessità di impugnare stragiudizialmente il provvedimento a pena di decadenza e di depositare il ricorso nel termine dettato anche per i licenziamenti; l'art. 32, terzo comma, lett. e), dopo aver previsto che: " ... si applica anche al trasferimento ai sensi dell'articolo 2103 del codice civile", precisa: "con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento".
Nell'ipotesi della cessione del contratto ai sensi dell'art. 2112 cod. civ. il dies a quo da cui computare il decorso del termine di decadenza coincide con quello della data del trasferimento d'azienda (cfr. Cass. 21 maggio 2019, n. 13648).
Sempre questa S.C. ha chiarito che in tanto è configurabile la decadenza de qua in quanto vi sia, a monte, un provvedimento datoriale da 'impugnare', ossia da "contestare o confutare" e che "l'estensione attuata dal citato art. 32 deve intendersi come diretta ad attrarre nella disciplina, prima limitata al solo licenziamento, una serie ulteriore di provvedimenti datoriali che il lavoratore intenda, appunto, impugnare, nel senso di contestarne la legittimità o la validità": con la conseguente eccedenza dal perimetro del citato art. 32 di tutte le ipotesi in cui non vi siano provvedimenti datoriali da impugnare, a fini di una denuncia di nullità o di illegittimità.
Non a caso questa Corte ha statuito (cfr. Cass. n. 13179/2017, cit.) che non è assoggettata al termine di decadenza di cui all'art. 32 cit. l'azione per l'accertamento e la dichiarazione del diritto di assunzione del lavoratore presso l'azienda subentrante nell'ipotesi di cambio di gestione dell'appalto con passaggio dei lavoratori all'impresa nuova aggiudicatrice; si è affermato come tale fattispecie non rientra nella previsione di cui alla lett. e), riferita ai soli casi di trasferimento d'azienda, né in quella di cui alla lett. d) del medesimo articolo; detta norma presuppone, infatti, non il semplice avvicendamento nella gestione, ma l'opposizione del lavoratore ad atti posti in essere dal datore di lavoro dei quali si invochi l'illegittimità o l'invalidità con azioni dirette a richiedere il ripristino del rapporto nei termini precedenti, anche in capo al soggetto che si sostituisce al precedente datore, o ancora, la domanda di accertamento del rapporto in capo al reale datore, fondata sulla natura fraudolenta del contratto formale.
È, quindi, ancora una volta il profilo impugnatorio a fungere da decisivo discrimine dell'applicazione della disciplina sulla decadenza, è questo il criterio da adottare per verificare l'applicabilità del regime di decadenza nell'ipotesi in cui, come nella specie, a fronte di un contratto di lavoro subordinato formalmente stipulato con un determinato appaltatore, si deduca la sussistenza di una interposizione fittizia di manodopera e perciò si chieda il riconoscimento del rapporto medesimo in capo al committente.
Come è stato da questa Corte già affermato, l'esito di un esame complessivo della clausola di cui alla lett. d) citata, per come formulata, non può che presupporre un 'contatto' tra il lavoratore e un soggetto diverso dal formale titolare del contratto (Cass. 7 novembre 2019, n. 28750).
Resta da domandarsi di che tipo debba essere tale "contatto".
Si cominci con il dire che lì dove il legislatore ha voluto prescindere da un atto formale oggetto dell'impugnazione lo ha reso esplicito - v. lett. a) e b) - e in tali casi ha espressamente individuato un altro dies a quo, certo, a partire dal quale calcolare il termine di decadenza.
È da ritenersi, dunque, che anche il comma 4 lett. d) dell'art. 32, comma 4, al pari del comma 3, estende l'onere di impugnativa stragiudiziale purché vi siano specifici provvedimenti datoriali, cioè "atti", da contestare, in mancanza dei quali la decadenza non opera.
Né può sostenersi, sempre con riferimento all'appalto, che il dies a quo per far decorrere il termine di decadenza possa essere individuato nell'esatta data di scadenza dell'appalto medesimo con l'impresa appaltatrice, vuoi perché una precisa data di scadenza ben può mancare, vuoi perché di essa il lavoratore - vale a dire il soggetto onerato dell'impugnativa - normalmente non è a conoscenza.
Né detto dies a quo può individuarsi nella data dell'eventuale licenziamento intimato dall'interposto nel rapporto di lavoro: tale licenziamento è giuridicamente inesistente perché proviene da soggetto diverso da quello che si assume essere il reale datore di lavoro (v. Cass. 6 luglio 2016, n. 13790; Cass. 11 settembre 2000, n. 119570).
Infatti, poiché l'azione per far valere la reale titolarità del rapporto non è un'azione costitutiva, ma dichiarativa, titolare ab origine del rapporto resta pur sempre il committente.
Per l'effetto, fin quando il lavoratore non riceva un provvedimento in forma scritta che neghi la titolarità del rapporto o comunque sia equipollente ad un atto di recesso, non può decorrere alcun termine decadenziale.
