
Il reddito da lavoro irregolare non può costituire presupposto idoneo ai fini della valutazione per il rilascio del permesso di soggiorno CE per i soggiornanti di lungo periodo.
La Questura di Ragusa rigettava l'istanza dell'attuale ricorrente relativa al rilascio di un permesso di soggiorno CE per i soggiornanti di lungo periodo. Dello stesso avviso il TAR Sicilia, che respingeva il gravame proposto dal richiedente. Quest'ultimo propone appello dinanzi al Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana, deducendo l'erroneità della sentenza del TAR nella parte in cui aveva ritenuto che i redditi dichiarati dall'istante non fossero adeguati a consentire il rilascio del permesso di soggiorno in oggetto.
Con sentenza n. 353 del 22 aprile 2021, il CGA rigetta l'appello e dichiara che «in sede di rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo non può essere considerato, al fine di integrare il presupposto del reddito, il lavoro irregolare».
Nelle sue argomentazioni, il CGA ricorda anzitutto la direttiva n. 2003/109/CE, la quale impedisce ad uno Stato membro di rilasciare un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo a condizioni più favorevoli di quelle previste nella stessa direttiva. Tale assunto trova giustificazione nel fatto che il rilascio di tale documentazione da parte di uno Stato produce effetti anche sugli altri Stati, poiché consente al titolare di soggiornare per più di tre mesi nel territorio di Stati membri diversi rispetto a quello che ha concesso allo stesso lo status di soggiornante di lungo periodo.
Per questo motivo, la direttiva prevede che il richiedente dimostri la sussistenza di risorse stabili e regolari, sufficienti al sostentamento suo e dei suoi familiari, senza la necessità di fare ricorso al sistema di assistenza sociale dello Stato membro. Pertanto, «gli Stati membri valutano dette risorse con riferimento alla loro natura e regolarità e possono tener conto del livello minimo di retribuzioni e pensioni prima della presentazione della richiesta dello status di soggiornante di lungo periodo».
Dello stesso avviso la giurisprudenza maggioritaria, secondo la quale «il mancato versamento dei contributi di legge prova che, se anche il rapporto di lavoro non fosse inesistente, sarebbe un rapporto di lavoro in nero che come tale non costituisce un valido presupposto per l'ottenimento di un permesso di soggiorno. (...) Si rende necessario, da parte del legislatore, intervenire con periodiche leggi di sanatoria che consentono la c.d. emersione del lavoro irregolare al fine della regolarizzazione e conseguente rilascio del permesso di soggiorno».
Svolgimento del processo
1. La controversia riguarda il rigetto, contenuto nel decreto 13.12.2015 - omissis -, dell'istanza per il rilascio di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo presentata dal sig. - omissis - in data 11.2.2014 alla Questura della Provincia di Ragusa.
2. Il decreto è stato impugnato dal sig. -omissis- con ricorso al Tar Sicilia - Catania, che lo ha respinto con sentenza 24.6.2019- omissis -.
3. Il sig. - omissis - ha proposto appello davanti a questo CGARS con ricorso n. 160/2020, corredato da istanza cautelare, accolta con ordinanza n. - omissis -.
4. Nel giudizio di appello si sono costituiti il Ministero dell'interno, l'Ufficio territoriale del Governo di Ragusa e la Questura di Ragusa.
