Rigettato il ricorso presentato da alcuni avvocati che sostenevano che il contributo da pagare al CNF fosse riservato ai soli cassazionisti. Secondo la Suprema Corte, il Consiglio Nazionale Forense esercita funzioni di interesse generale per tutta la categoria professionale.
Con l'ordinanza n. 30960 del 29 ottobre 2021, la Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi sul ricorso avanzato dal alcuni avvocati che avevano ricevuto l'avviso di pagamento dei contributi per le annualità 2005-2009 a favore del CNF.
La vicenda trae origine dalla delibera adottata dal COA di Roma...
Svolgimento del processo
1.- La presente controversia nasce dalla deliberazione assunta dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati (COA) di X che stabilisce di non riscuotere più dagli avvocati non abilitati al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, a far data dall’anno 2001, il contributo che ai sensi dell'art. 14 D.lgs. n. 582/1944 il Consiglio Nazionale Forense (CNP) determina annualmente. Il CNF, dopo il responso favorevole dell'Autorità vigilante sul corretto funzionamento degli ordini professionali, ha proceduto alla riscossione nei confronti dei diretti interessati, tramite Equitalia. I ricorrenti, avvocati, raggiunti da avviso di pagamento del predetto contributo per gli anni dal 2005 al 2009, hanno convenuto dinanzi al Giudice di pace di Roma il CNF, che resistendo ha proposto regolamento preventivo di giurisdizione.
Questa Corte pronunciando a sezioni unite con le ordinanze n. 1782/2011 e 6601/2011, ha dichiarato la giurisdizione del giudice tributario, ritenendo la natura tributaria della prestazione imposta. Il giudizio è stato quindi riassunto innanzi alla Commissione tributaria provinciale (CTP) di Roma che previa riunione dei due giudizi, ha accolto le domande degli avvocati.
Ha proposto appello il CNF, che la Commissione tributaria regionale del Lazio ha accolto, ritenendo il contributo dovuto non solo dagli avvocati iscritti all'albo specificamente tenuto dal CNF e cioè l'albo dei patrocinanti presso le giurisdizioni superiori, ma da tutti gli iscritti all’albo degli avvocati, come peraltro oggi confermato dalla legge. 31 dicembre 2012 n. 247. Ciò in quanto il CNF svolge funzioni nell'interesse della intera categoria e la tenuta dell'albo dei cassazionisti non è che una funzione ulteriore, peraltro neppure esercitata alla data dell'entrata in vigore del D.lgs. n. 382/1944. Il giudice d'appello ha anche disatteso la richiesta dei ricorrenti di sollevare incidente di costituzionalità rilevando che la norma limita la determinazione del contributo alla copertura delle spese strettamente necessarie al funzionamento dell'organo.
2.- Avverso la predetta sentenza gli avvocati hanno proposto ricorso per cassazione affidandosi a tre motivi. Ha resistito con controricorso il CNF. Le parti hanno depositato memorie e la causa è stata trattata alla udienza camerale del 6 maggio 2021.
Motivi della decisione
3.- Con il primo motivo del ricorso, i ricorrenti denunziano violazione dell'art. 14 del D.lgs. lgt. n. 382/1944, in relazione all'art. 360, comma 1, n.3, c.p.c. Deducono l'inesistenza del potere impositivo del CNF nei confronti degli avvocati non cassazionisti, interpretando l'art. 4 cita o nel senso che il contributo dallo stesso previsto sia dovuto soltanto dagli iscritti nell'albo dei patrocinanti presso le giurisdizioni superiori, ossia l'unico albo detenuto dal CNF medesimo. Tale interpretazione discende dal fatto che la disposizione in esame usa il singolare "albo" e non il plurale "albi" e collegherebbe l'obbligo del contributo alle spese di funzionamento dell'albo specifico, con la conseguenza che il prelievo in esame è dovuto se ed in quanto vi sia una diretta correlazione tra l'importo richiesto ed il costo del funzionamento amministrativo del CNF. Ad ulteriore conferma della loro tesi i ricorrenti affermano che nel medesimo D.lgs. lgt. 382 del 1944 vi sono due distinte norme: l'art.7 che disciplina i contributi che possono imporre gli Ordini territoriali, ossia quello annuale per coprire le spese di funzionamento degli stessi, uno per l'iscrizione nel registro dei praticanti, uno per l'iscrizione nell'Albo, nonché una tassa per il rilascio di certificati e di pareri per la liquidazione degli onorari; l'art. 4 che disciplina il solo contributo determinato dal CNF da corrispondersi annualmente dagli iscritti nell'albo per le spese del funzionamento del Consiglio medesimo. A loro avviso tale normativa conferma che ciascun soggetto può imporre un contributo solo ai rispettivi iscritti, e ben distingue il ruolo dei singoli ordini territoriali da quello del CNF.
