La Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo il quale le decisioni del CNF sono impugnabili di fronte alle Sezioni Unite soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge.
Il CNF, riformando il provvedimento emesso dal COA di Padova che aveva irrogato al ricorrente la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio della professione, comminava al medesimo la minore sanzione della censura in quanto, «pur avendo fissato un incontro - asseritamente per transigere una controversia concernente la restituzione di documenti in possesso degli esponenti - aveva, di nascosto dalle controparti, allertato le forze dell'ordine, paventando una estorsione in danno della propria cliente».
L'attuale ricorrente impugna il suddetto provvedimento, deducendo che il CNF avrebbe errato nell'applicare l'
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, sulla scorta di una consolidata giurisprudenza, con sentenza n. 10106 del 23 marzo 2021 rigettano il ricorso presentato dall'avvocato, ribadendo il seguente principio di diritto: «Le decisioni del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare sono impugnabili dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ai sensi dell'art. 56 R.D.L. n. 1578/1933, soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, con la conseguenza che l'accertamento del fatto, l'apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto del controllo di legittimità, salvo che si traducano in un palese sviamento di potere, ossia nell'uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito».
Svolgimento del processo
1. Il Consiglio Nazionale Forense, con sentenza n. 45 del 2020, in parziale accoglimento del ricorso proposto dall'avv. T.C. ed in riforma del provvedimento del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Padova - che aveva inflitto alla T. la sanzione disciplinare della sospensione dell'esercizio della professione per mesi due -, irrogava la minor sanzione della censura.
2. Il procedimento disciplinare a carico della T. traeva origine da due esposti, depositati rispettivamente in data 13 e 14 luglio 2006, a firma dell'avv. Pierantonio Menapace e del Dott. P.N., commercialista, nei quali si lamentava una grave violazione del codice deontologico da parte della predetta che, pur avendo fissato un incontro - asseritamente per transigere una controversia concernente la restituzione di documenti in possesso degli esponenti - aveva, di nascosto dalle controparti, allertato le forze dell'ordine, paventando una estorsione in danno della propria cliente.
Il COA di Padova comunicava all'avv. T., con raccomandata del 4/1/2007, l'avvio del procedimento disciplinare a suo carico, con il seguente capo di incolpazione: "Per aver chiesto un incontro tra i suoi assistititi e il Dott. P.N., assistito dall'avv. Pierantonio Menapace, al fine di dirimere le controversie tutte, richiedendo, invece, poco prima dell'incontro ai Carabinieri della Stazione di Tombolo, la loro disponibilità ad intervenire all'incontro stesso, nel quale si sarebbe consumata una estorsione da parte del commercialista Dott. P.N. e del legale di quest'ultimo avv. Pierantonio Menapace. Per aver prospettato nel corso dell'incontro di cui sopra, iniziative giudiziarie sproporzionate attese le giustificazioni addotte per la mancata consegna di documentazione. Così violando le norme di cui agli artt. 6, 22 e 48 del codice deontologico. In (omissis)".
Alla prima udienza disciplinare, nella quale venivano ascoltati gli esponenti e i testi, emergeva una ulteriore circostanza, ritenuta rilevante disciplinarmente, ovvero che all'incontro del 12/7/2006 era stata presente, altresì, la Dott. S.F., inizialmente qualificata come collaboratrice dell'incolpata ma che, in realtà, era una perita grafologa. Tale fatto portava il COA ad una contestazione suppletiva nei seguenti termini: "Per aver fatto presenziare all'incontro del 12 luglio 2006 per il quale si procede, tale dottoressa S. qualificandola al Dott. P. ed all'avv. Menapace quale sua nuova collaboratrice di studio mentre dall'istruttoria sarebbe emerso come la Dott.ssa S. fosse in realtà un perito calligrafo di altra città, con ciò contravvenendo ai doveri di correttezza e lealtà di cui agli artt. 22 e 6 del codice deontologico, fatto avvenuto sempre in (omissis)".
3. All'esito della discussione finale il collegio irrogava la sanzione della sospensione per due mesi.
4. Avverso tale decisione l'avv. T. ricorreva al Consiglio Nazionale Forense il quale confermava il giudizio di responsabilità disciplinare irrogando, però, la minor sanzione della censura.