4.1. Con ordinanza n. - omissis - è stato deciso un approfondimento istruttorio, eseguito in data 12.2.2021.
5. All'udienza del 14.4.2021 la causa è stata trattenuta in decisione.
Motivi della decisione
6. L'appello non è meritevole di accoglimento.
7. Con il primo motivo d'appello il sig. -OMISSIS- ha dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui il Tar ha ritenuto che i redditi dichiarati dall'istante non fossero adeguati a supportare il rilascio di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo e/o il rilascio o il rinnovo di altro permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
In particolare l'appellante ha dedotto che:
- gli sono stati certificati "solamente i seguenti redditi da lavoro: 6.461,84 per l'anno 2012, 10.156,84 per l'anno 2013, 6.350,00 per l'anno 2014 e 6.500,00 per l'anno 2015";
- tali certificazioni risultano dalle dichiarazioni formate dal datore di lavoro e rilasciate all'appellante in forza del contratto di associazione in partecipazione sottoscritto in data 23.5.2011;
- in verità, secondo quanto ha affermato, "ha svolto per diversi anni attività lavorativa dipendente non regolarizzata dal proprio datore di lavoro, percependo retribuzioni in nero computabili quale reddito utile ai fini del chiesto permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo";
- in particolare, avrebbe sin dai primi di maggio 2009 continuativamente lavorato alle dipendenze di un minimarket, con mansioni di commesso addetto alla vendita al pubblico, occupato, secondo quanto riferito dall'appellante, tutti i giorni della settimana, dalle 9:00 alle 14:00 e dalle 16:00 alle 21:00;
- sarebbe "palesemente fittizio" il "contratto di associazione in partecipazione con apporto di attività lavorativa" fatto sottoscrivere all'appellante in data 23 maggio 2011, proprio a decorrere dal periodo in cui la Questura di Ragusa ha riscontrato l'assenza di reddito dalle banche dati dell'INPS e dell'Agenzia delle Entrate (" dal febbraio del 2011")";
- a tal fine ha presentato istanze istruttorie volte a comprovare la sussistenza del reddito.
7.1. Il Collegio osserva quanto segue.
Il provvedimento di diniego 13.12.2015 - omissis - dell'istanza per il rilascio di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, notificato il 2.8.2016, reca, quale motivazione, il fatto "che l'interessato non percepisce alcun reddito dal febbraio 2011 come rilevato dalle banche dati dell'INPS e dell'Agenzia delle Entrate".
Il provvedimento è stato adottato prima che l'appellante presentasse, in data 19.5.2016 (spedita in data 25.5.2016), una nuova istanza di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo e, in via subordinata, dl rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, nonché, nel caso di già avvenuta adozione del provvedimento, di riesame del medesimo. Alla stessa è allegata documentazione circa redditi di 6.461,84 per l'anno 2012, di 10.156,84 per l'anno 2013, di 6.350,00 per l'anno 2014 e di 6.500,00 per l'anno 2015.
Risulta dagli atti depositati (nota 4.4.2019 della Questura di Ragusa) che presso il casellario dell'Inps, alla data del 27.2.2019, non risultava alcun reddito dal 2012 al 2016, nel 2011 8 settimane di lavoro, nel 2017 15 giorni lavorativi come agricoltore giornaliero, nel 2018 98 giorni lavorativi come agricoltore giornaliero. Presso l'Agenzia delle entrate è risultato un solo reddito per il 2017 di euro 803,30 come agricolo giornaliero.
Il primo motivo di appello è imperniato sul tentativo di superare il problema della certificazione del lavoro come una questione derivante dall'avere prestato il lavoro in nero, nell'ambito di un, in tesi fittizio, rapporto di associazione in partecipazione (mentre la censura riguardante l'asserita mancata considerazione, da parte dell'Amministrazione dell'istanza del maggio 2016 è contenuta nel secondo motivo di appello, di cui infra).
Al riguardo si osserva quanto segue.
Il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo è disciplinato dalla direttiva 25.11.2003, n. 2003/109/CE.
La Corte di giustizia ha al riguardo statuito che la direttiva 2003/109 deve essere interpretato nel senso che esso non consente ad uno Stato membro di rilasciare a condizioni più favorevoli di quelle previste nella stessa direttiva un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo (sentenza 17.7.2014 in C-469/13). Ciò in quanto l'armonizzazione delle condizioni per il conferimento dello status di soggiornante di lungo periodo favorisce la reciproca fiducia fra gli Stati membri. In tale contesto, detto considerando enuncia che i titoli di soggiorno permanenti o di validità illimitata rilasciati a condizioni più favorevoli rispetto a quelle previste da detta direttiva non danno accesso al diritto di soggiorno in altri Stati membri (considerando 17 della direttiva 2003/109).
