Con la pronuncia in commento, la Cassazione precisa perché il recesso del socio srl non è assimilabile alla cessione per atto tra vivi della quota di partecipazione al capitale, prima e dopo la riforma del 2003.
Nell'ambito di una controversia tra due società vertente sulla vendita della prima a terzi della proprietà di una sua partecipazione al capitale della seconda, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 28717 del 4 ottobre 2022, ha evidenziato la differenza tra la disciplina del recesso dalla società da parte del socio srl e quella inerente alla cessione a...
Svolgimento del processo
1. La I.C.G.s.r.l. (di seguito indicata come "C.G.") vendette a terzi la proprietà della propria quota di partecipazione al capitale della T.F. I. s.r.l. (di seguito indicata come "TF").
La TF stipulò il 9-10 dicembre 2002 transazione relativa a lite allora pendente con La C. s.r.l., in esecuzione della quale incassò € 180.000.
La C. G. ottenne dal Tribunale di Milano - Sezione distaccata di Cassano d'Adda decreto con cui venne ingiunto alla TF di pagare a detta società ricorrente €. 61.200, pari alla propria quota della sopra indicata sopravvenienza attiva del patrimonio della stessa TF, non prevista nel bilancio sulla base del quale era stato calcolato il prezzo di vendita al terzo della quota di capitale di TF fino alla cessione appartenente a C. G.. TF propose opposizione contro tale decreto ingiuntivo e chiamò in garanzia impropria M. F., suo amministratore al tempo della cessione.
Nel giudizio di opposizione intervenne la società La C. chiedendo la risoluzione, per inadempimento della TF, della sopra indicata transazione e la condanna della stessa TF alla restituzione del danaro incassato in esecuzione di tale contratto.
Con sentenza emessa il 5 maggio 2012 il Tribunale di Milano-Sezione distaccata di Cassano d'Adda: rigettò l'opposizione a decreto ingiuntivo proposta dalla TF; condannò M. F. a pagare alla TF quanto da tale società pagato alla C.G. in esecuzione della sentenza; rigettò, in ragione della loro tardività, le -domande di risoluzione della transazione e di condanna alla restituzione di quanto pagato in esecuzione di questa proposte dall'intervenuta La C. nei confronti di TF.
2. Dalla sentenza di appello di seguito indicata risulta che: prima dell'inizio del giudizio di appello, la C. G. venne posta in liquidazione e, al termine della liquidazione, venne cancellata dal registro delle i prese, con conseguente sua estinzione; i soci della società estinta erano L.C. e la F. N. s.r.l.; nel giudizio di appello definito con la sentenza in questa sede impugnata furono parti tanto la Signora C. (che si costituì) che la società F. N. (che rimase contumace).
3. Con sentenza emessa il 25 agosto 2015 la Corte di appello di Milano rigettò l'appello proposto da La C. contro la sentenza di primo grado, accolse l'appello incidentale proposto contro la stessa sentenza dalla TF e, in riforma della sentenza impugnata: rigettò la domanda di condanna proposta in via monitoria da C.G. nei confronti di TF, revocò di conseguenza il decreto ingiuntivo emesso, in accoglimento di tale domanda, dal Tribunale di Milano-Sezione distaccata di Cassano d'Adda il 7 aprile 2003; condannò L. C. e la F. N. s.r.l., quali soci della estinta C. G. s.r.l., a restituire alla TF quanto da tale società versato a C. G. in esecuzione della dichiarazione di provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo; condannò L. C. e la F. N. s.r.l., quali soci della estinta C.G. s.r.l., a rimborsare tanto alla TF che a M. F. le spese dei due gradi di giudizio da tali parti rispettivamente anticipate; condannò La C. a rimborsare alla TF le sole spese del giudizio di appello.
