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5 gennaio 2022
Lavoro e previdenza sociale
La prova del mobbing sul posto di lavoro
L'onere della prova è a carico del lavoratore cui spetta il compito di dimostrare la continuità nel tempo di tali comportamenti, la loro vessatorietà, il danno che ne è derivato e la precisa volontà di nuocergli da parte del datore di lavoro che deve emergere con carattere sistematico e non meramente occasionale.
di Avv. e Giornalista pubblicista Maurizio Tarantino
Il caso

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Il dipendente Tizio, oltre a contestare le questioni afferenti al rapporto di lavoro (retribuzioni, permessi, ferie ecc.) evidenziava di aver subìto mobbing e in particolare a causa del suo rifiuto alla sottoscrizione di un nuovo contratto di lavoro a tempo determinato in sostituzione del contratto a tempo indeterminato. A causa di ciò, il datore di lavoro gli aveva rifiutato le ferie maturate e lo aveva demansionato. Per le ragioni esposte, tra le varie richieste, il lavoratore chiedeva al giudice di accertare e dichiarare l'inadempimento contrattuale e/o extracontrattuale del datore di lavoro resistente in relazione alle condotte vessatorie poste in essere nei confronti della ricorrente, quindi la condanna al risarcimento di tutti i danni.

Il diritto

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Secondo il giudice il presupposto per la sussistenza del mobbing non può essere il mero compimento di atti antigiuridici e come tali lesivi di diritti del lavoratore, quanto piuttosto l'esistenza di una condotta vessatoria consapevolmente posta in essere dal datore di lavoro finalizzata ad isolare od espellere il dipendente dal contesto lavorativo. Invero, in merito alla domanda di mobbing, a parere del Tribunale, le allegazioni contenute in ricorso erano del tutto generiche e scarne, sicché era da escludere la sussistenza del lamentato comportamento persecutorio e vessatorio del datore di lavoro, qualificato dall'odierna parte ricorrente nei termini di mobbing. 

Il ricorrente, infatti, si era limitato solo ad affermare che il nuovo titolare aveva creato  «un clima di terrore nei confronti dei dipendenti» e che a seguito del suo rifiuto di firmare un nuovo contratto a tempo determinato (con rinuncia al contratto a tempo indeterminato e ad ogni pretesa vantata con riferimento al passato), il datore aveva rifiutato di concedere le ferie maturate e lo aveva demansionato. L'affermazione di essere stato demansionato, tuttavia, era rimasta priva di qualsivoglia allegazione o specificazione, essendosi il ricorrente limitato ad affermare che «i carichi di lavoro erano sempre più diminuiti» (circostanza, peraltro, in contraddizione con l'allegazione attorea di aver svolto un elevato numero di ore di lavoro straordinario). Mancava, inoltre, qualunque allegazione in ordine al danno subìto. Il ricorrente, infatti, affermava di avere subìto un danno che però non indicava (quantificandolo apoditticamente in euro 50 mila) limitandosi a fare riferimento a certificati medici che, comunque, non erano stati prodotti. Pertanto, alla carenza di allegazione conseguiva, ovviamente, una carenza di prova: i capitoli di prova testimoniale in ordine al mobbing risultavano formulati in maniera assolutamente generica per poter essere ammessi. Dunque, la domanda risarcitoria è risultata priva di fondamento.

In conclusione, la domanda del risarcimento da mobbing è stata respinta. Diversamente è stata accolta la domanda delle differenze retributive.

La lente dell'autore

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Come riportato dal provvedimento in commento e, dunque, conformemente all'orientamento giurisprudenziale in materia, il mobbing consiste nel susseguirsi di attacchi frequenti e duraturi e di soprusi da parte dei superiori gerarchici (cd. mobbing verticale discendente o bossing) o di altri colleghi di lavoro (cd. mobbing orizzontale, ove avvenga tra soggetti parigrado, ovvero mobbing ascendente, ove il soggetto passivo dei comportamenti in esame sia un superiore gerarchico) che hanno lo scopo di isolare il lavoratore, di danneggiarne i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione o la professionalità, di intaccare il suo equilibrio psichico, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in sé stesso, nonché di provocarne le dimissioni.

Si tratta, in altre parole, di una successione di episodi traumatici correlati l'uno con l'altro ed aventi come deliberato scopo l'indebolimento delle resistenze psicologiche e la manipolazione del soggetto “mobbizzato”. Il fenomeno in esame si caratterizza, sotto il profilo soggettivo, dal dolo del soggetto agente, da intendersi nell'accezione di volontà di nuocere o infastidire o comunque svilire in qualsiasi modo il proprio sottoposto o collega di lavoro. Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. 

Premesso ciò, come indicato dai giudici di legittimità, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (Cass. Civ, sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3785; Cass. Civ., sez. lav., 9 settembre 2008, n. 22858).

In definitiva, la condotta di mobbing del datore di lavoro (art. 2087 c.c.) deve essere allegata nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, il quale non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito, ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi, ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il Giudice (eventualmente, anche attraverso l'esercizio dei suoi poteri ufficiosi) possa verificare la sussistenza, nei suoi confronti, di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione, in quanto la pur accertata esistenza di uno o più atti illegittimi adottati in danno di un lavoratore non consente, di per sé, di affermare l'esistenza di un'ipotesi di mobbing.