Come risulta infatti da una lettura combinata degli articoli 2, lettera b), e 14, paragrafo 1, della direttiva 2003/109, un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo riconosciuto da uno Stato membro produce effetti anche sugli altri stati posto che conferisce, in linea di principio, al suo titolare il diritto di soggiornare per più di tre mesi nel territorio di Stati membri diversi da quello che gli ha concesso lo status di soggiornante di lungo periodo.
Ne deriva che i requisiti di rilascio del permesso di soggiorno UE di lungo periodo, di cui alla presente controversia, richiedono di essere valutati con un particolare rigore, comunque adeguato a garantire il rispetto della disciplina interna, interpretata alla luce della direttiva UE.
L'art. 5 della direttiva stabilisce, per quanto di interesse nella presente controversia, che gli Stati membri richiedono ai cittadini di paesi terzi di comprovare che dispongono, per sé e per i familiari a carico, di risorse stabili e regolari, sufficienti al sostentamento loro e dei loro familiari, senza fare ricorso al sistema di assistenza sociale dello Stato membro interessato. "Gli Stati membri valutano dette risorse con riferimento alla loro natura e regolarità e possono tenere conto del livello minimo di retribuzioni e pensioni prima della presentazione della richiesta dello status di soggiornante di lungo periodo".
L'art. 9 del D.Lgs. n. 286 del 1998, che dispone l'istanza di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo può essere presentata dallo straniero in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità, che dimostra la disponibilità di un reddito non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale.
Detto ciò, la giurisprudenza formatasi nella materia dei permessi di soggiorno per lavoro subordinato (quindi non direttamente sul permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo) ha in più occasioni ritenuto non spendibile il lavoro irregolare al fine di integrare il presupposto del reddito.
Per una prima impostazione, se l'onere di dimostrare i requisiti reddituali imposto dagli artt. 4 e 5 del d. l.gs. n. 286/1998 al soggetto istante non sia soddisfatto mediante la dimostrazione di concreti e leciti mezzi di sostentamento di cui il richiedente dispone in Italia, non è consentito alla Questura il rilascio o il rinnovo del permesso, considerata anche la ratio della normativa, cioè di permettere il soggiorno sul territorio nazionale solo agli stranieri dotati di mezzi di sostentamento idonei e sufficienti, per consentire loro una vita dignitosa ed evitare che si dedichino ad attività illecite o criminose.
La giurisprudenza (di recente, le sentenze del Consiglio di Stato nn. 277/2019 e 768/2019) ha più volte chiarito che il possesso di un reddito minimo idoneo al sostentamento dello straniero e del suo nucleo familiare costituisce condizione soggettiva non eludibile ai fini del rilascio o del rinnovo del permesso di soggiorno, in quanto lo straniero deve essere ben inserito nel contesto lavorativo e contribuire con il proprio impegno allo sviluppo economico e sociale del Paese ospitante, mentre l'insussistenza del requisito integra motivo ostativo al rinnovo del permesso di soggiorno, ai sensi dell'art. 5 del D.Lgs. n. 286 del 1998.
In una diversa prospettiva la giurisprudenza ha in qualche caso (comunque non rappresentativo di un orientamento consolidato) valorizzato positivamente la circostanza della sussistenza di un rapporto di lavoro, atteso l'orientamento della Corte di cassazione circa la liceità del rapporto di lavoro in nero (Cass., sez. lav., 5.11.2010, n. 22559).
Nondimeno negli ultimi anni sono state peraltro introdotte (art. 5 del D.L. 16 luglio 2012, n. 109 e art. 103 del D.L. n. 34 del 2020) fattispecie di sanatoria del rapporto di lavoro irregolare a vantaggio di stranieri (che non hanno coinvolto il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo), riguardanti ipotesi di lavoro subordinato (mentre nel caso di specie l'appellante ha prospettato una situazione nella quale fra le parti è intercorso un rapporto di lavoro riconducibile all'associazione in partecipazione).
