Rigettato il ricorso delle imputate che lamentavano un vizio nell'individuabilità del soggetto offeso. Per la Cassazione, anche se non si indica nome e cognome del destinatario delle offese, è sufficiente che dalle parole utilizzate, la persona offesa sia identificabile.
Le imputate ricorrono in Cassazione chiedendo l'annullamento della sentenza della Corte territoriale che le aveva condannati per il delitto di diffamazione aggravata commesso mediante pubblicazione sul profilo “Facebook” di post contenenti frasi ingiuriose nei confronti della persona offesa. In sede di legittimità, le...
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Torino, in parziale riforma della sentenza con cui il tribunale di Verbania, in data 6.4.2016, decidendo in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato D.A. e V.M., ciascuno alla pena ritenuta di giustizia e al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore delle costituite parti civili, in relazione al delitto di diffamazione aggravata, ex art. 595, co. 3, c.p., commesso in danno di Z.G. mediante pubblicazione, sul profilo "Facebook" riconducibile al V., di post contenenti frasi ingiuriose nei confronti della persona offesa, rideterminava in senso più favorevole agli imputati l'entità della pena loro irrogata e riduceva la somma liquidata a titolo di provvisionale, confermando nel resto la sentenza impugnata.
2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l'annullamento, hanno proposto tempestivo ricorso per cassazione entrambi gli imputati, lamentando, con un unico atto di impugnazione sorretto da motivi comuni: 1) violazione di legge penale, in relazione al computo del termine di prescrizione ex artt. 157, 159 e 161, c.p.p., in riferimento all'art. 83, d.l. n. 18 del 2020, convertito, con modificazioni, nella I. 24.4.2020; 2) erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione in ordine alla individuabilità del soggetto offeso quale elemento della fattispecie di cui all'art. 595, c.p.; 3) erronea applicazione dell'art. 442, c.p.p., per "omessa riduzione della diminuente del rito con conseguente violazione del divieto di reformatio in peius ex art. 597, co. 3, c.p.p."
2.2. Con requisitoria scritta del 17.11.2021, depositata sulla base della previsione dell'art. 23, co. 8, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, che consente la trattazione orale in udienza pubblica solo dei ricorsi per i quali tale modalità di celebrazione è stata specificamente richiesta da una delle parti, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione chiede che la sentenza impugnata sia annullata senza rinvio per essere il reato estinto per prescrizione.
2.3. Con conclusioni scritte del 29.11.2021, pervenute a mezzo di posta elettronica certificata, gli avvocati M.Z. e M.F., difensori di fiducia degli imputati, insistono per l'accoglimento dei ricorsi.
3. I ricorsi sono parzialmente fondati e vanno accolti nei seguenti termini.
4. Fondato appare il primo motivo di ricorso.
5. Ed invero, premesso che secondo un condivisibile orientamento affermatosi nella giurisprudenza di legittimità, è ammissibile il ricorso per cassazione con il quale si deduce, anche con un unico motivo, l'intervenuta estinzione del reato per prescrizione maturata prima della sentenza impugnata ed erroneamente non dichiarata dal giudice di merito, integrando tale doglianza un motivo consentito ai sensi dell'art. 606, comma primo, lett. b), c.p.p. (cfr. Cass., Sez. U., 17.12.2015, n. 12602, rv. 266819; Cass., sez. IV, 06/11/2012, n. 49817, rv. 254092; Cass., sez. VI, 21/03/2012, n. 11739, M., rv. 252319; Cass., sez. V, 11/07/2011, n. 47024, rv. 251209), va rilevato che nel caso in esame il giudice di secondo grado, in violazione del disposto dell'art. 129 c.p.p., ha omesso di rilevare e dichiarare l'estinzione del reato per cui si procede, verificatasi prima del giudizio di appello. Ai sensi di quanto previsto dagli artt. 157, 160 e 161, c.p., infatti, il termine di prescrizione del reato in questione, nella sua massima estensione, pari a sette anni e sei mesi, in considerazione degli intervenuti atti interruttivi e in mancanza di cause di sospensione del relativo decorso, risulta perento alla data del 5.12.2020, trattandosi di fatti commessi tra il 31.5.2013 e il 5.6.2013, dunque prima della data della pronuncia della