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Il dipendente Tizio, oltre a contestare le questioni afferenti al rapporto di lavoro (retribuzioni, permessi, ferie ecc.) evidenziava di aver subìto mobbing e in particolare a causa del suo rifiuto alla sottoscrizione di un nuovo contratto di lavoro a tempo determinato in sostituzione del contratto a tempo indeterminato. A causa di ciò, il datore di lavoro gli aveva rifiutato le ferie maturate e lo aveva demansionato. Per le ragioni esposte, tra le varie richieste, il lavoratore chiedeva al giudice di accertare e dichiarare l'inadempimento contrattuale e/o extracontrattuale del datore di lavoro resistente in relazione alle condotte vessatorie poste in essere nei confronti della ricorrente, quindi la condanna al risarcimento di tutti i danni. |
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Secondo il giudice il presupposto per la sussistenza del mobbing non può essere il mero compimento di atti antigiuridici e come tali lesivi di diritti del lavoratore, quanto piuttosto l'esistenza di una condotta vessatoria consapevolmente posta in essere dal datore di lavoro finalizzata ad isolare od espellere il dipendente dal contesto lavorativo. Invero, in merito alla domanda di mobbing, a parere del Tribunale, le allegazioni contenute in ricorso erano del tutto generiche e scarne, sicché era da escludere la sussistenza del lamentato comportamento persecutorio e vessatorio del datore di lavoro, qualificato dall'odierna parte ricorrente nei termini di mobbing. In conclusione, la domanda del risarcimento da mobbing è stata respinta. Diversamente è stata accolta la domanda delle differenze retributive. |
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Come riportato dal provvedimento in commento e, dunque, conformemente all'orientamento giurisprudenziale in materia, il mobbing consiste nel susseguirsi di attacchi frequenti e duraturi e di soprusi da parte dei superiori gerarchici (cd. mobbing verticale discendente o bossing) o di altri colleghi di lavoro (cd. mobbing orizzontale, ove avvenga tra soggetti parigrado, ovvero mobbing ascendente, ove il soggetto passivo dei comportamenti in esame sia un superiore gerarchico) che hanno lo scopo di isolare il lavoratore, di danneggiarne i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione o la professionalità, di intaccare il suo equilibrio psichico, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in sé stesso, nonché di provocarne le dimissioni. Premesso ciò, come indicato dai giudici di legittimità, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (Cass. Civ, sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3785; Cass. Civ., sez. lav., 9 settembre 2008, n. 22858). In definitiva, la condotta di mobbing del datore di lavoro (art. 2087 c.c.) deve essere allegata nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, il quale non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito, ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi, ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il Giudice (eventualmente, anche attraverso l'esercizio dei suoi poteri ufficiosi) possa verificare la sussistenza, nei suoi confronti, di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione, in quanto la pur accertata esistenza di uno o più atti illegittimi adottati in danno di un lavoratore non consente, di per sé, di affermare l'esistenza di un'ipotesi di mobbing. |
Tribunale di Roma, sez. II Lavoro, sentenza 9 dicembre 2021, n. 10349
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
M. A., premesso di avere lavorato alle dipendenze dell’Ambasciata degli Emirati Arabi uniti in Italia, ufficio militare, dal 1.6.2011 al 24.7.2017 con mansioni di custode livello C2 CCNL dipendenti delle ambasciate, ha esposto: di aver osservato un orario di lavoro distribuito su 5 giorni, dal lunedì al venerdì, articolato in turni giornalieri avvicendati (mattutini, pomeridiani, notturni) e di tipo discontinuo (con interruzione nel fine settimana); che generalmente i turni di lavoro erano dalle ore 6 alle 14, dalle ore 14 alle 22, dalle 22 alle ore 6 del mattino; di essere rimasto abitualmente a disposizione del datore di lavoro anche