La presenza di tali disposizioni rende oltremodo incerta la possibilità, riconosciuta solo in qualche caso dalla giurisprudenza citata, di valorizzare in modo generalizzato (quindi al di fuori dall'ambito applicativo di specifiche fattispecie normative) la sussistenza di lavoro irregolare, al fine del rilascio del permesso di soggiorno. "Il mancato versamento dei contributi di legge prova che, se anche il rapporto di lavoro non fosse inesistente, sarebbe un rapporto di lavoro "in nero" che come tale non costituisce un valido presupposto per l'ottenimento di un permesso di soggiorno ordinario. Tanto che si rende necessario, da parte del legislatore, intervenire con periodiche leggi di "sanatoria" che consentono la c.d. "emersione del lavoro irregolare" al fine della regolarizzazione e conseguente rilascio del permesso di soggiorno" (CGARS, 25.9.2020, n. 810).
Da quanto sopra discende che la presenza di un lavoro irregolare (e quindi di un reddito occulto per lo Stato italiano) non è, se non in casi particolari, una condizione utilizzabile al fine di dimostrare la sussistenza del requisito reddituale di cui all'art. 5 del D.P.R. n. 286 del 1998.
Nel caso di specie, tanto basta a ritenere la censura in esame non meritevole di accoglimento in quanto il diniego è motivato in ragione della mancanza di reddito dichiarato all'Agenzia delle entrate e dall'Inps (così dal provvedimento impugnato).
Nondimeno, anche a voler valutare (senza che ve ne sia la necessità) la via del riconoscimento del lavoro in nero ai fini del rilascio del permesso di soggiorno, l'orientamento giurisprudenziale in base al quale "Nel procedimento di rinnovo del permesso di soggiorno l'extracomunitario può dimostrare con vari strumenti probatori, ove necessario, il possesso del requisito del reddito minimo proveniente da fonte lecita, anche se si tratta di redditi provenienti da rapporti di lavoro con evasione dei relativi contributi dovuti all'ente previdenziale" (Cons. St., sez. III, 25 luglio 2016, n. 3326) non può applicarsi al caso di specie.
Laddove, infatti, la giurisprudenza ha affermato che anche il reddito percepito in nero dal lavoratore è un reddito lecito lo ha fatto con riferimento a un rapporto di lavoro subordinato e a un permesso avente lo stesso titolo, peraltro in un caso dove, nelle more del giudizio, la regolarizzazione era avvenuta.
Nel caso di specie, invece, si tratta innanzitutto di un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, che richiede una valutazione dei requisiti adeguata a garantire il rispetto delle condizioni stabilite a livello eurounitario, per quanto riguarda il caso di specie la sussistenza di "risorse stabili e regolari".
Il provvedimento impugnato è stato emesso in mancanza di reddito, così come accertato nel relativo procedimento (e riferito nel diniego gravato).
L'appellante non risulta, neppure a posteriori, avere regolarizzato la propria posizione, come si desume dalla nota della Questura di Ragusa del 2019.
E ciò anche considerando, sulla base della prospettazione offerta dall'appellante con il motivo in esame, che il rapporto di lavoro del richiedente il permesso di lavoro troverebbe titolo in un atto che qualifica il medesimo in termini di associazione in partecipazione (il contratto di associazione di partecipazione depositato in atti è del 23.5.2011, ha durata biennale, salvo rinnovo tacito, non quantifica il compenso a favore dell'associato).
La nota del 2019 infatti riporta una situazione di lavoro assente fino al 2016 e poi, nel 2017 e nel 2018, contiene il riferimento a giornate lavorative, rispettivamente 15 e 98, svolte come "agricoltore giornaliero", mentre il lavoro presso il minimarket risulta concluso nel 2011 (quindi in epoca risalente).
La regolarizzazione della posizione lavorativa dell'appellante non è quindi avvenuta e la circostanza è rilevante ai fini del rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.