3.1 Per quanto riguarda la decisione di rigetto della domanda proposta da La C. nei confronti di TF (con conseguente infondatezza dell'appello dalla prima proposto), la motivazione della sentenza è nel senso che: è errata la decisione del Tribunale di considerare tardiva la domanda dell'interventore solo perché proposta dopo la scadenza del termine di cui all'art. 183, sesto comma, n. 1), cod. proc. civ., non trovando applicazione nei confronti dell'interventore (principale, litisconsortile ovvero adesivo autonomo) la disciplina delle preclusioni dal codice di rito previste per il convenuto, col solo limite della preclusione per l'interventore allo svolgimento delle attività istruttorie già precluse alle parti originarie del processo; nel merito La C. deduce che l'inadempimento di TF si sarebbe sostanziato nella violazione dell'impegno da costei assunto con la clausola 9 del contratto di transazione - che prevedeva, fra l'altro, che con l'adempimento della transazione TF non avesse nulla da avere o pretendere "nei confronti del Dott. M. F." -, avendo la stessa TF chiamato in causa F. per essere manlevata delle conseguenze dell'accoglimento della domanda avanzata contro di lei da C.G. in via monitoria; non sussiste il predicato inadempimento in quanto l'impegno assunto da TF con detto contratto "riguardava solo le questioni relative all'oggetto della transazione che si riferivano al pagamento degli oneri di urbanizzazione secondaria di cui alla Convenzione di Lottizzazione relativa ai terreni venduti dall'appellante all'appellata e che secondo la società appellata gravano sulla opposta, mentre secondo quest'ultima sull'acquirente, e non già la futura questione...avente ad oggetto la pretesa di TF di essere manlevata da F. qualora la domanda di C. G., ex socia di TF I., di conseguire pro quota la sopravvenienza attiva conseguita da quest'ultima società a seguito della predetta transazione e non considerata al momento della cessione della quota a terzi in data 30 dicembre 1998, fosse stata accolta"; alla dichiarazione di TF di non avere da F. "più nulla da avere o pretendere...per qualsiasi titolo, ragione o causa", non può attribuirsi, attesa la sua genericità, il significato che oggetto della transazione "non era solo la lite relativa alla controversa debenza degli oneri di urbanizzazione secondaria, che le parti hanno appunto inteso definire con la conclusione di detto accordo, ma anche tutte le eventuali future controversie anche non ragionevolmente prevedibili"; La C., peraltro, non ha neppure allegato che alla data di stipulazione della transazione "vi fossero elementi per ritenere, secondo appunto una ragionevole previsione, la futura insorgenza della presente controversia".
3.2 La motivazione relativa all'appello incidentale proposto da TF è nel senso che: è vero che l'atto che contiene l'impugnazione è intitolato "appello incidentale condizionato" e che in questi termini risultano formulate le conclusioni, ma è altrettanto vero che "dall'esposizione dei motivi risulta evidente" che TF "ha inteso, in primo luogo, proporre appello incidentale, non condizionato, relativamente al capo della sentenza in relazione al quale è rimasta soccombente nei confronti di C. G. (v. paragrafo "appello incidentale - la conferma del decreto ingiuntivo e la reiezione dell'opposizione"), nonché appello incidentale, questo si condizionato, fondato sul passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo opposto nel procedimento concluso con la transazione sopra , menzionata, nell'ipotesi in cui venisse accolto l'appello principale della società La C. e quindi risolta detta transazione (vedi paragrafo: "appello incidentale condizionato sul punto" che precede il paragrafo che tratta l"'eccezione di giudicato" riguardante il decreto ingiuntivo opposto, sollevata dall'appellata nel caso venisse risolta la transazione che non è stata esaminata dal primo giudice in quanto ritenuta assorbita a seguito della declaratoria di inammissibilità delle domande proposte con l'atto di intervento della società appellante), ovvero qualora venisse accolto l'appello di F.".