oltre l’orario di lavoro e anche durante i giorni di riposo settimanale o i giorni festivi o nelle ore notturne, senza percepire i relativi compensi; che non gli è mai stata riconosciuta la pausa di 30 minuti prevista per una durata della prestazione giornaliera eccedente le 6 ore di lavoro effettivo; che non sono stati pagati i relativi buoni pasto pari ad € 6,50 per gli anni 2011, 2012 e 2013 e a € 7,00 per i successivi (art. 9 CCNL); che non gli sono state accreditate le 4 giornate di riposo per le festività soppresse ai sensi della legge 937/1977, aggiuntive ai 26 giorni di ferie annuali previsti per orario di lavoro settimanale distribuito su 5 giorni (art. 14 CCNL); che non sono stati pagati gli scatti di anzianità maturati a far data dal mese di giugno 2013 e pari a 2 alla data del licenziamento (art. 24 CCNL); che non sono stati accreditati i permessi residui di ogni anno; che non ha ricevuto le buste paga relative alle mensilità di febbraio, marzo ed aprile 2017; che non sono stati pagati le competenze di fine rapporto per indennità ferie e permessi residui e non goduti, ratei di 13° e 14°, TFR e indennità di mancato preavviso; di essere pertanto rimasto creditore della complessiva somma di € 89.308,66, di cui € 74.257,80 per differenze su retribuzioni dirette (paga base conglobata, scatti di anzianità, indennità di funzione), differite (13° e 14°) e indirette (lavoro straordinario, ferie e permessi residui non goduti,), buoni pasto, € 4.229,94 per indennità sostitutiva del preavviso ed € 10.820,92 per T.F.R.; di aver subito mobbing dal 2014 e in particolare dal 2016 a causa del suo rifiuto alla sottoscrizione di un nuovo contratto di lavoro a tempo determinato in sostituzione del contratto a tempo indeterminato; che a causa di ciò l’Ambasciata gli ha rifiutato le ferie maturate e lo ha demansionato.
Tanto esposto, ha rassegnato le seguenti conclusioni: “accertare e dichiarare che il ricorrente sino alla cessazione del rapporto ha svolto mansioni riconducibili al livello C2 Ccnl dei Dipendenti delle Ambasciate.
3. accertare e dichiarare che la ricorrente ha percepito una retribuzione inferiore a quella prevista per legge e contratto, per l’effetto condannare l’Ambasciata a corrispondere le differenze retributive quantificate nella somma di € 89.308,66, di cui:
€ 74.257,80 per differenze su retribuzioni dirette (paga base conglobata, scatti di anzianità, indennità di funzione), differite (13° e 14°) e indirette (lavoro straordinario, ferie e permessi residui non goduti,), buoni pasto;
sostitutiva del preavviso;
equa;
4. Sempre in via principale, accertare e dichiarare l’inadempimento contrattuale e/o extracontrattuale dell’Ambasciata resistente in relazione alle condotte vessatorie poste in essere nei confronti della ricorrente , quindi condannare l’Ambasciata al risarcimento di tutti i danni subiti e subendi pari ad € 50.000,00 o alla somma maggiore o minore ritenuta giusta e/o equa;
5. in via subordinata, accertare e dichiarare la violazione della normativa comunitaria e nazionale in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori sul posto di lavoro, ai danni della ricorrente, quindi condannare l’Ambasciata resistente al risarcimento di tutti i danni subiti e subendi pari ad € 50.000,00 o alla somma maggiore o minore ritenuta giusta e/o equa;
6. il tutto oltre interessi e rivalutazione monetaria dalla maturazione del diritto”.
Si è costituito l’Ufficio militare contestando il ricorso e rassegnando le seguenti conclusioni: “In via preliminare, per tutti i motivi di cui al presente atto, accertare e dichiarare la nullità e/o inammissibilità del ricorso introduttivo del presente giudizio. Nel merito, accertata e dichiarata l’intercorsa prescrizione per tutte le domande relative al periodo 2.11.2009 – 23.06.2012, rigettare tutte le domande avanzate dal sig. M. A. in quanto destituite di fondamento sia in fatto che in diritto e, comunque, non provate. In via subordinata, nella denegata ipotesi in cui si ritengano sussistere crediti per differenze retributive a favore del sig. M. A. ordinare la produzione di conteggi alternativi. Con vittoria di spese, competenze, rimborso forfettario ed onorari da distrarsi.