5. Respingeva il Consiglio l'eccezione di prescrizione sollevata dalla ricorrente con riferimento della L. n. 247 del 2012, artt. 3 e 56, normativa sopravvenuta prevedente una disciplina più favorevole, richiamando Cass., Sez. Un., 18 aprile 2018, n. 9558 secondo cui la previsione dell'art. 65, comma 5, della nuova Legge Professionale ("le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l'incolpato") riguarda esclusivamente la successione nel tempo delle norme del previgente e del nuovo codice deontologico con la conseguenza che, per l'istituto della prescrizione, la cui fonte è legale e non deontologica, resta operante il criterio generale dell'irretroattività delle norme in tema di sanzioni amministrative, sicchè è inapplicabile lo jus superveniens introdotto con la L. n. 247 cit., art. 56, comma 3.
6. Quanto al merito riteneva che la portata precettiva degli artt. 5, 6, 8 e 22 del codice disciplinare previgente fosse stata ritrascritta negli attuali artt. 9 e 19 che tuttavia, essendo norme di principio, sono sprovviste di autonomo apparato sanzionatorio.
Discorso diverso era da farsi con riferimento all'art. 48 del codice previgente che trova il proprio omologo nell'art. 65 del nuovo codice, norma che prevede, quale sanzione ordinaria, la censura e, quale sanzione aggravata, quella di cui all'art. 22, comma 2.
Evidenziava che era sulla base del nuovo codice deontologico che andava valutato il comportamento dell'avv. T..
Riteneva che quest'ultima, allertando i Carabinieri, avesse compiuto una leggerezza, dettata con ogni probabilità dall'aver assecondato con eccessivo zelo e desiderata dei propri assistiti, i quali avevano già paventato una denuncia nei confronti dell'esponente, Dott. P..
Sosteneva che tale circostanza, pur non legittimando la condotta dell'incolpata, fosse tuttavia indice di un elemento soggettivo meno inteso rispetto a quanto considerato nel giudizio di primo grado.
A tal fine evidenziava che il ritardo di oltre un mese nella riconsegna della documentazione da parte del commercialista, pur in presenza di una adeguata giustificazione, avesse senz'altro indotto la T. a ritenere che vi era un intento pretestuoso in capo al predetto, il quale, nella ricostruzione dell'incolpata e presumibilmente dei suoi assistiti, avrebbe inteso subordinare tale riconsegna al pagamento delle proprie spettanze o quantomeno ad una ricognizione di debito.
Aggiungeva che tale circostanza aveva trovato riscontro nelle dichiarazioni dell'incolpata e dei testimoni a discarico e che altro aspetto da considerare era che l'avv. T. aveva prospettato ai Carabinieri la mera eventualità che potesse esser commesso un relato, senza preciso riferimento a chi lo avrebbe commesso (recte, avrebbe potuto commetterlo).
Riteneva che l'aver ipotizzato una denuncia configurasse senz'altro una violazione dell'art. 65 del nuovo codice vigente e, tuttavia, precisava che, anche considerando il grado di istruzione degli interlocutori (un avvocato e un commercialista), era difficile poter ritenere che ciò potesse aver menomato in maniera sensibile la loro libertà di autodeterminazione.
Assumeva che la condotta dell'incolpata fosse violatrice dei principi di lealtà e correttezza oltre che del nuovo art. 65 ma, non avendo portata propriamente calunniosa, non risultasse di gravità tale da giustificare una maggiorazione rispetto alla sanzione minima edittale prevista dal codice.
Riteneva che anche l'illecito di cui alla seconda incolpazione, pur sussistente, fosse meritevole di una sanzione più tenue di quella irrogata.
A tale riguardo assumeva che fosse contrario ai doveri di lealtà e correttezza introdurre estranei ad una riunione ma che era difficile configurare, nello specifico, una vera e propria preordinazione da parte dell'incolpata, volta a danneggiare qualcuno.
Sottolineava che se pure la scelta di coinvolgere nell'incontro la Dott.ssa S. era stata improvvida, era innegabile che quest'ultima si fosse solo limitata ad assistere alla riunione.