Né può dirsi che l'ipotesi dell'appalto non genuino (che è quella oggetto della causa petendi della domanda dell'odierno ricorrente) sia sempre e comunque riconducibile "ad ogni altro caso in cui si chieda la costituzione o l'accertamento di un rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto": il cit. comma 4 dell'art. 32, letto in chiave all'espresso rinvio all'art. 6 legge n. 604/66 e ai casi indicati nelle lettere a), b), e) che seguono, presuppone pur sempre un "atto", non un "fatto", atto che da parte della S. non si è mai avuto.
Ancora nel senso della necessità d'un provvedimento datoriale da impugnare, ossia di un "atto", si veda Cass. 8 luglio 2020, n. 14131 secondo cui con l'art. 32 cit. il legislatore ha esteso ad una serie di ipotesi ulteriori la previsione dell'art. 6, I. n. 604 del 1966 (previamente modificato) sull'impugnativa stragiudiziale, originariamente limitata al licenziamento.
Questa Corte ha già rilevato come i commi 3 e 4 del citato art. 32 siano formulati proprio nel senso di estendere ("le disposizioni di cui all'art. 6 ... si applicano anche ... ") alle ipotesi ivi specificamente elencate l'onere di impugnativa stragiudiziale nei sessanta giorni e come tale estensione debba intendersi diretta ad attrarre nella disciplina, prima limitata al solo licenziamento, una serie ulteriore di provvedimenti datoriali che il lavoratore intenda impugnare, con la conseguenza che - come già detto - restano esterne al perimetro del citato art. 32 tutte le ipotesi in cui non vi siano provvedimenti datoriali da impugnare (Cass. n. 13648 del 2019, cit.).
E, come s'è detto, la necessità, ai fini dell'applicazione del suddetto termine decadenziale, di un provvedimento scritto da impugnare è stata affermata da questa Corte a proposito del licenziamento orale già sotto il vigore del vecchio testo dell'art. 6, L. n. 604 del 1966 (in tal senso v. Cass. 29 novembre 1996, n. 10697), il che è stato poi ribadito anche dopo la riforma del citato art. 6 operata dal cit. art. 32 della legge n. 183/2010 (cfr. Cass. 9 novembre 2015, n. 22825; Cass. n. 523/2019 cit.).
La necessità, ai fini dell'applicazione del termine decadenziale, di un provvedimento scritto da impugnare è ulteriormente confermata dalla previsione dell'art. 32, comma 3, lett. b), riferita al "recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto", nonché dalla lett. e), concernente il "trasferimento ai sensi dell'articolo 2103 del codice civile": in entrambi i casi si fa riferimento ad un provvedimento datoriale che si assume illegittimo; infatti, quanto alle previsioni del comma 4 dell'art. 32 cit. e, specificamente in relazione alla lett. e), questa Corte ha escluso l'applicazione del termine di decadenza alla domanda del lavoratore volta all'accertamento del passaggio del rapporto di lavoro in capo al cessionario, limitando la suddetta previsione alle ipotesi "in cui il lavoratore contesti la 'cessione del contratto, o meglio il passaggio del rapporto di lavoro in capo al cessionario per effetto di un trasferimento d'azienda posto in essere dal suo datore di lavoro" (Cass. 4 aprile 2019, n. 9469; Cass. n. 13648/2019 cit.; Cass. n. 28750/2019 cit.; cfr. anche Cass. n. 13179/2017 cit. che ha escluso che sia assoggettata al termine di decadenza di cui all'art. 32 l'azione per l'accertamento e la dichiarazione del diritto di assunzione del lavoratore presso l'azienda subentrante nell'ipotesi di cambio di gestione dell'appalto con passaggio dei lavoratori all'impresa nuova aggiudicatrice).
Ancora con specifico riferimento al contratto di collaborazione a progetto, questa Corte ha precisato che qualora un simile rapporto "si risolva per effetto della manifestazione di volontà del collaboratore di voler recedere dal rapporto, ovvero cessi per la sua naturale scadenza, l'azione per l'accertamento della subordinazione e la riammissione in servizio è esercitabile nei termini di prescrizione, senza essere assoggettata al regime decadenziale di cui all'art. 32, comma 3, lett. b) della legge n. 183 del 2010, poiché il regime in questione si applica al solo caso di 'recesso del committente' e non è estensibile alle ipotesi in cui manchi del tutto un atto che il lavoratore abbia interesse a contestare o confutare" (Cass. 10 dicembre 2019, n. 32254; Cass. 25 novembre 2019, n. 30668); nella medesima pronuncia si è sottolineato come, anche là dove l'obbligo di impugnazione stragiudiziale è stato esteso all'accertamento della natura del rapporto intercorso tra le parti, ai sensi della lett. a) del terzo comma dell'art. 32 citato, ciò è avvenuto sempre in relazione ad atti di risoluzione del rapporto per volontà datoriale; la disposizione di cui alla lett. a) del comma 3 cit. è, difatti, formulata con riferimento a "licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro", il che conferma la natura impugnatoria della disposizione in esame.
Gli esempi che precedono sono tutti di termine decadenziale decorrente o da atti scritti recettizi nei confronti del lavoratore oppure da un fatto appositamente tipizzato dal cit. art. 32 (scadenza del contratto di lavoro a tempo determinato).
