
Confermata la sospensione cautelare dell'avvocato condannato per fatti commessi nell'esercizio della professione, in quanto il decoro e la dignità dell'avvocatura vanno tutelati dall'eco di notorietà dei medesimi.
Il Consiglio Distrettuale di Disciplina presso la Corte d'Appello di Roma disponeva la sospensione cautelare di un avvocato per la durata di 8 mesi, preso atto della condanna del medesimo alla pena della reclusione per 3 anni e 6 mesi, della multa di 3mila euro e della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici per 5 anni, poiché ritenuto responsabile di una serie di reati, tra cui quelli previsti dagli
Il Consiglio Nazionale Forense rigettava il gravame proposto dal professionista, il quale si rivolge alla Corte di Cassazione mediante proposizione di ricorso in cui denuncia il fatto che il provvedimento di sospensione avrebbe dovuto trovare giustificazione nella necessità di sedare il cosiddetto strepitus fori, non potendo, invece, fondarsi esclusivamente sulla gravità dell'imputazione.
Con la sentenza n. 10740 del 22 aprile 2021, le Sezioni Unite Civili dichiarano infondata la suddetta censura, osservando come nel caso di specie il Giudice disciplinare fosse consapevole della gravità dei fatti addebitati al ricorrente con sentenza di condanna penale, tutti maturati nell'esercizio della sua professione, spiegando in modo logico che la naturale diffusività della notizia (per via della pubblicità del dibattimento penale) imponeva la misura cautelare adottata per tutelare il decoro e la dignità dell'avvocatura.
Del resto, le Sezioni Unite si erano già espresse a tal proposito, evidenziando che «l'eco di notorietà dei fatti derivante dalla pronuncia di pubblica condanna penale, a prescindere dall'epoca alla quale i fatti risalgono, e, come ovvio, dalla consistenza dell'incolpazione, di esclusivo dominio del giudice penale, rende attuale quello strepitus fori, costituente ratio della misura». Ciò posto, nel caso in esame l'avvocato era stato condannato dopo un pubblico dibattimento, dunque il disdoro che ne deriva per la professione è attuale e concreto, specialmente perché i fatti risultano essere intimamente connessi all'esercizio della professione di avvocato.
Per questa ragione, le Sezioni Unite rigettano il ricorso.
Svolgimento del processo
1. A seguito di trasmissione da parte del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Rieti il Consiglio Distrettuale di Disciplina presso la Corte d'appello di Roma, preso atto che l'avv. M.M., ritenuto responsabile dei reati di cui agli artt. 640, 380 c.p., art. 61 c.p., n. 11, art. 81 cpv. c.p. (occasionati dall'esercizio della professione), ai danni di due clienti, nonchè di patrocinio infedele (art. 380 c.p.), ai danni di altra cliente, era stato condannato alla pena complessiva di anni tre e mesi sei di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa, con l'applicazione della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque anni, nonchè al risarcimento del danno, dispose la sospensione cautelare del professionista per la durata di mesi otto.
Il Consiglio nazionale Forense, adito dall'avv. M., con la sentenza di cui in epigrafe, rigettò il gravame.
2. Avverso la statuizione del Consiglio Nazionale Forense ricorre l'avv. M.M. sulla base di unitaria censura.
Il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Rieti è rimasto intimato.
Motivi della decisione
1. Il ricorrente denunzia violazione ed errata applicazione dell'art. 32 regolamento disciplinare n. 2, 21/2/2014 e L. n. 247 del 2012, art. 60, assumendo che il provvedimento di sospensione avrebbe dovuto trovare giustificazione nella necessità di sedare il c.d. "strepitus fori", non potendo trovare fondamento solo nella gravità dell'imputazione.
La necessità di ridurre la propagazione del disdoro derivante dal fatto addebitato al professionista non poteva rinvenirsi nella mera circostanza del pubblico dibattimento penale, in assenza di evidenze dimostrative del propagarsi della notizia. Diversamente la sospensione non sarebbe più dipesa da una valutazione discrezionale d'opportunità, ma sarebbe derivata automaticamente dalla condanna penale.