3.3 La motivazione alla base dell'affermata fondatezza dell'appello proposto da TF può essere così sintetizzata: C. G. aveva solo dedotto che il prezzo della cessione a terzi della proprietà della quota di partecipazione al capitale di TF di cui essa era titolare venne pattuito tenendo presente la situazione patrimoniale di TF al tempo della cessione e che l'avere TF successivamente ricevuto, in esecuzione della transazione da lei stipulata con La C., €. 180.000 aveva determinato una sopravvenienza attiva del patrimonio di detta accipiens non considerata al tempo della vendita, aveva determinato per essa C. G. danno pari al 34% di quanto ricevuto da TF (essendo pari al 34% dell'intero capitale la quota di partecipazione da lei venduta a terzi); "non si vede però a quale titolo, né la società ha sul punto indicato alcunché, C. G., quale socio della società appellata, possa chiedere il pagamento di tale somma a quest'ultima"; TF era infatti estranea al contratto di cessione della quota in discorso (essendo indicato nell'atto di vendita che C.G. dichiarò "di nulla più avere a chiedere pretendere né dalla Società nei dai cessionari relativamente alla precedente sua partecipazione alla Società"); qualora l'azione di condanna fosse stata proposta per responsabilità aquiliana di TF onde ottenere risarcimento del danno "per il prezzo inferiore che si assume incassato per la mancata considerazione del credito vantato da TF nei confronti della società appellante", nessuna prova è stata offerta che la considerazione anche di tale posta attiva avrebbe comportato un prezzo diverso della cessione delle quote e, in caso positivo, in che misura"; premesso che, quanto al rapporto tra socio e società, si è in presenza di un contratto di cessione di quota sociale e non di un recesso del socio dalla società (art. 2473 cod. civ.) determinante il diritto del socio a ottenere dalla società la liquidazione del valore della quota in proporzione del patrimonio sociale, nella determinazione del prezzo di vendita di partecipazione sociale (avente autonomia giuridica rispetto al capitale) concorrono molteplici fattori, "di cui il valore di mercato della quota desunto dalla situazione patrimoniale dell'ente è solo uno di questi"; non esiste una totale correlazione fra valore di mercato della quota e frazione del valore del patrimonio sociale che quota rappresenta; nella specie non vi à prova "che quand'anche "la situazione patrimoniale presa in considerazione in occasione della cessione" (peraltro predisposta a F., all'epoca della cessione amministratore unico tanto di TF che di C. G.) avesse riportato anche il credito verso La C., il prezzo della cessione sarebbe stato sicuramente diverso da quello in concreto pattuito) in particolare, superiore e in che misura rispetto a quest'ultimo", con la conseguenza che non è configurabile alcuna pretesa risarcitoria di C. G. verso TF; il rigetto della domanda proposta da C. G. in via monitoria "determina l'assorbimento della domanda di manleva formulata dalla succitata TF nei confronti di M. F. e conseguentemente dell'appello proposto da quest'ultimo avverso il capo della sentenza che aveva accolto detta domanda".
4. Con distinti ricorsi La C. s.r.l. e L. C. (dichiarando di agire quale socia della estinta I. C. G. s.r.l. in liquidazione), chiedono la cassazione di tale sentenza.
Il ricorso presentato da La C. contiene tre motivi di impugnazione, mentre quello presentato da C. ne contiene cinque.
5. M. F. ha notificato ai ricorrenti distinti controricorsi con cui chiede che la sentenza impugnata "trovi conferma negli specifici capi in cui il controricorrente è stato assolto dalla domanda di manleva formulata nei suoi confronti da T.F. Immobiliare s.r.l., peraltro lasciati intatti dal ricorso principale"; non contrastando così in alcun modo i ricorsi rispettivamente presentati da La C. e da C..
6. Con ordinanza n. 3312/2020 del 12 febbraio 2020 è stata ordinata l'integrazione del contraddittorio nei confronti di TF, non risultando ad essa notificati i due ricorsi.
7. Tanto prima che dopo il deposito della prova delle eseguite notificazioni di ciascun ricorso a TF, le due ricorrenti hanno depositato memorie.
8. L'intimata T.F. Immobiliare s.r.l. non ha svolto difese. La C. s.r.l. non ha svolto difese rispetto al ricorso di C., così come quest'ultima non ha svolto difese sul ricorso a lei notificato da La C..