In particolare, l’Ufficio Militare ha eccepito l’inammissibilità del ricorso e della conseguente domanda, in quanto il ricorso è stato notificato all’Ufficio militare mentre le conclusioni sono state dispiegate solo avverso l’Ambasciata degli Emirati Arabi Uniti in Italia, ovvero contro un soggetto diverso con altra personalità giuridica; nel merito, ha contestando in particolare la condotta di mobbing e lo svolgimento dell’orario di lavoro indicato in ricorso ed evidenziando che la mancata corresponsione delle spettanze liquidatorie e di chiusura rapporto deve addebitarsi solo ed esclusivamente al ricorrente, il quale pur conoscendo le procedure interne dell’Ufficio Militare ha rifiutato a più riprese di presentarsi per il ritiro delle competenze e per la sottoscrizione della ricevuta né ha comunicato un codice Iban per permettere il versamento.
Deve essere preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata da parte convenuta; il ricorrente infatti ha convenuto in giudizio la Sezione Militare dell’Ambasciata degli Emirati Arabi Uniti, che è il soggetto che si è costituito in giudizio, così mostrando di voler agire proprio contro questo soggetto (che, pacificamente, è stato suo datore di lavoro). L’indicazione “Ambasciata” nelle conclusioni non palesa una volontà diversa.
Nel merito, il ricorso è fondato solo in parte, per le motivazioni di seguito esposte.
Quanto alla domanda di risarcimento del danno quantificato in € 50.000,00 il lavoratore lamenta la sussistenza condotte vessatorie poste in essere dal datore di lavoro nei suoi confronti, che integrerebbero la fattispecie del c.d. mobbing , affermando di aver subito un danno alla salute, che sarebbe confermato dai certificati medici prodotti con il ricorso (che tuttavia non risultano depositati né indicati nell’indice).
Dalle stesse allegazioni contenute in ricorso, generiche e scarne, si può agevolmente escludere la sussistenza del lamentato comportamento persecutorio e vessatorio del datore di lavoro, qualificato dall’odierna parte ricorrente nei termini di mobbing.
Il mobbing consiste nel susseguirsi di attacchi frequenti e duraturi e di soprusi da parte dei superiori gerarchici (cd. mobbing verticale discendente o bossing) o di altri colleghi di lavoro (cd. mobbing orizzontale, ove avvenga tra soggetti parigrado, ovvero mobbing ascendente, ove il soggetto passivo dei comportamenti in esame sia un superiore gerarchico) che hanno lo scopo di isolare il lavoratore, di danneggiarne i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione o la professionalità, di intaccare il suo equilibrio psichico, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in sé stesso, nonché di provocarne le dimissioni. Si tratta, in altre parole, di una successione di episodi traumatici correlati l’uno con l’altro ed aventi come deliberato scopo l’indebolimento delle resistenze psicologiche e la manipolazione del soggetto “mobbizzato”. Il fenomeno in esame si caratterizza, sotto il profilo soggettivo, dal dolo del soggetto agente, da intendersi nell’accezione di volontà di nuocere o infastidire o comunque svilire in qualsiasi modo il proprio sottoposto o collega di lavoro.
Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (cfr. Cass., 17 febbraio 2009, n. 3785; Cass. 9 settembre 2008, n. 22858 e 22893).
Il presupposto per la sussistenza del mobbing non può essere allora il mero compimento di atti antigiuridici e come tali lesivi di diritti del lavoratore, quanto piuttosto l’esistenza di una condotta vessatoria consapevolmente posta in essere dal datore di lavoro finalizzata ad isolare od espellere il dipendente dal contesto lavorativo.