Inoltre, i ricorrenti rilevano che il CNF non fornisce servizi amministrativi agli avvocati non cassazionisti. Aggiungono che tale servizio specifico non può individuarsi nella funzione giurisdizionale disciplinare pasto che non tutti gli avvocati sono sottoposti a procedimenti disciplinari da impugnare dinanzi al CNF potendosi, piuttosto, in tali casi, giustificarsi solo l'imposizione di una sorta di contributo unificato equivalente a quello previsto per l'attività giurisdizionale dell'autorità giudiziaria.
Con il secondo motivo del ricorso, i ricorrenti lamentano violazione e falsa applicazione dell'art. 35 della legge 247/2012 e/o dell'art. 3 DPR 137/2012, nonché violazione dell'art. 1, comma 2, della legge 112/2000, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. ricorrenti sostengono che la normativa sopravvenuta in materia di ordinamenti professionali (nella specie, forense) confermerebbe la loro tesi difensiva, cioè che l'art. 14, D.lgs. lgt. n. 382/44 debba applicarsi unicamente agli avvocati cassazionisti. In particolare, soltanto a seguito della riforma recata dal DPR 137/2012, la quale ha introdotto l'albo unico nazionale, si potrebbe ritenere che gli obbligati a pagare il contributo al CNF siano tutti gli avvocati iscritti nei 165 albi territoriali (cassazionisti e non). Peraltro, ritengono che non potrebbe affermarsi la natura interpretati-v della disposizione in esame, perché l'art. 1, comma 2, della legge 212/00 (Statuto dei diritti del contribuente) sancisce che l'adozione di norme interpretative in materia tributaria può essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica; mancando ogni espressa qualificazione di detta normativa come interpretativa, evidenziano che la stessa ha natura innovativa a conferma che la precedente realtà legislativa era conforme alle loro tesi.
4.- I primi due motivi possono esaminarsi congiuntamente e sono entrambi infondati.
L'art 14 del D.lgs. lgt. 382 del 1944 prevede che "Le commissioni predette (Commissioni centr ) esercitano le attribuzioni stabilite dagli ordinamenti professionali vigenti ed inoltre: danno parere sui progetti di legge e di regolamento che riguardano le rispettive professioni e sulla loro interpretazione, quando ne sono richiesti dal Ministro per la grazia e giustizia. Determinano inoltre la misura del contributo da corrispondersi annualmente dagli iscritti nell’albo per le spese del proprio funzionamento".
La norma è inserita nel contesto di un decreto legislativo luogotenenziale che nel 1944 ha disciplinato in via generale il funzionamento dei Consigli e delle Commissioni centrali delle professioni per cui esercizio è necessario essere iscritti in un albo, dettando delle norme quadro che, come si rende evidente anche dalla lettura dello stesso art 14, sono poi suscettibili di essere integrate e specificate dalle singole norme di ordinamento professionale (esercitano le attribuzioni stabilite dagli ordinamenti professionali vigenti).
Nel testo dell'intero decreto legislativo la parola "albo" è utilizzata nel senso di albo professionale, quello cui è necessario essere iscritti per esercitare la professione; quando è necessario individuare un albo avente caratteristiche specifiche (es. art 12, albo nazionale), ciò è espressamente detto. Nel testo dell'art 14 si parla semplicemente di "albo", senza altre specificazioni e pertanto nulla autorizza a ritenere che in questa norma alla parola "albo" si debba attribuire un significato diverso da quello generico utilizzato nell' intero decreto e più ristretto, in particolare che si intenda l'albo specificamente tenuto -se tenuto dalla Commissione centrale (Consiglio).
La lettura sistematica della norma orienta dunque per ritenere che il contributo di cui in essa si parla sia dovuto da tutti gli iscritti all'albo professionale.
Ove si voglia poi ricorrere al criterio logico, la evidente ratio legis della norma è quella di consentire all'ente di imporre e riscuotere un contributo per il funzionamento da tutti coloro che di queste funzioni si giovano, sebbene al di fuori di un rapporto sinallagmatico con l’iscritto (Cass. s.u.1782/2011). Si tratta infatti di una formazione sociale che applica principi generali di solidarietà ed autoresponsabilità che governano tutte le formazioni sociali, per cui ciascuno dei partecipanti è tenuto a concorre alle spese comuni. Di ciò sono consapevoli gli stessi ricorrenti, che accentuano la necessità di una correlazione tra l'importo richiesto ed il costo del funzionamento amministrativo delle Commissioni; negano però che l'attività del CNF almeno nel periodo in questione, costituisca un servizio per gli avvocati non cassazionisti.