Motivi della decisione
I. Il ricorso di La C..
1. Con il primo motivo tale ricorrente deduce che la sentenza impugnata, nella parte in cui ha rigettato la domanda di risoluzione della transazione a suo tempo stipulata con TF per inadempimento di tale società, è caratterizzata da violazione ovvero falsa applicazione degli artt. 1362-1366 cod. civ. quanto all'interpretazione del contenuto di tale contratto, dal momento che: la motivazione che la fonda contrasta col tenore letterale della clausola perché "la liberatoria in essa contenuta riguardava ogni controversia anche non ragionevolmente prevedibile"; è poi la stessa Corte di appello di appello che ha ammesso l'esistenza di nesso di causalità fra l'azione intrapresa da C. G. e oggetto della transazione, sì che non vi è neppure estraneità della impugnazione della transazione medesima da parte di C. G., essendo l'azione di risoluzione derivata dalla chiamata in manleva svolta da TF nei confronti di F.; inoltre, nell'osservanza del canone di buona fede, TF "avrebbe potuto e dovuto astenersi dal chiamare in manleva F., soprattutto se si considera...che la domanda fatta, valere in via monitoria da C. G. Srl non è stata ritenuta fondata"; nell'ottica della sentenza impugnata, infatti, TF avrebbe potuto citare in separata sede F. qualora a sé sfavorevole fosse stato il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto da C. G. "sebbene non ne esistessero presupposti di conformità rispetto alla transazione in esame".
2. Il motivo, per come formulato, è inammissibile, in quanto la società ricorrente contrappone alle argomentazioni caratterizzanti la sentenza impugnata nella parte dedicata all'interpretazione del quanto mai lato contenuto della clausola 9 del contratto di transazione, considerazioni di puro merito, limitandosi a dare della clausola una interpretazione alternativa a quella contenuta nella sentenza medesima; anche perché la puntuale motivazione data dal giudice di merito, secondo cui ove le parti, nello stipulare una transazione, dichiarino di non avere più nulla a pretendere in dipendenza del rapporto oggetto del contratto non implica necessariamente che la transazione investa tutte le controversie potenziali o attuali, dal momento che, alla luce del precetto contenuto nell'art. 1364 cod. civ. (relativo alla interpretazione delle espressioni generali usate nel contratto), tali espressioni generali riguardano soltanto gli oggetti sui quali le parti si sono proposte di statuire; con la conseguenza che se il negozio transattivo concerne soltanto alcune delle controversie (nella specie individuate dalla sentenza impugnata) la clausola del tipo di quella in discussione non si estende, malgrado l'ampiezza delle espressioni adoperate, a quelle rimaste estranee all'accordo il cui oggetto va determinato attraverso una valutazione di tutti gli elementi di fatto (in questo senso, cfr.: Cass. n. 12367 del 2018; Cass. n. 6351 del 1981); soprattutto quando la clausola riguardi, come nella specie, un soggetto (F.) che della transazione non fu parte.
3. Con il secondo motivo la società ricorrente deduce che la sentenza ha omesso l'esame "del fatto causale decisivo motivante l'intervento della Società ricorrente, discusso tra le parti", in quanto: è chiaro che la chiamata in causa di F. da parte di TF in conseguenza della domanda contro di lei proposta da C. G. espose La C. a una azione di rivalsa da parte di F.; questo punto, "recepito nella sentenza del Tribunale" che condannò F. a tenere indenne TF "con l'effetto della scopertura de La C. S.r.l verso la successiva rivalsa del medesimo F., non è stato preso in esame dalla Corte d'Appello"; il presupposto legittimante l'intervento de La C. "nella sua valenza giuridica ad ogni effetto". La ricorrente, al riguardo, effettua la "ricostruzione dei vari passaggi che giustificavano" la restituzione a La C. della somma di danaro versata a TF, "data la inesistenza del debito per il quale è avvenuto il pagamento in oggetto, considerata la corretta imputazione a TF S.r.l. degli oneri di urbanizzazione secondaria già descritti" (pagg. 15-23 del ricorso).
4. Il fatto il cui esame sarebbe stato omesso, consisterebbe, per quanto è dato comprendere dal contenuto della censura, nell'interesse di La C. a evitare che F. fosse destinatario di pretese giudiziarie di TF, delle quali poi avrebbe potuto rivalersi nei confronti della stessa La C.. L'omissione contestata non riguarda un fatto, bensì, come risulta chiaramente dal tenore della censura, una valutazione; senza pero precisare come e quando se ne sarebbe discusso nel giudizio di merito (l'illustrazione contenuta nelle pagg. 15-23 del ricorso non è caratterizzata da autosufficienza; non precisando la ricorrente, mediante riferimento specifico al contenuto di atti del processo, quando e come dei fatti e delle questioni fa lei descritti nel motivo le parti abbiano discusso nel processo).
