Ciò che rileva è la presenza di condotte oggettive petulanti ed insistenti, idonee ad arrecare disturbo morale alla vittima.
Il fatto accertato riguardava la ripetizione insistente, all'interno di un breve arco temporale, di chiamate telefoniche notturne che arrecavano un profondo stato d'ansia alla destinataria, per le quali l'autrice veniva condannata dal Tribunale alla pena dell'ammenda per il reato di molestie.
Avverso la sentenza di condanna...
Svolgimento del processo
1. V.R. ricorre avverso la sentenza del Tribunale di Cosenza del 2 ottobre 2019, con la quale è stata condannata alla pena di euro 500,00 di ammenda, in ordine al reato di molestia o disturbo alle persone, ai sensi dell'art. 660 cod. pen., perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, nel periodo intercorrente dal 30 agosto 2014 al 30 gennaio 2015, aveva effettuato per petulanza numerose chiamate con il mezzo del telefono in orario notturno a N.A. , arrecando alla stessa molestia.
2. La ricorrente articola due motivi di ricorso.
2.1. Con il primo motivo denuncia vizio di motivazione della sentenza impugnata, perché il giudice di merito avrebbe omesso di considerare che la persona offesa aveva escluso che l'autore materiale delle telefonate fosse stata una donna, ma un uomo. Il giudice di merito, inoltre, avrebbe omesso di considerare che non erano state effettuate indagini circa il fatto che l'imputata avesse avuto una reale disponibilità della Sim card a lei intestata dalla quale furono effettuate le chiamate.
2.2. Con il secondo motivo, lamenta inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, perché il Tribunale non aveva considerato che, nel caso di specie, le condotte non avevano avuto il carattere della petulanza e non erano state costituite da un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nella altrui sfera di libertà. L'imputata, inoltre, non avrebbe potuto agire con dolo specifico - così come richiesto dalla fattispecie in oggetto - posto che la stessa non conosceva la parte offesa, se non per un superficiale contatto avvenuto 10 anni prima, e non aveva, quindi, alcuna ragione plausibile che avrebbe giustificato il bisogno di recare alla stessa disturbò. Nel caso di specie, inoltre, come dichiarato dalla parte offesa (la quale non aveva sentito la necessità neanche di costituirsi parte civile), quest'ultima non aveva subito alcun disturbo o stato di ansia, ma aveva proceduto al deposito della querela, perché in passato era stata vittima del reato di stalking.
2.3. All'udienza del 29 settembre 2021 la ricorrente, in via subordinata, chiede accertarsi l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile.
1.1. Giova premettere che nel giudizio di cassazione sono precluse al giudice di legittimità la rilettura di elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice di merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, M., Rv. 265482); né è sindacabile in questa sede, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti tra le dichiarazioni di persone informate dei fatti o coindagati, e la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, T., Rv. 250362). Sempre in premessa, va ricordato che la mancanza, l'illogicità e la contraddittorietà della motivazione, come vizi denunciabili in sede di legittimità, devono risultare di spessore tale da risultare percepibili ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate, in modo logico e adeguato, le ragioni del convincimento senza vizi giuridici (in tal senso, conservano validità, e meritano di essere tuttora condivisi, i principi affermati da Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, P., Rv. 226074).
1.2. Alla luce dei principi sop11a indicati, la Corte ritiene che il ricorso non sia consentito in sede di legittimità, essendo costituito da mere doglianze in punto di fatto. Va evidenziato, infatti, come le doglianze sollevate sono tese a sovrapporre un'interpretazione delle risultanze probatorie diversa da quella recepita dal giudice di merito, più che a denunciare un vizio rientrante in una delle categorie individuate dall'art. 606 cod. proc. pen.. In particolare, la ricorrente non tiene conto della ricostruzione dei fatti offerta dal Tribunale, che ha evidenziato che il sostituto commissario aveva dichiarato di aver riscontrato sui tabulati la corrispondenza delle telefonate ricevute dalla parte offesa (e indicate in querela) e che la Sim card dalla quale erano state effettuate le telefonate era intestata all'imputata. Le molestie telefoniche, pertanto, avevano cagionato disturbo e arrecato un profondo stato d'ansia alla vittima, a nulla rilevando che la stessa aveva riferito di aver sentito al telefono "un ansimare", riconducibile forse a un uomo, in quanto tale percezione non era stata supportata da altri elementi e, quindi, considerata dal giudice di merito priva di rilievo. Il Tribunale, inoltre, ha evidenziato che la molestia era stata realizzata con petulanza, in quanto la condotta si era ripetuta, con identiche modalità, in un breve arco temporale. Anche il secondo motivo di ricorso, quindi, è inammissibile: per il perfezionamento del reato in oggetto, infatti, è richiesto che la volontà della condotta e la direzione della volontà siano direzionate verso il fine specifico di interferire inopportunamente nell'altrui sfera di libertà (Sez. 1, n. 19071 del 30/03/2004, G., Rv. 228217). In tal senso, si consideri che, ai fini della sussistenza del reato, gli intenti persecutori dell'agente sono del tutto irrilevanti, una volta che si sia accertato che, comunque, a prescindere dalle motivazioni che sono alla base del comportamento, esso è connotato dalla caratteristica della petulanza, ossia da quel modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà delle persone. Nel caso di specie, pertanto, nessun vizio logico argomentativo è ravvisabile nella motivazione sviluppata in relazione al reato di molestie.
Il giudice della cognizione ha esplicitato, con motivazione puntuale e adeguata, le ragioni per le quali ha ritenuto fondata la responsabilità penale in capo a R.. Il ricorso, quindi, non può trovare accoglimento, anche perché il Collegio condivide la linea interpretativa tracciata da questa Corte, secondo la quale l'epilogo decisorio non può essere invalidato da prospettazioni alternative che si risolvano in una "mirata rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell'autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perché illustrati come maggiormente plausibili, o perché assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, B., Rv. 234148).
1.3. Relativamente all'eccepita prescrizione, il capo di imputazione si riferisce ad un reato commesso fino al 30 gennaio 2015: pertanto, il termine di prescrizione di cinque anni è scaduto il 20 gennaio 2020, successivamente alla sentenza di condanna del 2 ottobre 2019; l'eccezione è quindi infondata, posto che l'inammissibilità del ricorso per cassazione, anche se per manifesta infondatezza dei motivi, non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude la possibilità di dichiarare le cause di non punibilità di cui all'art. 129 cod. proc. pen., ivi compresa la prescrizione per il decorso del relativo termine intervenuta nelle more del procedimento di legittimità (Sez. 2, n. 28848 del 08/05/2013, C., Rv. 256463). Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., ne consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché al versamento in favore della cassa delle ammende di una somma determinata, equamente, in euro 3.000,00, tenuto conto che non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità» (Corte cast. n. 186 del 13/06/2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.