4.1.- La tesi non può condividersi.
Le funzioni del CNF, pur nella progressiva evoluzione che nel tempo lo ha caratterizzato, sono sempre state esercitate nell'interesse di tutti gli avvocati; non è espressione di un ordine professionale diverso e separato, né i patrocinati presso le giurisdizioni superiori cessano di essere avvocati al momento della loro iscrizione in questo specifico albo. La funzione primaria del Consiglio, prevista dalla legge professionale, è quella di controllo sul corretto esercizio della professione sul tutto il territorio nazionale, funzione che dopo la caduta del fascismo non è più demandata ad un organo controllato dallo Stato corporativo, tramite la nomina e revoca discrezionale da parte del ministro dei suoi componenti, ma è espressione della stessa avvocatura, poiché sono gli avvocati che eleggono i componenti del CNF.
In particolare, il Consiglio approva il codice deontologico (per gli anni qui rilevanti era in vigore il codice deontologico approvato il 17 aprile 1997 e succ. mod.) cd è giudice disciplinare di seconda istanza.
E' erroneo pensare che la funzione disciplinare, che il CNF esercita -ed esercitava all'epoca cui riferiscono i contributi oggetto di causa quale funzione giurisdizionale, riguardi solo i professionisti attinti dal procedimento disciplinare. Essa è invece una garanzia di libertà cd autonomia per tutti gli avvocati, poiché il controllo sul corretto esercizio della professione si svolge come espressione di una forma di autogoverno; al tempo stesso così si persegue l'obiettivo di mantenere ed accrescere il prestigio sociale della categoria, poiché vi è un organo indipendente che sanziona le condotte abusive. La selettività dell'accesso alla professione, il controllo sul suo corretto esercizio, il rigore ma anche l'indipendenza dell'organo disciplinare, connotano l'avvocatura nel suo insieme e disegnano i contorni di una professione qualificata e qualificante, tutelando così anche l'affidamento della collettività (Corte Cost. 405/2005; Corte Cost. 114/1970).
Inoltre, l'art. 14 cit. attribuisce specificamente alle Commissioni (e quindi anche al CNF) la funzione di rendere pareri sui progetti di legge e di regolamento che riguardino le rispettive professioni e sulla loro interpretazione, anche questa funzione indubbiamente di interesse generale per tutti gli iscritti all'albo professionale. Si consideri ad esempio che la partecipazione alla funzione regolamentare comporta la predisposizione delle tariffe forensi da sottoporre al Ministro per l'approvazione; i ricorrenti non possono ignorare che il D.M. 8.4. 004, relativo alle tariffe forensi che essi stessi hanno sicuramente applicato nel periodo qui rilevante, è stato adottato previo esame della deliberazione del CNF del 20.9.2002 sui criteri per la determinazione degli onorari e dei diritti; così come è del Consiglio la circolare del 4.9.2006, n. 22-C/2006 sulla interpretazione e applicazione del D.L. 4.7.2006, n. 223 convertito in legge 4. .2006, o. 248, che ha introdotto importanti novità di interesse generale per l'avvocatura, non ultimo la modifica delle regole sul patto di quota lite (art 2233 c. c.).
Quanto al servizio di tenuta dell'albo dei cassazionisti, si deve in primo luogo evidenziare che la norma correla il contributo al funzionamento della Commissione (Consiglio) e non alle spese di tenuta dell'albo (contributo da corrispondersi annualmente dagli iscritti nell'albo per le spese del proprio funzionamento) e che questa potrebbe anche non essere una delle funzioni attribuite alle Commissioni, il cui compito generale e comune per tutte le professioni è individuato nella funzione consultiva, rinviandosi per il resto ai singoli ordinamenti professionali; e sul punto il giudice d'appello ha correttamente evidenziato che tra le funzioni del CNF al momento della entrata in vigore del D.lgs. lgt. n. 382/1944 non vi era quella della tenuta dell'albo degli avvocati abilitati al patrocinio presso le giurisdizioni superiori. In ogni caso si deve rilevare che anche la corretta tenuta dell'albo degli avvocati abilitati al patrocinio presso le giurisdizioni superiori risponde un interesse generale della categoria, perché contribuisce anch'essa . alla tutela dell'affidamento della collettività; si tratta cioè della garanzia che questa professione si esercita secondo una regola di competenza professionale progressiva, in base alla quale per le difese più complesse vengono richieste competenze maggiori.