Orbene, forniti i suesposti sintetici cenni in merito alle caratteristiche generali della fattispecie dannosa dedotta da parte ricorrente, si deve in questa sede senza dubbio affermare che i caratteri sopra evidenziati siano assenti nella fattispecie in esame, in cui il comportamento datoriale ritenuto vessatorio e persecutorio è stato solo genericamente allegato.
Il ricorrente, infatti, si è limitato ad affermare: che il nuovo ambasciatore aveva creato “un clima di terrore nei confronti dei dipendenti”, affermando “questa Ambasciata non mi piace, voglio mettere una bomba per farla esplodere, anche voi non mi piacete perché non sapete lavorare”; che a seguito del suo rifiuto di firmare un nuovo contratto a tempo determinato (con rinuncia al contratto a tempo indeterminato e ad ogni pretesa vantata con riferimento al passato), l’ambasciata ha rifiutato di concedere le ferie maturate e lo ha demansionato.
L’affermazione di essere stato demansionato tuttavia è rimasta priva di qualsivoglia allegazione o specificazione, essendosi il ricorrente limitato ad affermare che “i carichi di lavoro sono sempre più diminuiti” (circostanza, peraltro, in contraddizione con l’allegazione attorea di aver svolto un elevato numero di ore di lavoro straordinario).
Manca, inoltre, qualunque allegazione in ordine al danno che il lavoratore avrebbe subito. Il ricorrente, infatti, afferma di avere subito un danno che però non indica (quantificandolo apoditticamente in euro 50.000,00) limitandosi a fare riferimento a certificati medici che, comunque, non sono stati prodotti.
Alla carenza di allegazione consegue, ovviamente, una carenza di prova; i capitoli di prova testimoniale in ordine al mobbing risultavano formulati in maniera assolutamente generica per poter essere ammessi.
La domanda risarcitoria, pertanto, è priva di fondamento.
Per quanto riguarda la domanda di condanna al pagamento di differenze retributive, si osserva quanto segue.
In primo luogo, ritiene il Tribunale che l’eccezione di prescrizione sollevata da parte convenuta non possa trovare applicazione alla fattispecie in esame, atteso che il rapporto di lavoro in questione non può dirsi assistito da stabilità reale e pertanto il termine di prescrizione, decorrente solo dalla cessazione del rapporto, risulta interrotto con la lettera del 23.6.2017 (doc. 3 produzione ricorrente), oltre che con la notifica del ricorso introduttivo del presente giudizio.
Deve precisarsi che il ricorrente chiede di accertare e dichiarare lo svolgimento di mansioni riconducibili al livello C2 CCNL dipendenti delle ambasciate; la circostanza, tuttavia, non è in contestazione, risultando dalla documentazione in atti che il ricorrente è stato effettivamente inquadrato nel livello C2 e sulla scorta di tale livello sono state sempre elaborate le buste paga. Del tutto irrilevanti ed ultronee sono pertanto le allegazioni di parte ricorrente in ordine alle mansioni svolte.
Le differenze retributive richieste, pertanto, non derivano dallo svolgimento di mansioni superiori, bensì dalla circostanza, dedotta dal ricorrente, di aver ricevuto una retribuzione inferiore a quella prevista per legge e per contratto, nonché dalla circostanza, sempre dedotta da parte ricorrente, di aver svolto lavoro straordinario festivo e notturno.
Entrambe le affermazioni attoree si sono tuttavia rilevate infondate.
In ordine al dedotto lavoro straordinario, notturno e festivo – che, per giurisprudenza assolutamente univoca, spetta al lavoratore provare – dall’istruttoria svolta non è emersa la conferma dell’orario di lavoro dedotto in ricorso (né tale conferma può trarsi dai documenti prodotti unitamente al ricorso, specificamente contestati dalla parte convenuta).
Il lavoratore che chieda in via giudiziale il compenso per il lavoro straordinario ha l’onere di dimostrare di aver lavorato oltre l’orario normale di lavoro, senza che l’assenza di tale prova possa esser supplita dalla valutazione equitativa del giudice (cfr. Cass. 25 giugno 2006, n. 12434; 29 gennaio 2003, n. 1389; 17 ottobre 2001, n. 12695).