Il motivo è dunque inammissibile.
5. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, per le ragioni illustrate nell'atto (pagg. 23-26) "violazione e/o falsa applicazione dell'art. 91 C.p.c. con riguardo alla rifusione delle spese processuali a carico della ricorrente e a favore di TF S.r.l."
6. Le ragioni della critica mossa dalla ricorrente alla sentenza impugnata, nella parte recante condanna della ricorrente a rimborsare le sole spese processuali anticipate da TF nel giudizio di appello, risultano di non immediata intelligibilità.
Per affermare l'infondatezza della critica è sufficiente rilevare che: le domande (di risoluzione per inadempimento di TF del contratto di transazione da lei stipulato con La C. e di condanna di TF alla restituzione del danaro a lei dato) di La C. nei confronti di TF vennero dal giudice di primo grado ritenute inammissibili, in ragione della loro tardività; la sentenza impugnata, dopo avere affermato che tali domande erano ammissibili, le rigetta nel merito; tanto bastava, in applicazione della regola di soccombenza contenuta nell'art. 91 cod. proc., a giustificare la condanna della ricorrente a rimborsare a TF le sole spese da questa anticipate nel giudizio di appello.
II Il ricorso di L. C. (quale socia della estinta I. C. G. s.r.l. in liquidazione).
7. Con il primo motivo tale ricorrente deduce che la sentenza impugnata è caratterizzata da vizio di extrapetizione (violazione ovvero falsa applicazione dell'art. 112 cod. proc. civ.) per avere preso in esame il merito dell'appello incidentale proposto da TF contro la sentenza di accoglimento della domanda di condanna nei suoi confronti proposta da C. G., ritenendo che questo era incondizionato, mentre, secondo la ricorrente, era vero l'inverso in quanto: nei confronti di C. G. TF si limitò a chiedere, per il caso di accoglimento degli appelli (principale e incidentale) rispettivamente proposti da La C. e da F., di respingere "siccome infondata" la domanda di condanna contro di lei proposta in sede monitoria da C. G.; l'appello incidentale di TF non era quindi "incondizionato", avendo questa ottenuto "con la decisione di Primo Grado un risultato in sostanza favorevole, poiché quanto corrisposti a C. G. S.r.l. per effetto della conferma della ingiunzione da parte del Tribunale veniva in toto recuperato a carico di F.. Stante l'accoglimento della domanda di manleva nei confronti dello stesso e l'obbligo di tenere indenne TF S.r.l. di quanto dovuto per effetto del medesimo decreto ingiuntivo"; la conseguenza è che solo qualora "la Corte d'Appello avesse precluso questa facoltà recuperatoria, all'atto pratico più favorevole che non agire in executivis nei confronti dei soci della estinta C. G. S.r.l., TF S.r.l. avrebbe chiesto la revoca/declaratoria di nullità o l'annullamento del decreto ingiuntivo ottenuto da C. G. S.r.l."
8. La sentenza impugnata contiene specifica motivazione (pagg. 9 e 10) a sostegno dell'affermazione secondo cui l'appello incidentale proposto da TF, ad onta della intitolazione dell'atto (comparsa di risposta) che tale impugnazione conteneva e le conclusioni in esso indicate: non era condizionato all'accoglimento dell'appello di La C.; era invece condizionato all'accoglimento dell'appello di F..
La censura, per come dedotta, è inammissibile perché priva dell'essenziale requisito dell'autosufficienza (desumibile dall'art. 366, n. 6), cod. proc. civ.): a fronte di tale specifica motivazione, la ricorrente ha omesso di riportare nel ricorso il testo dell'atto contenente l'appello di TF, da cui desumere che lo stesso era in effetti anche condizionato all'accoglimento dell'appello di La C..