Del resto, la regolarizzazione di un rapporto di lavoro come quello prospettato dall'appellante avrebbe richiesto due passaggi: una nuova qualificazione del rapporto fra l'istante e il datore di lavoro e il pagamento dei relativi contributi.
In tal senso la posizione dell'associato in partecipazione si differenzia dalla situazione del lavoratore in nero (di cui alla sentenza n. 3326/2016).
Nel caso dell'associazione in partecipazione vi è invece della documentazione, firmata da entrambi i contraenti, che attesta una certa tipologia di rapporto instaurato fra le parti e che comporta una determinata distribuzione degli oneri contributivi (anche a carico dell'associato in partecipazione, come si evince dall'art. 53, comma 2, lett. c), D.P.R. n. 917 del 1986). La regolarizzazione in termini di lavoro subordinato presuppone quindi che vi sia un giudice a provvedere a riqualificare il contratto, che fa altrimenti stato fra le parti anche rispetto agli obblighi fiscali, così da non poter affermare che l'irregolarità del rapporto lavorativo è dovuta a causa non imputabile allo straniero stesso.
E non è sufficiente che vi provveda in via incidentale questo Giudice (con conseguente inammissibilità delle istanze istruttorie presentate indipendentemente dal contenuto delle stesse), atteso appunto che la riqualificazione è necessaria anche a ristabilire il soggetto tenuto al pagamento dei contributi (il solo datore di lavoro in caso di rapporto di lavoro subordinato) e permetterne così il pagamento, al fine di rendere la retribuzione percepita "stabile e regolare" (condizione del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo).
A seguito di ordinanza istruttoria n. - omissis - questo CGARS ha appurato che l'appellante non ha ancora presentato domanda per il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato.
Pertanto nel caso di specie la regolarizzazione non solo non risulta avvenuta ma sconta ancora l'effettuazione delle iniziative preliminari, atteso anche che il (in tesi) datore di lavoro non intende conciliare la posizione (come emerge dal verbale negativo di conciliazione presso il Servizio ispettivo di Ragusa).
La situazione sulla base della quale è stato assunto il provvedimento impugnato non avrebbe quindi potuto portare a un provvedimento diverso rispetto a quello adottato.
7.2. Non risulta pertanto comprovata, nei termini prospettati dall'appellante e sulla base degli assunti ivi contenuti, la sussistenza di un reddito adeguato ai sensi dell'art. 9 del D.Lgs. n. 286 del 1998, interpretato alla luce della direttiva n. 109/2003, che richiede la sussistenza di risorse stabili e regolari (art. 5), ai fini dell'annullamento del diniego di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo (in tali termini è qualificato l'atto impugnato mentre non rileva, in punto di qualificazione dell'atto, la successiva istanza del maggio 2016, di cui alla censura successiva).
La censura, nei termini in cui è formulata dall'appellante, non è quindi meritevole di accoglimento.
8. Con il secondo motivo l'appellante ha dedotto che la Questura di Ragusa avrebbe dovuto revocare il diniego o comunque rilasciare il permesso di soggiorno ad altro titolo, come permesso di soggiorno per lavoro subordinato, atteso che con l'istanza del maggio 2016 sarebbero stati provati i redditi percepiti.
Nondimeno si rileva che l'istanza del maggio 2016 è stata presentata quando il procedimento avviato con istanza presentata in data 11.2.2014 si era già concluso, dopo l'adozione del diniego impugnato, datato 13.12.2015.
L'istanza del maggio 2016 contiene peraltro, oltre a una rinnovata richiesta, in via principale, del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, la domanda subordinata di rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro subordinato e un'istanza di riesame nel caso il provvedimento fosse già stato adottato.
Si osserva innanzitutto che è all'esame del Collegio l'impugnato diniego di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo del 13.12.2015, che costituisce un provvedimento diverso rispetto al rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro subordinato.
L'istanza del maggio 2016 pertanto, nella parte in cui contiene il riferimento a tale ultimo permesso, costituisce domanda nuova.