Pertanto, è necessario che il lavoratore provi o in maniera specifica di avere svolto la prestazione lavorativa oltre l’orario ordinario ovvero di avere osservato in maniera continuativa un determinato orario di lavoro risultante settimanalmente superiore all’orario fissato dal contratto: peraltro, il giudice può legittimamente valutare gli elementi di prova raccolti, avvalendosi anche di presunzioni semplici, al fine di giungere, in termini sufficientemente concreti e realistici, ad una determinazione “minimale” delle ore prestate in aggiunta all’orario normale o del lavoro domenicale (cfr. Cass. 12 maggio 2001, n. 6623).
Tale prova, alla luce dell’istruttoria compiuta, non può dirsi raggiunta.
Il teste Ibrahim Said Mostafa ha dichiarato: “ho lavorato presso l’Ambasciata per conto della Difesa Militare dal 2012 al 2016. Facevo l’autista e nell’ultimo anno il guardiano. Ho una causa in corso nei confronti dell’ambasciata perché non sono stato pagato e sono stato licenziato senza motivo. Conosco pertanto il ricorrente sia perché abbiamo lavorato nello stesso posto nell’ultimo anno come guardiani, sia perché quando lavoravo come autista lo vedevo quando entravo o uscivo dall’ambasciata. L’orario era articolato su tre turni nell’arco delle 24 ore e il ricorrente di solito lavorava nel turno di notte. I turni duravano circa 8 ore dalle 6 alle 14 ; dalle 14 alle 22 e dalle 22 alle 6. Durante il turno non c’erano pause. adr come autista dovevo essere a disposizione in ambasciata 24 ore su 24. Il mio orario come autista andava dalle 8 alle 16.30, ma capitava di lavorare anche oltre tale orario quando, ad esempio, c’erano ospiti in ambasciata e io dovevo aspettare che andassero a dormire. adr I guardiani avevano un giorno di riposo a settimana a rotazione. Se un guardiano mancava i turni venivano distribuiti sugli altri due.
Il teste YOUSSEF BEN MBAREK ha dichiarato: “Ho lavorato per tre mesi in ambasciata nel 2015. Non ho avuto cause contro l’ambasciata. Facevo l’autista. Ho conosciuto il ricorrente in ambasciata. Lavorava in portineria. Adr Io iniziavo a lavorare alle 8.Il mio orario durava minimo otto ore e mezzo. Posso dire che gli addetti in portineria lavoravano secondo tre turni alternati di otto ore credo. Anche il ricorrente lavorava secondo turni alternati perché non lo vedevo sempre. Non so se avessero mezz’ora di pausa. Questi turni c’erano tutta la settimana. Non so di preciso se i guardiani avessero un giorno di riposo. Non posso essere più preciso perché come autisti eravamo ubicati in un locale distante dalla portineria. Inoltre non potevamo sostare nella portineria.
Quando entravo o uscivo dall’ambasciata e dovevo consegnare documenti in portineria mi limitavo a questo e poi mi allontanavo cioè rimanevo dentro all’ambasciata ma non della portineria”.
I testi indicati da parte convenuta hanno dichiarato di non conoscere gli orari di lavoro del ricorrente.
Le dichiarazioni dei testimoni indicati da parte ricorrente non sono idonee a fornire la rigorosa prova dell’orario straordinario affermato da parte ricorrente per l’intero periodo di lavoro, sia perché i testimoni hanno riferito in ordine ad un periodo temporalmente molto più limitato (nel caso del teste YOUSSEF BEN MBAREK solo tre mesi), sia perché le dichiarazioni sono generiche e, nel caso del teste IBRAHIM SAID MOSTAFA anche poco credibili, posto che il teste ha dichiarato che, come autista, il suo orario di lavoro terminava alle ore 16,30, pertanto non si comprende come possa essere a conoscenza della circostanza, da lui affermata, che il ricorrente lavorasse prevalentemente di notte, anche per il periodo antecedente al 2016 (avendo dichiarato di aver lavorato come custode “solo nell’ultimo anno”). Il teste inoltre potrebbe non essere totalmente indifferente all’esito del giudizio, avendo in corso analoga controversia.