9. Il vizio di extrapetizione (violazione ovvero falsa applicazione degli artt. 116 e 346 cod. proc. civ.), in relazione all'art. 2697 cod. civ., è con il secondo motivo dalla ricorrente dedotto per non avere TF, per le ragioni nell'atto illustrate, impugnato la sentenza di primo grado nella parte in cui ebbe ad affermare che tale società non aveva provato l'insussistenza del diritto di C. G., accertato dal decreto ingiuntivo opposto sulla base di istruzione sommaria fondata sul contenuto dei documenti del richiedente l'ingiunzione.
10. Premesso che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo l'opposto è attore sostanziale, come tale onerato della prova della sussistenza del diritto da lui azionato con il ricorso per ingiunzione (giurisprudenza di legittimità costante), il motivo è inammissibile perché non caratterizzato, ancora una volta, da autosufficienza, non essendo in esso riprodotta la parte della motivazione della sentenza di primo grado contenente la statuizione dalla ricorrente menzionata.
11. Con il terzo motivo la ricorrente deduce che la sentenza impugnata omise la pronuncia (con conseguente violazione dell'art. 112 cod. proc. civ.) sulla domanda subordinata da C.G. proposta nel giudizio di primo grado e implicitamente riproposta in appello, atteso che: nel giudizio di primo grado tale società chiese, in via subordinata, "che il credito della stessa per maggior valore aziendale quale riferimento determinante il prezzo di cessione della quota della stessa in TF S.r.l., venisse accertato e dichiarato, onde condannare la medesima TF S.r.l. a pagare alla "convenuta opposta" la somma che fosse accertata e provata in corso di causa e comunque ritenuta di giustizia anche ex art. 1226 c.c. a tale titolo, con interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data della cessione al saldo".
12 In risposta al motivo, va in primo luogo osservato che la sentenza impugnata contiene l'affermazione secondo cui: C. G. aveva solo dedotto che il prezzo della cessione a terzi della proprietà della quota di partecipazione al capitale di TF di cui essa era titolare venne pattuito tenendo presente la situazione patrimoniale di TF al tempo della cessione e che l'avere TF successivamente ricevuto, in esecuzione della transazione da lei stipulata con La C., €. 180.000 aveva determinato una sopravvenienza attiva del patrimonio di detta accipiens non considerata al tempo della vendita, aveva determinato per essa C. G. danno pari al 34% di quanto ricevuto da TF, essendo pari al 34% dell'intero capitale la quota di partecipazione da lei venduta a terzi; detta società "non aveva indicato a quale titolo, contrattuale o extra contrattuale, aveva formulato tale pretesa" (pag. 11 della sentenza).
A fronte di tale netta affermazione, la ricorrente aveva l'onere di spiegare in cosa consistesse, quanto a causa petendi, la domanda che assume essere stata proposta in via subordinata nel giudizio di primo grado e in quello di appello implicitamente riproposta e, dopo tale spiegazione aveva l'onere di riportare nel ricorso il testo della comparsa di risposta depositata nel giudizio di appello che, a suo dire, conterrebbe implicitamente tale ulteriore domanda: ancora una volta, dunque, il ricorso è privo del requisito dell'autosufficienza.
Anche tale motivo è dunque inammissibile.
13. Con il quarto motivo la ricorrente deduce che la sentenza è caratterizzata da violazione ovvero falsa applicazione dell'art. 2041 cod. civ., nonché dell'art. 2473 cod. civ. "con riferimento al mancato riconoscimento del credito della estinta Immobiliare C. G. S.r.l.", in quanto, per le ragioni nel motivo illustrate: a) di momento che "la cessione di quote di C. G. S.r.l. è avvenuta...a favore di cessionari, già soci, comunque di TF S.r.l., e rappresentativi del residuo capitale sociale della stessa, la vicenda giuridica può anche essere qualificata come un sostanziale recesso di C. G. S.r.l." e le altre considerazioni sul punto contenute nella sentenza impugnata "hanno scarsa rilevanza, riflettendo l'attuale testo dell'art. 2473 c.c.", inapplicabile nel caso in esame, essendo la cessione avvenuta prima delle modificazioni alla disciplina legale delle società di capitali operata dal d.lgs. n. 6 del 2003; b) nel momento in cui C. G. chiese in via monitoria "che le fosse riconosciuto pro quota il maggior valore societario sopravvenuto in relazione alla incidenza che esso avrebbe avuto sul prezzo di cessione, non solo il riferimento era all'arricchimento senza causa che derivava a TF S.r.l. con corrispondente pregiudizio per C. G. S.r.l. in ordine al minor introito per la cessione delle sue quote in TF S.r.l. stessa, ma anche la posizione giuridica dei cessionari si era ormai confusa e consolidata con quella di TF S.r.l." che non poteva "rivalersi sui cessionari qualora li si ritenga beneficiari in ultima analisi della sopravvenienza creditoria di €. 180.000"; tale dato "tiene in considerazione la identificazione di TF S.r.l. coi soci che ne costituiscono l'elemento collettivo strutturante, salvo che TF S.r.l. non consideri di procedere ad una scissione tra sé i soci che la compongono".