1.1. La censura è infondata.
1.1.1. Dispone della L. n. 247 del 2012, art. 60, comma 1: "La sospensione cautelare dall'esercizio della professione o dal tirocinio può essere deliberata dal consiglio distrettuale di disciplina competente per il procedimento, previa audizione, nei seguenti casi: applicazione di misura cautelare detentiva o interdittiva irrogata in sede penale e non impugnata o confermata in sede di riesame o di appello; pena accessoria di cui all'art. 35 c.p., anche se è stata disposta la sospensione condizionale della pena, irrogata con la sentenza penale di primo grado; applicazione di misura di sicurezza detentiva; condanna in primo grado per i reati previsti negli artt. 372, 374, 377, 378, 381, 640 e 646 c.p., se commessi nell'ambito dell'esercizio della professione o del tirocinio, artt. 244, 648-bis e 648-ter c.p.; condanna a pena detentiva non inferiore a tre anni".
L'art. 32 del regolamento citato, in larga parte ripetitivo del contenuto della norma primaria, non introduce elementi di utile valutazione per quel che qui rileva.
1.1.2. Si è in presenza, come d'usuale in simili casi, d'una norma a contenuto aperto, nel senso che il "può" evocato dalla legge, indirizza verso l'esercizio da parte dell'autorità disciplinare d'una discrezionalità applicativa che, ragionevolmente collegata alla "ratio legis", determini presupposti e ambito della tutela cautelare. Laddove il verbo potere non investe d'arbitrio la scelta, la quale, per contro, diviene obbligata ove ricorrano le circostanze che la impongano.
Per quel che qui è di rilievo, non è dubbio che trattasi di opzione che, in presenza di condanna penale, che quanto all'entità della pena inflitta, che al titolo dei reati addebitati (art. 640 c.p.), integra l'ipotesi normativa sopra riportata, attiene al vaglio motivazionale.
La giustificazione motivazionale è di esclusivo dominio del giudice del merito, con la sola eccezione del caso in cui essa debba giudicarsi meramente apparente. Siccome ha già avuto modo questa Corte di più volte chiarire, la riformulazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione, con la conseguenza che è pertanto, denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; anomalia che si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione (S.U., n. 8053, 7/4/2014, Rv. 629830; S.U. n. 8054, 7/4/2014, Rv. 629833; Sez. 6-2, ord., n. 21257, 8/10/2014, Rv. 632914).
Apparenza che ricorre, come di recente ha ribadito questa Corte, allorquando essa, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture (Sez. 6, n. 13977, 23/5/2019, Rv. 654145).
A tale ipotesi deve aggiungersi il caso in cui la motivazione non risulti dotata dell'ineludibile attitudine a rendere palese (sia pure in via mediata o indiretta) la sua riferibilità al caso concreto preso in esame, di talchè appaia di mero stile, o, se si vuole, standard; cioè un modello argomentativo a priori, che prescinda dall'effettivo e specifico sindacato sul fatto.
Nella specie il Giudice disciplinare, ben lungi dall'avere assegnato automaticità alla sospensione, e, peraltro ben conscio della gravità dei fatti (tutti maturati nell'esercizio della professione d'avvocato) addebitati al M. con la sentenza di condanna penale, rispondendo a precisa censura del ricorrente, ha compiutamente e razionalmente spiegato che la naturale diffusività della notizia, procurata dalla pubblicità del dibattimento penale, imponeva la misura cautelare, al fine di tutelare il decoro e la dignità dell'avvocatura.
E' bene soggiungere che l'approfondimento motivazionale di cui alla sentenza del Consiglio Nazionale Forense discende, come hanno avuto modo di chiarire queste S.U., dall'esercizio di un legittimo potere officioso, purchè radicato nelle risultanze di causa e contenuto nei limiti del "devolutum" (S.U., n. 28176, 10/12/2020).
Queste S.U. hanno già avuto modo di chiarire che l'eco di notorietà dei fatti derivante dalla pronuncia di pubblica condanna penale, a prescindere dall'epoca alla quale i fatti risalgono, e, come ovvio, dalla consistenza dell'incolpazione, di esclusivo dominio del giudice penale, rende attuale quello "strepitus fori" (S.U. n. 19711/2012), costituente ratio della misura, secondo interpretazione più volte proposta.
Nel caso in esame, il professionista risulta essere stato condannato con sentenza penale, a seguito di pubblico dibattimento, quindi, il disdoro che ne deriva per la professione, oltre che attuale, appare necessariamente concreto, specie ove i fatti risultino, non solo corrispondenti alle tipologie di reato previste dalla legge, ma intimamente correlati all'esercizio della professione d'avvocato.
2. Non deve farsi luogo a regolamento delle spese non avendo la controparte svolto difese in questa sede.
3. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile "ratione temporis" (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.