Non opera quindi il principio, contenuto nell'art. 5 comma 5 del D.P.R. n. 286 del 1998, in base al quale possono essere considerati sopraggiunti nuovi elementi che consentano il rilascio del permesso richiesto in precedenza.
Nel caso di specie in precedenza (in data 11.2.2014), infatti, è stato chiesto il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo e il relativo procedimento si è concluso con il provvedimento qui impugnato del 13.12.2015.
I fatti sopravvenuti non operano dopo la conclusione della procedura, atteso che, una volta adottato il provvedimento conclusivo, l'Amministrazione non può ritornare a regolamentare la pretesa del privato se non dopo avere ritirato in autotutela l'atto già adottato (di seguito il tema della non doverosità dell'avvio del procedimento in autotutela).
Rispetto invece alla domanda di rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro subordinato di cui al maggio 2016 non è stata qui impugnata alcuna determinazione conclusiva, né risulta essere stato proposto ricorso per silenzio-inadempimento, risultando quindi inconferenti gli assunti sulla ricorrenza dei relativi presupposti.
L'istanza del maggio 2016 contiene altresì una domanda di riesame.
Rispetto ad essa si rileva che la giurisprudenza afferma l'insussistenza dell'obbligo provvedimentale a fronte di istanze volte a sollecitare l'esercizio da parte dell'Amministrazione dei poteri di autotutela su precedenti provvedimenti sfavorevoli.
L'inconfigurabilità di un tale obbligo della P.A. discende dall'avere già esercitato la potestà di cui si chiede il riesercizio. Ciò, se da un lato non esclude che tale riesercizio possa essere imposto dal principio di continuità dell'azione amministrativa, determina, in ragione del principio di efficienza, la natura officiosa e discrezionale (nell'an per quanto interessa nella presente controversia) del potere di autotutela e il fatto che rispetto all'esercizio di tale potere il privato può avanzare mere sollecitazioni o segnalazioni "prive di valore giuridicamente cogente" (così Cons. St., sez. IV, 9 luglio 2020, n. 4405), in quanto espressione di un interesse non qualificato fino alla decisione dell'ente pubblico di aprire il relativo procedimento.
In tal senso è stato chiarito dalla giurisprudenza che "non sussiste alcun obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi su un'istanza volta a ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile dall'esterno l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell'atto amministrativo mediante l'istituto del silenzio-rifiuto e lo strumento di tutela offerto; il potere di autotutela si esercita discrezionalmente d'ufficio, essendo rimesso alla più ampia valutazione di merito dell'Amministrazione, e non su istanza di parte e, pertanto, sulle eventuali istanze di parte, aventi valore di mera sollecitazione, non vi è alcun obbligo giuridico di provvedere" (Cons. St., sez. IV, 9 luglio 2020, n. 4405).
La presentazione dell'istanza di autotutela nel maggio 2016 non ha quindi determinato il sorgere di un obbligo di provvedere sulla medesima e tanto meno la coercibilità dello stesso. Né l'Amministrazione deve rendere conto di non avere aperto un procedimento di autotutela.
In tale prospettiva risulta pertanto inconferente il contenuto documentale dell'istanza del maggio 2016, peraltro non avente effetti di regolarizzazione, come evidenziato dal contenuto della nota della Questura di Ragusa del 2019. E ciò, per i motivi sopra illustrati, sia in riferimento all'istanza di rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro subordinato (di cui non è impugnata la determinazione conclusiva, né il silenzio), sia in relazione alla domanda di autotutela (rispetto alla quale non è dovuta risposta), oltre che al diniego qui impugnato di permesso di soggiorno UE di lungo periodo, adottato precedentemente (e rispetto al quale si è argomentato sopra).
19.1. La censura, per come formulata nel ricorso in appello, non è quindi meritevole di accoglimento.
20. In conclusione l'appello non è fondato e la sentenza impugnata merita di essere confermata.
La particolarità della controversia giustifica la compensazione delle spese nei due gradi di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge, confermando, per l'effetto, la sentenza impugnata.
Spese del presente grado di giudizio compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, e del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l'appellante.