14. Al di là della oggettiva collocazione esterna alla disciplina legale delle società di capitali (sia precedente che successiva alla riforma operata nel 2003) di talune delle argomentazioni testé riportate, si osserva che la prima parte della censura (assimilabilità della cessione a terzi da parte del socio di società a responsabilità limitata della proprietà di quota di partecipazione al relativo capitale sociale al recesso del socio da società a responsabilità limitata) è manifestamente infondata.
Premesso che in ragione del tempo in cui avvenne la cessione a terzi da parte di C.G. della proprietà della quota di partecipazione al capitale di TF di cui questa era titolare, la disciplina legale delle società di capitali applicabile al caso di specie è quella contenuta nelle disposizioni del codice civile nel testo anteriore alla riforma di esse disposta con il d.lgs. n. 6 del 2003, quanto mai netta è la differenza ontologica, da tale disciplina legale ricavabile, fra recesso dalla società da parte del suo socio e cessione a terzi da parte del socio della sua quota partecipazione alla società.
Nel primo caso, al darsi di determinati presupposti, la legge attribuiva al socio di società a responsabilità limitata il diritto di recedere dalla società e quello, conseguente all'esercizio di tale diritto, di ottenere dalla società il rimborso della propria partecipazione in proporzione del patrimonio sociale risultante dal bilancio dell'ultimo esercizio (art. 2437 cod. civ., applicabile alle società a responsabilità limitata per effetto del rinvio formale recettizio a tale articolo operato dal successivo art. 2494).
Il diritto al rimborso della partecipazione sociale sorgeva quindi nel caso di recesso, mediante dichiarazione con effetto recettizio rivolta dal socio alla società.
Il rapporto contemplato da tale disciplina era solo fra società e socio.
Nel caso di trasferimento per atto tra vivi della proprietà di quota di partecipazione al capitale di società a responsabilità limitata (art. 2479 cod. civ.), il relativo contratto, cui la società è estranea, era valido ed efficace fra le relative parti, indipendentemente dalla sua iscrizione nel libro dei soci della società; necessaria solo per rendere il trasferimento efficace anche nei confronti della società, degli altri soci e dei terzi (giurisprudenza di legittimità consolidata; in questo senso cfr., comunque: Cass. n. 1192 del 1978; Cass. n. 3419 del 1981; Cass. n. 697 del 1997; Cass. n. 339 del 2005; Cass. n. 19161 del 2007), con la conseguenza che tale iscrizione aveva la funzione di dimostrare la qualità di socio nel rapporto con la società, in funzione dell'esercizio da parte del primo dei diritti sociali (cf. Cass. n. 697 del 1997) e costituiva, se la cessione era accompagnata dalle formalità previste dal citato art. 2479, atto dovuto da parte della società (cfr. Cass. n. 3419 del 1981; Cass. n. 2637 del 1993).
La non assimilabilità del recesso del socio di società a responsabilità limitata alla cessione per atto fra vivi della quota di partecipazione al capitale di tale tipo di società è da confermare anche alla luce della vigente disciplina, derivata dalla riforma del 2003.
Nel caso di recesso del socio (art. 2473 cod. civ.) il rapporto derivante dalla manifestazione di volontà del socio di esercitare il diritto di recesso a lui attribuito dallo statuto e in ogni caso dalla legge (art. 2473, primo comma, secondo periodo, cod. civ.) è solo fra società e socio recedente anche quanto alle conseguenze patrimoniali della sua manifestazione di volontà alla società rivolta.