Osserva poi il giudice che la deposizione del teste, al di là dell’indicazione di un orario di lavoro, risulta eccessivamente generica in ordine alla durata effettiva della prestazione lavorativa giornaliera, tanto che non risulta possibile individuare il concreto orario di lavoro ai fini della sussistenza di prestazioni di lavoro straordinario.
Sono prive di fondamento pertanto le domande del ricorrente volte ad ottenere il pagamento di somme a titolo di lavoro straordinario.
Quanto alle ulteriori pretese economiche del ricorrente, si osserva quanto segue.
Come già rilevato, non è in contestazione l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti dal 1.6.2011 al 27.4.2017 con inquadramento del lavoratore al livello C2; il ricorrente afferma tuttavia di aver percepito una retribuzione inferiore a quella prevista per legge e per contratto, di non aver percepito la 13^ e 14^ mensilità, il trattamento di fine rapporto, i buoni pasto, indennità per ferie e permessi residui non goduti.
Il contratto di lavoro del ricorrente, prodotto dalla resistente e sottoscritto dal dipendente (doc. 1) prevede lo svolgimento delle mansioni di custode e la corresponsione di uno stipendio mensile pari a € 2.155,00 comprensivo delle indennità di cui all’art.9 del medesimo contratto.
L’art. 1 del contratto individuale inoltre prevede:
“La retribuzione dovrà essere pagata nella valuta locale in (Euro) alla fine di ogni mese ( stipendio + totale indennità) in aggiunta alla tredicesima nel mese di dicembre e la quattordicesima nel mese di giugno( solo stipendio base) per le mansioni attribuite al dipendente secondo la qualifica assegnata e per le funzioni richieste al dipendente” L’art.9 del citato contratto specifica la struttura della retribuzione:
“Art.9 la struttura della retribuzione comprende le seguenti:
- paga base conglobata (1.420 Euro) Indennità italiane (235 euro);
- i buoni pasto (articolo 9 della disciplina del rapporto di lavoro) ;
- Ratei di festività nazionali ed orari ex festività soppresse (articolo 12 della disciplina del rapporto di lavoro) ;
- - Indennità aggiuntive (250Euro) mensile in contanti ogni trimestre (articolo n.238 anno 2008 del Ministero Affari esteri Emiratino) ;
- Incremento del costo della vita (250Euro) mensile in contanti ogni trimestre (articolo 381 anno 2010 del Ministero degli Esteri Emiratino).
Parte ricorrente non ha contestato la documentazione allegata da parte resistente e, quindi la retribuzione come concordata tra le parti e percepita dal ricorrente è superiore a quella prevista dal CCNL invocato da parte ricorrente per il livello C2.
Avuto riguardo al CCNL allegato da parte ricorrente (doc. 6), il lavoratore ha in effetti percepito una retribuzione mensile superiore a quella prevista dal CCNL invocato, essendo per l’anno 2014 i minimi contrattuali per il livello C2 pari a € 1.482,36, per l’anno 2015 a €1.492,03, per l’anno 2016 a € 1.509,86.
Anche applicando a tali cifre gli scatti di anzianità nella misura prevista dal CCNL, la retribuzione concordata tra datore di lavoro e lavoratore risulta comunque superiore ai minimi previsti per il livello C2; pertanto non sussiste alcuna differenza dovuta rispetto alla retribuzione concordata e percepita.
Nessuna differenza è poi dovuta per buoni pasto, essendo tale indennità specificamente compresa nella retribuzione ex art.9 del contratto individuale, unitamente ai ratei di festività nazionali ed orari ex festività e unitamente alla indennità aggiuntiva e all’incremento del costo della vita indicati sempre al citato articolo 9 del contratto.