sentenza di secondo grado, che risale all'8.1.2021, come del resto riconosciuto dalla stessa corte territoriale. Il giudice di appello, tuttavia, nel rigettare la relativa eccezione formulata dal ricorrente, ha evidenziato che, "essendo il presente procedimento pendente presso la corte d'appello prima del cd. periodo emergenziale Covid (che in senso lato va dal 9 marzo al 30 giugno 2020), la sua fissazione diretta in data successiva al periodo di congelamento dei termini comporta comunque la sospensione ex lege dei termini di prescrizione, quanto meno con riguardo al cd. periodo di sospensione rigida dal 9 marzo all'11 maggio 2020 (ovvero per 64 giorni)", calcolando il quale il termine di prescrizione sarebbe perento dopo la data del 5.12.2020. Si tratta, tuttavia, di un ragionamento erroneo, alla luce della elaborazione cui è pervenuta la giurisprudenza di legittimità nella sua espressione più autorevole, secondo cui, in tema di disciplina della prescrizione a seguito dell'emergenza pandemica da Covid-19, per i procedimenti rinviati con udienza fissata nella "prima fase" dell'emergenza (periodo dal 9 marzo all'11 maggio 2020) si applica per intero la sospensione della prescrizione prevista dall'art. 83, comma 4, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, pari a sessantaquattro giorni (cfr. Cass., Sez. U, n. 5292 del 26/11/2020) Rv. 280432). Il comma 4 del citato art. 83 prevede la sospensione del corso della prescrizione nei procedimenti penali "per lo stesso periodo" di cui al comma 2, vale a dire dal 9 marzo 2020 al 11 maggio 2020, ma in tale periodo non rientra il procedimento penale a carico dei ricorrenti, posto che, come evidenziato dalla stessa corte territoriale, l'udienza innanzi alla corte di appello è stata fissata direttamente alla data dell'8.1.2021, non rientrante in nessuno dei periodi per i quali è stata prevista la sospensione dei termini di prescrizione. Per completezza va, infine, ricordato, che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 140 del 25.2.2021, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 25, secondo comma, Cast., sotto il profilo della irretroattività della legge penale sfavorevole, l'art. 83, comma 9, del d.l. n. 18 del 2020, come convertito, relativo alla seconda fase dell'emergenza (periodo dal 12 maggio al 30 giugno 2020), nella parte in cui prevede la sospensione del corso della prescrizione per il tempo in cui i procedimenti penali sono rinviati ai sensi del precedente comma 7, lett. g), e in ogni caso, non oltre il 30 giugno 2020. Tanto premesso, compete al Collegio rilevare la compiuta prescrizione, posto che il principio della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità, sancito dall'art. 129, co. 2, c.p.p., opera anche con riferimento alle cause estintive del reato, quale è la prescrizione, rilevabili nel giudizio di cassazione (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 3, 01/12/2010, n. 1550, Rv. 249428; Cass., sez. un., 27/02/2002, n. 17179, Rv. 221403; Cass., Sez. 2, n. 6338 del 18/12/2014, Rv. 262761). Qualora il contenuto complessivo della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dall'art. 129 c.p.p., l'esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all'imputato deve, infatti, prevalere l'esigenza della definizione immediata del processo (cfr. Cass., sez. IV, 05/11/2009, n. 43958, F.) Come è stato opportunamente rilevato, in presenza di una causa di estinzione del reato, la formula di proscioglimento nel merito (art. 129, comma 2, c.p.p.) può essere adottata solo quando dagli atti risulti "evidente" la prova dell'innocenza dell'imputato, sicché la valutazione che in proposito deve essere compiuta appartiene più al concetto di "constatazione" che di "apprezzamento" (cfr., ex plurimis, Cass., sez. II, 11/03/2009, n. 24495, G.), circostanza che, come risulta dalla stessa articolata esposizione del secondo motivo di ricorso, non può ritenersi sussistente nel caso in esame. La sentenza impugnata va, pertanto, annullata senza rinvio agli effetti penali, per essere il reato ascritto all'imputato estinto per prescrizione. La fondatezza del motivo di ricorso sulla estinzione del reato per cui si procede, rende del tutto irrilevante il terzo motivo di ricorso, incentrato sulla entità della pena, che necessariamente presuppone l'esistenza di un reato.