Nel caso di cessione a terzi per atto tra vivi della quota di partecipazione al capitale di società a responsabilità limitata (art. 2469 cod. civ.), il relativo contratto, cui la società è estranea, è valido e efficace fra le relative parti indipendentemente dal suo deposito presso il registro delle imprese, necessario solo per rendere il trasferimento efficace anche nei confronti della società, degli altri soci e dei terzi (art. 2470 cod. civ.).
L'affermazione secondo cui la cessione di quota sociale da C. G. a terzi equivarrebbe a recesso della prima da TF, società della cui partecipazione era proprietaria prima della cessione, è in diritto manifestamente infondata.
La parte di censura relativa alla dedotta falsa applicazione dell'art. 2041 cod. civ. al caso concreto è inammissibile dal momento che: nella sentenza impugnata non vi traccia di proposizione da parte di C.G. di domanda di arricchimento senza causa nei confronti di TF; la ricorrente non indica come e dove tale domanda sia stata proposta nel giudizio di merito, con particolare riguardo a quello di appello.
15. Infine la ricorrente censura la sentenza impugnata (quinto motivo) nella parte in cui essa (in quanto socia della estinta C.G.) è stata condannata a rimborsare a M. F. le spese dei due gradi di giudizio, deducendo l'erronea interpretazione dell'art. 91 cod. proc. civ., in quanto: F. venne chiamato in causa da TF, non propose alcuna domanda contro C. G. e non chiese a tale società, e per essa ai suoi ex soci, il rimborso delle proprie spese processuali; non vi è dunque soccombenza di essa ricorrente rispetto a F., "né è logico che le spese di tale soggetto, se la chiamata in causa non era "non palesemente" arbitraria", ricadano sulla cessata C. G. S.r.l."
16. Nella parte dedicata alla regolamentazione delle spese processuali, la sentenza impugnata, per quanto qui interessa, condannò la ricorrente e la F. N. s.r.l., quali soci della estinta C. G., a rimborsare a F. le spese dei due gradi di giudizio sul dichiarato presupposto che la chiamata in causa di F. da parte di TF "è stata resa necessaria dalla infondata domanda della società C. G. e non si configura, alla luce della risultanze processuali (v. anche doc. 14 fsc. TF), palesemente arbitraria (v. 1 Cass. n. 7431/2012)
Tale motivazione è (dichiaratamente) conforme al principio di diritto più volte ribadito dalla giurisprudenza, secondo cui, attesa la lata accezione con cui il termine "soccombenza" è assunto nell'art. 91 cod. proc. civ., il rimborso delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia dal convenuto deve essere posto a carico dell'attore, ove la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall'attore stesso e queste siano risultate infondate, a nulla rilevando che l'attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda, mentre il rimborso rimane a carico della parte che abbia chiamato o abbia fatto chiamare in causa il terzo qualora l'iniziativa del chiamante si riveli palesemente arbitraria (in questo senso, cfr., fra le molte: Cass. n. 12301 del 2005; Cass. n. 7431 del 2012; Cass. n. 23948 del 2019; il medesimo principio è affermato in applicazione del principio di causalità, sottostante la regola di soccombenza, fra le altre, da: Cass. n. 2492 del 2016; Cass. n. 31889 del 2019).
La censura è dunque infondata.
16. In conclusione, i ricorsi debbono essere rigettati e non vi è obbligo di statuizione sulle spese processuali del giudizio di cassazione dal momento che: La C. e C. non hanno contrastato in alcun modo l'accoglimento dei ricorsi da ciascuna di tali parti a loro rispettivamente notificati; F. ha dichiarato espressamente la sua indifferenza rispetto all'accoglimento dei ricorsi a lui notificati da La C. e C. e non ha svolto difese neppure in riferimento al quinto motivo del ricorso di tale persona fisica; l'unica parte vittoriosa in questa sede è l'intimata TF che non ha svolto difese.
P.Q.M.
rigetta i ricorsi.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, nel testo introdotto dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente La C. s.r.l. e della ricorrente L. C., dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.