Tuttavia il ricorrente ha lamentato il mancato pagamento della 13^ e della 14^ mensilità e parte resistente non ha fornito prova del pagamento, limitandosi ad affermare che il ricorrente avrebbe percepito mensilmente quanto maturato nel periodo di riferimento a titolo di gratifica natalizia e quattordicesima, come risulterebbe provato dalle buste paga sottoscritte dal ricorrente.
Parte convenuta tuttavia non ha prodotto le buste paga sottoscritte dal ricorrente; inoltre dalle buste paga prodotte dal lavoratore emerge che, contrariamente a quanto sostenuto dalla convenuta, la 13^ e la 14^ mensilità non venivano corrisposte in ratei mensili, ma in unica soluzione rispettivamente nel mese di dicembre e luglio di ogni anno, come del resto previsto dal contratto individuale.
Spettano pertanto al ricorrente € 15.688,33 oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo; tale somma è determinata prendendo a riferimento la sola paga base, come previsto dal contratto, pari a € 1.420,00 per l’anno 2011 (ratei pari a € 828,33), a € 1.450,00 per l’anno 2012, a € 1.480,00 per gli anni 2013 e 2014, a € 1.510,00 per gli anni 2015 e 2016; la 13^ e 14^ per l’anno 2017 sono liquidate con la busta paga relativa alle spettanze di fine rapporto, come di seguito specificato.
Le competenze di fine rapporto, compreso il TFR e l’indennità di mancato preavviso, sono state corrisposte all’udienza del 27.6.2019 nella misura indicata nella busta paga prodotta da parte resistente e non specificamente contestata dal lavoratore.
Non possono ritenersi corretti gli importi indicati nel conteggio di parte ricorrente che indicano ferie e permessi in misura nettamente superiore a quanto risultante dalle buste paga, senza allegazione e prova della loro mancata fruizione.
Conclusivamente pertanto la somma dovuta al ricorrente era pari alle competenze di fine rapporto e alla retribuzione di aprile 2017 pari all’importo lordo di € 19.348,01 corrispondente al netto di € 16.750,09 oltre interessi e rivalutazione come per legge.
Tale somma è stata pagata con l’assegno consegnato al ricorrente alla udienza del 27.6.2019 per l’importo netto di € 16.750,09.
La resistente deve quindi essere condannata al pagamento in favore del ricorrente degli interessi legali e della rivalutazione monetaria su detta somma dalla maturazione del diritto alla data del pagamento del 27.6.2019.
Appare equa la compensazione delle spese di lite nella misura della metà, considerato che: il ricorrente è rimasto soccombente sulla domanda di risarcimento danni per mobbing; la domanda di condanna al pagamento di differenze retributive è stata accolta solo in minima parte rispetto a quanto richiesto; il pagamento della sorte delle retribuzioni, indennità di preavviso e del TFR è avvenuto solo all’udienza del 27.6.2019. La restante metà deve essere posta a carico di parte convenuta.
Pertanto le spese di lite si liquidano per l’intero in € 4.800,00 per compensi oltre spese generali e oltre IVA e CPA. La resistente deve quindi essere condannata al pagamento in favore di parte ricorrente della quota di metà di dette spese di lite, quota pari a € 2.400,00 per compensi, oltre spese generali e oltre IVA e CPA.
P.Q.M.
In parziale accoglimento del ricorso:
condanna la resistente al pagamento in favore del ricorrente della somma di € 15.688,33 a titolo di 13^ e 14^ mensilità, oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo;
condanna la resistente al pagamento in favore del ricorrente degli importi dovuti a titolo di interessi e rivalutazione monetaria sulla somma di € 19.348,01 dalla maturazione del diritto al 27.6.2019;
rigetta le altre richieste di parte ricorrente;
compensa le spese di lite tra le parti in misura pari alla metà delle stesse e condanna la resistente al pagamento in favore di parte ricorrente della residua metà pari a € 2.400,00 per compensi oltre spese generali al 15%, oltre IVA e CPA.