6. Infondato deve ritenersi il secondo motivo di ricorso, che si colloca ai confini della inammissibilità, essendo sostenuto da rilievi di natura prevalentemente fattuale, tali da non intaccare il percorso motivazionale seguito dalla corte territoriale, che non appare né manifestamente illogico, né contraddittorio. Indiscutibile, invero, e non oggetto di specifica doglianza da parte dei ricorrenti, è il dato oggettivo che su di un profilo "Facebook" che appariva riconducibile al V. erano apparse le frasi dal contenuto diffamatorio riportate nel capo d'imputazione, circostanza che integra pacificamente l'elemento oggettivo del reato di cui si discute. Come affermato, infatti, dall'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca "Facebook" integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma terzo, c.p., sotto il profilo dell'offesa arrecata "con qualsiasi altro mezzo di pubblicità" diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 5, n. 13979 del 25.1.20121, Rv. 281023). Tale principio va ovviamente coordinato con l'ulteriore assunto, secondo cui, essendo il reato di diffamazione configurabile in presenza di un'offesa alla reputazione di una persona determinata, esso può ritenersi sussistente nel caso in cui vengano pronunciate o scritte espressioni offensive riferite a soggetti individuati o individuabili (cfr. Cass., Sez. 5, n. 3809 del 28.11.2017, Rv. 272320). In tale solco interpretativo si inserisce il principio di diritto affermato in una serie di condivisibili arresti di questa Corte di Cassazione, secondo cui non osta all'integrazione del reato di diffamazione l'assenza di indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione è lesa, qualora lo stesso sia individuabile, sia pure da parte di un numero limitato di persone, attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e la portata dell'offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 6, n. 2598 del 06/12/2021; Cass., Sez. 5, n. 23579 del 17/02/2014, Rv. 260213). Orbene la decisione del giudice di appello deve ritenersi assolutamente in linea con tali principi, in quanto, proprio in ragione del contenuto dei "post" inviati sul profilo "Facebook" in precedenza indicato, la destinataria delle espressioni dal contenuto diffamatorio, a differenza di quanto sostenuto dai ricorrenti, era certamente individuabile nella Z.. Ciò in ragione di una serie di elementi individualizzanti, che la corte territoriale esamina specificamente (il "nanismo" della persona offesa, oggetto di commenti denigratori; il riferimento, sempre in termini sprezzanti, alla zia della Z., indicata come "spazzina", in ragione della sua attività di addetta alle pulizie presso l'esercizio commerciale dove lavoravano all'epoca dei fatti i due imputati; l'ulteriore riferimento alla lettera inviata dalla destinataria delle offese, "essendo pacifico che, nel mese di maggio 2013, l'avv. Z. nella sua veste professionale aveva indirizzato ai due imputati una lettera nella vertenza che li contrapponeva alla sua assistita C."; infine, il riferimento "alla mancata possibilità di parlare ed alla delusione manifestata dalla destinataria delle offese", attraverso frasi sempre offensive, riconducibili "all'incontro tenutosi sempre nel mese di mag1gio 2013 presso l'O. di Domodossola con i dirigenti/responsabili di tale esercizio commerciale ed i dipendenti coinvolti nella ricordata querelle, incontro cui l'avv. Z. non aveva avuto la facoltà di partecipare, come avrebbe voluto"), in relazione ai quali i rilievi difensivi appaiono versati in fatto. Sicché appare dotata di intrinseca coerenza logica la conclusione cui giunge la corte territoriale nell'affermare, che,, anche in considerazione dello specifico contesto territoriale in cui operavano gli imputati e la persona offesa, Domodossola, un centro urbano certo non di grandi dimensioni, la combinazione degli elementi innanzi evidenziati consentisse "di individuare nell'avv. G. Z. la destinataria delle offese, quantomeno da parte di coloro che in qualità di dipendenti/collaboratori dell'esercizio O.: fossero stati coinvolti a vario titolo nella controversia indicata, oltre che di coloro che come amici o conoscenti o familiari della persona offesa", fossero in grado di riconoscerla. Come, del resto, puntualmente verificatosi, avendo un amico della persona offesa, C.E., completamente estraneo alla controversia innanzi indicata, subito immaginato che la destinataria delle espressioni offensive fosse proprio la Z., per il semplice fatto di averle lette sulla bacheca di "Facebook" riconducibile al V. (cfr. pp. 10-11 della sentenza oggetto di ricorso). La non completa soccombenza dei ricorrenti implica che gli stessi non siano condannati al pagamento delle spese processuali di questo grado di giudizio. Va, infine, disposta l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento, ai sensi dell'art. 52, co. 5, d. lgs. 30/06/2003 n. 196.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali perché il reato è estinto per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52, d. lgs. 196/2003, in quanto imposto dalla legge.