Si può ora pervenire alla conclusione.
Estendere analogicamente ad un "fatto" (la cessazione dell'attività del lavoratore presso il committente) una norma (l'art. 32 cit.) calibrata in relazione ad "atti" scritti e recettizio ad un diverso e tipizzato fatto (scadenza del contratto a tempo determinato) incontra plurimi ostacoli.
Il primo - insormontabile e già di per sé dirimente - risiede nel carattere eccezionale delle norme in tema di decadenza, in quanto tali non suscettibili di applicazione analogica.
Il secondo consiste nell'aporia che si creerebbe rispetto all'impianto complessivo del combinato disposto degli artt. 6 legge n. 604/1966 e 32 legge n. 183/2010 e alla costante giurisprudenza di questa S.C. che, come già detto, ricollega il suddetto onere di impugnazione a provvedimenti datoriali scritti.
Il terzo si riscontra nell'obbligo per il giudice di adottare - fra più possibili interpretazioni - una che sia costituzionalmente conforme.
Introdurre nuovi termini decadenziali per l'esercizio d'un dato diritto appartiene alla discrezionalità del legislatore: nondimeno essa non può esprimersi con modalità tali da determinare, nel bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti, il totale sacrificio o la compressione eccessiva di uno di essi, dovendosi invece tenere conto della proporzionalità dei mezzi rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare e delle finalità che si vogliano perseguire, considerate le circostanze e le limitazioni concretamente sussistenti (cfr., ex plurimis, Corte cost. n. 71 del 2015, n. 17 del 2011, n. 229 e n. 50 del 2010, n. 221 del 2008 e n. 1130 del 1988; ordinanza n. 141 del 2001).
Ora, per rispettare il nucleo irriducibile del diritto d'azione di cui all'art. 24 Cost. è necessario che qualunque suo ipotetico termine di decadenza venga configurato in modo tale che il dies a quo del suo decorso sia esattamente individuabile dal soggetto onerato, mentre nel caso in oggetto il lavoratore, finché non riceva una formale comunicazione, non sa se e quando cesserà definitivamente il proprio personale utilizzo (e/o quello di tutti gli altri suoi colleghi di lavoro) presso il committente.
Ammettere, invece, il decorso della decadenza anche in difetto d'una formale comunicazione di cessazione di tale utilizzo renderebbe eccessivamente aleatorio l'esercizio del diritto d'azione del lavoratore, stante l'intrinseca difficoltà di identificarne con esattezza il dies a quo. Per di più tale difficoltà sarebbe acuita dalla brevità del termine (60 giorni), il che esclude che anche soltanto una porzione di esso possa essere erosa dal tempo necessario ad accertare l'effettiva definitività della cessazione dell'impiego presso il committente.
Infine, è appena il caso di rammentare che l'art. 39, comma 1, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, che prevede l'applicazione del termine di decadenza di 60 giorni e la sua decorrenza "dalla data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività presso l'utilizzatore", non solo è inapplicabile ratione temporis perché successivo ai fatti di causa, ma è altresì riferito alla sola somministrazione lavoro e non anche all'appalto illecito, sicché, sempre in virtù del carattere di stretta interpretazione delle norme sulla decadenza, non è suscettibile di estensione analogica.
Né è conferente al caso in esame il precedente di Cass. 13 settembre 2016, n. 17969 in tema di somministrazione irregolare, secondo cui per costituire il rapporto di lavoro direttamente in capo all'utilizzatore, ai sensi dell'art. 27, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003, è onere del lavoratore impugnare il licenziamento nei confronti di quest'ultimo, posto che, in virtù del subentro disposto ex lege, gli atti di gestione compiuti dal somministratore producono nei confronti dell'utilizzatore tutti gli effetti negoziali, anche modificativi del rapporto di lavoro, ivi incluso il licenziamento: e non è conferente sia perché riferito alla somministrazione irregolare (e non all'appalto, oggetto della presente controversia) sia perché riferito all'impugnazione d'un licenziamento comunicato per iscritto (il che nella specie è mancato).
7. L'accoglimento dei primi due motivi di ricorso assorbe l'esame degli altri, logicamente subordinati.
8. La sentenza deve pertanto essere cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, affinché proceda ad un nuovo esame attenendosi al seguente principio di diritto: "Il doppio termine di decadenza dall'impugnazione (stragiudiziale e giudiziale) previsto dal combinato disposto degli artt. 6, commi 1 e 2, legge n. 604/1966 e 32, comma 4, lett. d), legge n. 183/2010, non si applica all'azione del lavoratore - ancora formalmente inquadrato come dipendente di un appaltatore - intesa ad ottenere, in base a/l'asserita illiceità dell'appalto in quanto di mera manodopera, l'accertamento del proprio rapporto di lavoro subordinato in capo al committente, in assenza di una comunicazione scritta equipollente ad un atto di recesso".
9. Il medesimo giudice di rinvio provvederà anche a regolare le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo ed il secondo motivo di ricorso, assorbiti i residui motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d'appello di Roma in diversa composizione.