4.-2.- La riforma del 2012 non ha mutato queste caratteristiche, anzi le ha ulteriormente accentuate. L'argomento che trattasi di legge innovativa e non di interpretazione autentica non suffraga la tesi dei ricorrenti, perché non necessariamente la legge innovativa deve stravolgere il precedente assetto; la produzione legislativa di questi ultimi anni in svariati settori, si è spesso caratterizzata per il recepimento del c.d. del diritto vivente, ovvero ancora per il riordino in un corpo unitario di norme provenienti da fonti diverse.
In questi termini può dirsi la nuova legge professionale forense ha sviluppato è meglio precisa o quelli che sono i compiti del Consiglio ponendosi sulla falsa riga, come nota il giudice d'appello, di quanto già la legge professionale e le altre norme di riferimento demandavano al CNF. L'argomento è stato utilizzato dal giudice di secondo grado solo per: descrivere una evoluzione coerente della normativa, che conferma la natura delle funzioni del Consiglio, di rappresentanza dell'intera avvocatura, esplicitate invero dalla riforma del 2012, ma già in precedenza riconosciute all'ente anche per effetto di interventi della Corte Costituzionale che, in particolare, con la sentenza n. 171 del 1996 ebbe modo di precisare che <<il CNF tutela un interesse pubblicistico, ragioni per cui non si può non riconoscergli un molo di rappresentanza sia delle diverse articolazioni associative, altrimenti prive d'un canale di comunicazione istituzionale, sia dei singoli che non aderiscano ad alcuna associazione>>.
Pertanto, poiché il Consiglio nazionale forense svolge -e svolgeva anche in epoca anteriore alla riforma operata dalla legge 247/2012- compiti e funzioni di interesse generale per tutta la categoria professionale degli avvocati, al suo funzionamento devono concorrere, tramite il versamento del contributo previsto dall'art 14 del D.lgs. lgt. n. 382/1944 tutti gli avvocati iscritti nell'albo professionale, anche se non iscritti nell'albo speciale dei patrocinanti presso le giurisdizioni superiori.
5.- Con il terzo motivo del ricorso, in via subordinata, le parti ripropongono la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 D.lgs. lgt. n. 382/1944 in riferimento all'art. 2,3 della Costituzione, lamentando la mancanza di una predeterminazione 1 gaie dei criteri di quantificazione contributiva.
La questione di legittimità costituzionale è manifestamente infondata, posto che la Corte Costituzionale già in più occasioni precisato in che termini deve intendersi il principio di cui all'art. 23 Cost.
Il principio di riserva ai legge sancito dall'art. 23 della Carta Costituzionale rappresenta un principio tipico delle democrazie liberali, in virtù del quale nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge. Tale riserva è però relativa e non assoluta perché la norma richiede che la prestazione sia imposta non "per legge", ma "in base alla legge"; ciò consente di lasciare all'autorità amministrativa consistenti margini di regolazione delle fattispecie, pur dovendosi evitare che la quantificazione della prestazione sia rimessa all'arbitrio dell'ente impositore.
In questi termini la Corte Costituzionale ha precisato che legge non può limitarsi a prevedere una prescrizione normativa "in bianco", genericamente orientata ad un principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell'azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini.. La fonte primaria deve, invece, stabilire sufficienti criteri direttivi e linee generali di disciplina, richiedendosi in particolare che la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dai pertinenti precetti legislativi (Corte Cost. 69/2017; Corte Cost. 139/2019).
In particolare, si è affermato che la norma costituzionale deve intendersi come rispettata anche in assenza di un'espressa indicazione legislativa dei criteri, limiti e controlli sufficienti a circoscrivere l'ambito di discrezionalità della amministrazione, purché gli stessi siano desumibili dalla destinazione della prestazione, ovvero dalla composizione e dal funzionamento degli organi competenti a determinarne la misura secondo un modello procedimentale idoneo ad evitare possibili arbitri (Corte Cost. 507/ 1988; Corte Cost. 182/1994; Corte Cost. 105/2003; Corte Cost. 190/2007).