7. Conclusivamente riteneva che, pur sussistendo tutti gli addebiti contestati, il nuovo regime sanzionatorio e la riscontrata sussistenza di un elemento soggettivo meno intenso rispetto a quello valutato dal COA di Padova, consentissero di irrogare la sanzione della censura.
8. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'avv. T. sulla base di due motivi.
9. L'intimato Consiglio dell'ordine territoriale non ha compiuto attività difensiva in questa sede.
10. Il Collegio ha proceduto in camera di consiglio ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, convertito con L. n. 176 del 2020, in mancanza di richiesta di discussione orale.
11. Il Procuratore generale ha formulato le sue conclusioni motivate, ritualmente comunicate alle parti, insistendo per il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente deduce nullità della sentenza per violazione di legge ai sensi della L. n. 247 del 2012, art. 36, comma 6 e della L. n. 36 del 1934, art. 56, comma 3: violazione della L. n. 247 del 2012, artt. 65, 9 e 19, nonchè apparenza e irriducibile contraddittorietà della motivazione.
Sostiene che il Consiglio Nazionale Forense, dopo aver ritenuto che la violazione dell'art. 48 del codice previgente fosse stata trasfusa nell'art. 65 del nuovo codice disciplinare, rubricato "Minaccia di azioni alla controparte", avrebbe errato nell'applicare tale ultima disposizione alla fattispecie in esamèposto che la stessa mira a contemperare le esigenze di difesa dell'assistito con il rispetto della libertà di determinazione della controparte e che, se tale libertà di determinazione non è messa in pericolo, allora non potrà ritenersi sussistente la relativa violazione.
Assume che la norma di cui all'art. 65, fa ora riferimento ad una condotta marcatamente volontaria quale evincibile dalla obliterazione delle parole del testo previgente "tendente ad ottenere" rispetto ai "particolari adempimenti sotto comminatoria di azioni, istanze fallimentari, denunce, querele o altre azioni".
Con riguardo all'ulteriore incolpazione, rileva che la sentenza impugnata è caratterizzata da motivazione apparente e contraddittoria anche in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e all'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, laddove, da un lato, si afferma la sussistenza della violazione deontologica e, dall'altro, la si esclude nella sostanza sottolineando che l'avv. T. aveva prospettato ai Carabinieri la mera eventualità che potesse essere commesso un reato ed altresì laddove, quanto alla incolpazione di aver introdotto la Dott.ssa S. alla riunione, si è sottolineato che pareva difficile configurare, nello specifico, una vera e propria preordinazione da parte dell'incolpata, volta a danneggiare qualcuno.
2. Il motivo è infondato.
Quanto alle doglianze mosse con riguardo alla prima incolpazione è sufficiente rilevare che l'evidenziata ratio di contemperamento delle esigenze di difesa con il necessario rispetto della libertà di determinazione della controparte è stata adeguatamente presa in considerazione dal CNF che ha calibrato l'iniziativa legale intrapresa dall'avv. T. in correlazione funzionale alle altrui inadempienze e ritenuto che l'aver ipotizzato una denuncia di estorsione integrasse già la violazione dell'art. 65 CDF, ciò per la sottesa considerazione, emergente dal complessivo argomentare (e dai chiari e ripetuti riferimenti alla scorrettezza ed alla leggerezza del comportamento posto in essere), che l'iniziativa, risultante, in concreto, a termini di norma, del tutto sproporzionata e vessatoria, fosse tale da configurare una indebita pressione psicologica tesa a condizionare la libertà di determinazione dei destinatari.
Sul punto, peraltro, la disposizione è chiara laddove prevede, al comma 1, seconda parte, che l'avvocato "non deve minacciare azioni o iniziative sproporzionate o vessatorie".
Anche il passaggio motivazionale in cui è evidenziato che "è difficile ritenere che possa aver menomato in maniera sensibile la loro libertà di autodeterminazione" non è posto dal CNF in rapporto con la violazione dell'art. 65 (che anzi è presupposta) ma valutato solo ai fini della aggravante.
Del resto, a termini dell'art. 21, comma 3, del nuovo CDF (norma generale e di chiusura regolante l'esercizio della potestà disciplinare), la sanzione deve essere commisurata alla gravità del fatto, al grado della colpa, alla eventuale sussistenza del dolo ed alla sua intensità, al comportamento dell'incolpato, precedente e successivo al fatto, avuto riguardo alle circostanze, soggettive e oggettive, nel cui contesto è avvenuta la violazione.