La giurisprudenza costituzionale ha affermato che non è compito necessario della legge specificare un limite minimo o massimo della prestazione richiesta, e che anche qualora i criteri preordinati a circoscrivere la potestà impositiva non siano espressi dall'enunciato legislativo, la riserva di legge deve ritenersi rispettata quando, dal contesto della disciplina di cui esso è parte integrante, si possono evincere elementi o riferimenti comunque capaci di limitare l'attività dell'organo che definisce il quantum dell'onere imposto. In particolare, si è affermato che il rispetto della riserva relativa di legge di cui all'art. 23 Cost. va apprezzato prendendo in considerazione l'intero sistema delle norme in cui ciascuna prestazione s'inscrive, potendo eventuali carenze della singola disposizione di legge essere colmate attraverso una interpretazione sistematica del tessuto normativo, complessivamente considerato, in cui essa si innesta e dal quale sono stati tratti, anche per implicito, gli elementi essenziali dell'imposizione (Corte Cost. 56/1972; Corte Cost 7/2001; Corte Cost 69/2017).
E' dunque ammissibile il rinvio a provvedimenti amministrativi diretti a determinare elementi o presupposti della prestazione, purché risultino assicurate, mediante la previsione di adeguati parametri, le garanzie in grado di escludere un uso arbitrario della discrezionalità amministrativa (così anche la giurisprudenza di questa Corte v. Cass. 16498/2003; Cass. 18262/2004; Cass. 22322/2006).
In alt.re parole, l'integrazione ad opera di fonti secondarie è ammessa a condizione che la legge stabilisca criteri idonei a disciplinare gli eventuali margini di discrezionalità lasciati amministrazione nella determinazione in concreto della prestazione e ne individui almeno l'oggetto.
5.1.- Applicando questi' principi al caso in esame si osserva che l'art 14 pone un parlamento concreto e specifico per la determinazione del contributo, e lo indica nella copertura delle spese di funzionamento dell’ente; con ciò il contributo si lega strettamente al bilancio dell'ente e cioè un documento contabile la cui formazione è a sua volta regolata da norma di legge ed ordinamentali e che è sottoposto a controlli. Per questa ragione il CNF invoca a sua difesa la sentenza della Corte costituzionale n. 67/ 1973 che in una fattispecie analoga (contributo per il Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro) ha ritenuto sufficiente a soddisfare la riserva di legge relativa di cui all'art 23 Cost. la circostanza che la determinazione del contributo sia ancorato al fabbisogno finanziario necessario a coprire le spese, e che a sua volta l'entità di dette spese sono desumibili dal bilanci annuali, sottoposti a controlli.
I controricorrenti eccepiscono che per i bilanci del CNF non sono previsti controlli da parte di autorità esterne e che detti bilanci non vengono portati all'attenzione degli iscritti: non per quanto tuttavia si può ritenere che il bilancio dell'ente sia un atto arbitrario poiché comunque esso è sottoposto a controlli da parte dei revisori dei conti, tenendo conto che il CNF si è dotato di un regolamento per il proprio funzionamento interno, nonché di un regolamento sulla notabilità. Gli ordini ed i Collegi professionali costituiscono infatti enti pubblici non economici (Cass. 21226/2011) sebbene su base associativa e ad appartenenza necessaria; ciò significa che il CNF deve adeguare la sua organizzazione a criteri di trasparenza ed efficienza secondo quanto dispone il D.lgs. 165/2001 e la sua contabilità e la gestione economico finanziaria è soggetta alle regole poste dal DPR 97/2003 nonché del D.lgs. 286/1999. Inoltre, l'ente è (cd era anche all'epoca delle imposiziione in questione) soggetto alla vigilanza del Ministro della giustizia, come previsto dalla legge professionale.
In sintesi, l’art. 14 del D.lgs. lgt. 382/1944 nel conferire alle Commissioni centrali e quindi anche al CNF) il potere di imporre agli iscritti all'albo professionale un contributo, rapportato alle spese necessarie suo funzionamento, non si pone in contrasto con l'art 23 Cost. per difetto di determinatezza, poiché la prestazione è imposta in base ad una previsione di legge che contempla la destinazione della prestazione, collegandola specificamente ad un paramento, quali le spese per il funzionamento dell'ente, la cui concreta quantificazione segue procedure legalmente predeterminate poiché il funzionamento del Consiglio, e il suo bilancio, in ragione della sua natura di ente pubblico non economico, sono regolati da un complesso sistema normativo, nonché da un sistema di controlli, idonei ad escludere ogni profilo di arbitrarietà nella quantificazione del contributo.
Ne consegue il rigetto del ricorso. Considerata la novità della questione le spese del giudiziosi compensano interamente tra le parti.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Compensa interamente tra le parti le spese del giudizio.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del DPR 115 del 2002 atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.