Egualmente è a dirsi con riguardo all'ulteriore aspetto considerato dal CNF relativamente alla deposizione del brigadiere Dott. C. (il quale aveva prospettato la mera eventualità che potesse essere commesso un reato di estorsione, senza alcun preciso riferimento a chi lo avrebbe commesso, recte avrebbe potuto commetterlo) che, nella ricostruzione dell'organo disciplinare, rileva per escludere la giustificatezza della maggiorazione (non, evidentemente, per ritenere non integrata la violazione dell'art. 65 CDF che, anzi, dal suddetto argomentare risulta vieppiù confermata).
Quanto alle affermate violazioni degli artt. 9 e 19 del nuovo codice deontologico, è da rilevare che il CNF abbia, sulla base delle risultanze processuali e delle dichiarazioni rilasciate dalle persone ascoltate, correttamente riconosciuto la contrarietà della condotta dell'avv. T. rispetto alle norme deontologiche e, al fine di definire la giusta sanzione e correttamente valutando comportamenti da soli non sanzionati nel più ampio contesto caratterizzato da ulteriori violazioni sanzionate, abbia tenuto conto, per questa come per l'altra incolpazione, di tutti gli aspetti relativi alle modalità di commissione dell'illecito ed alla intensità dell'elemento soggettivo (e così, ad esempio, della mancanza di preordinazione).
Deve, peraltro, ricordarsi il principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui le decisioni del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare sono impugnabili dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ai sensi del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 56, soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, con la conseguenza che l'accertamento del fatto, l'apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto del controllo di legittimità, salvo che si traducano in un palese sviamento di potere, ossia nell'uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito. Non è, pertanto, consentito alle Sezioni Unite sindacare, sul piano del merito, le valutazioni del giudice disciplinare, dovendo la Corte limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità, sulla adeguatezza e sull'assenza di vizi logici della motivazione che sorregge la decisione finale (Cass., Sez. Un., 2 dicembre 2016, n. 24647; Cass., Sez. Un., 20 settembre 2016, n. 18395; Cass., Sez. Un., 4 febbraio 2009, n. 2637; v. anche Cass., Sez. Un., 17 marzo 2017, n. 6967).
Nel caso in esame, la sentenza impugnata appare adeguatamente e ragionevolmente motivata tanto con riferimento alla sussunzione della condotta posta in essere negli illeciti disciplinari per i quali è stata riconosciuta la responsabilità quanto con riguardo alla sanzione in concreto irrogata, con la conseguenza che la stessa rimane immune da censura.
3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, in via subordinata, nullità della sentenza per violazione di legge, ai sensi della L. n. 247 del 2012, art. 36, comma 6 e della L. n. 36 del 1934, art. 56, comma 3: omessa e contraddittoria motivazione con riguardo alla sussistenza del caso meno grave di cui all'art. 22, comma 3, del nuovo Codice Disciplinare Forense.
Sostiene che non siano spiegate le ragioni per le quali sono state ritenute sussistenti le violazioni in realtà escluse nella sostanza.
4. Il motivo è infondato.
Come già evidenziato con riguardo al motivo che precede, il CNF, sulla base delle risultanze processuali e con un ragionamento lineare e logico, ha riconosciuto, per entrambi i capi di incolpazione, che la condotta dell'avv. T. fosse stata in contrasto con le norme deontologiche contestate, ancorchè escludendo l'applicabilità della sanzione aggravata, e ciò tenendo conto di vari aspetti tra cui le modalità di commissione dell'illecito e l'intensità dell'elemento soggettivo (considerata, quest'ultima, minore rispetto a quanto riconosciuto in sede di giudizio di primo grado).
La valutazione operata dal giudice disciplinare di ogni fatto rilevante ai fini del conclusivo giudizio è affidata ad una motivazione coerente e congrua, priva di elementi di contraddittorietà ovvero di mende giuridiche.
5. Il ricorso, pertanto, deve essere respinto.
6. Nulla vi è da disporre quanto alle speselatteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell'intimato.
7. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass., Sez. Un., n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dalla ricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.