
Secondo la Suprema Corte, il condannato con sentenza di patteggiamento non ha diritto alla restituzione dei proventi in quanto costituiscono il corrispettivo di una prestazione frutto di un negozio giuridico contrario a norme imperative.
Avverso la decisione del Tribunale di Bergamo che aveva disposto la confisca del denaro in sequestro, l'imputato propone ricorso in Cassazione eccependo che tale denaro non costituiva profitto del reato di cessione di sostanze stupefacenti, bensì provento della sua attività lavorativa.
Con la sentenza n. 18160 dell'11 maggio 2021, la Suprema Corte dichiara il ricorso inammissibile per manifesta infondatezza della doglianza.
Nelle sue argomentazioni, la Cassazione richiama l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale la confisca dei proventi del reato di cessione di stupefacenti, disposta con sentenza di patteggiamento, impedisce al condannato di proporre ricorso in Cassazione «in quanto frutto di un negozio inesistente improduttivo di effetti giuridici, privo di una situazione giuridica soggettiva tutelata dall'ordinamento». Pertanto, «trattandosi del corrispettivo di una prestazione concernente un negozio contrario a norme imperative», il ricorrente non ha diritto alla restituzione di tali proventi poiché tali beni non sono mai entrati nel suo patrimonio, «salvo che l'imputato non contesti in radice il rapporto di connessione tra bene e reato».
Svolgimento del processo
1. Con l'impugnata sentenza, il Tribunale di Bergamo, ai sensi dell'art. 444 c.p.p., applicava a H.L. la pena concordata in relazione a tre violazioni del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, con riferimento ad altrettante cessioni di sostanza stupefacente del tipo cocaina e hashish; il Tribunale disponeva altresì la confisca della somma del denaro in sequestro.
2. Avverso l'indicata sentenza, l'imputata, tramite il difensore di fiducia, propone ricorso per cassazione, affidato a un motivo, con cui deduce la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in riferimento all'art. 240 c.p.. La ricorrente censura la sentenza impugnata, laddove ha disposto la confisca del denaro in sequestro, ritenuto profitto del reato, essendo invece il provento dell'attività lavorativa svolta dalla H..
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile per la manifesta infondatezza del motivo.
2. Il Tribunale ha motivato la confisca del denaro ritenendo che la somma in contanti, pari a 1.475 Euro, sequestrata all'imputata presso la sua abitazione all'esito della perquisizione domiciliare, sia il profitto del reato di cessione di sostanze stupefacenti, ciò essendo stato desunto dalle convergenti dichiarazioni dei tre acquirenti, i quali hanno concordemente riferito di aver acquistato la droga dall'imputata non solo in occasione dei tre fatti oggetto di imputazione, ma anche in precedenza e in diverse occasioni.
3. A tal proposito, va richiamato l'orientamento di questa Corte, affermato da una risalente sentenza delle Sezioni Unite, e tuttavia mai sconfessata sul punto, secondo cui, con riferimento al sequestro di una somma di denaro, ritenuta profitto della cessione di una modica quantità di sostanza stupefacente, allorchè il giudice di merito abbia provveduto, con la sentenza in sede di patteggiamento, alla confisca del somma in sequestro, l'eventuale ricorso per cassazione va dichiarato inammissibile per carenza di interesse, mancando, in capo all'imputato, parte di un negozio illecito per contrarietà a norme imperative, il diritto a rientrare nella disponibilità della somma costituente la controprestazione della cessione, e sempre che l'imputato non contesti in radice il rapporto di connessione tra bene e reato (Sez. Un., n. 9149 del 03/07/1996, Chabni Samir, Rv. 205708).
4. Tale orientamento è stato ribadito in successive decisioni, le quali hanno affermato che, in tema di ricorso per cassazione avverso sentenza di applicazione della pena, difetta l'interesse dell'imputato ad impugnare la confisca del denaro provento del reato di cessione di sostanze stupefacenti, in quanto frutto di un negozio inesistente improduttivo di effetti giuridici, privo di una situazione giuridica soggettiva tutelata dall'ordinamento (Sez. 3, n. 29982 del 22/02/2019, dep. 09/07/2019, Verjoni, Rv. 276252; Sez. 6, n. 26728 del 04/04/2003, dep.19/06/2003, Cannata, Rv. 226987).
In altri termini, il condannato con sentenza di patteggiamento, con cui è stata disposta la confisca dei proventi del reato di cessione di stupefacenti, non ha diritto alla restituzione di detti proventi, atteso che, pur non essendo prevista l'ablazione obbligatoria del profitto del reato in caso di patteggiamento, tali beni non sono mai entrati nel patrimonio dell'imputato, trattandosi del corrispettivo di una prestazione concernente un negozio contrario a norme imperative (Sez. 3, n. 45925 del 09/10/2014, dep. 06/11/2014, Fall, Rv. 260869; Sez. 6, n. 44096 del 18/11/2010, dep. 15/12/2010, Mbaye, Rv. 249073).
5. Ciò posto, a fronte della motivazione del Tribunale, secondo cui tutta la somma sequestrata è il profitto di plurime e reiterate cessioni di sostanza stupefacente, se pur diluite nell'arco di mesi - circostanza che attesta come le quantità acquistate non siano solo quelle oggetto dei fatti contestati nei tre episodi del 18 giugno 2020 -, il ricorso, laddove si limita a censurare la quantificazione del profitto del reato, essendo, invece, la somma sequestrata, almeno in parte, provento dell'attività di sarta svolta dall'imputata, risulta meramente assertivo, nulla avendo al riguardo allegato la ricorrente, sicchè l'ipotesi alternativa, in presenza della prova in punto di derivazione della somma in sequestro dall'attività illecita, desunta dalle convergenti dichiarazioni dei tre acquirenti, rimane paralizzata dal difetto di autosufficienza.
6. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13/06/2000), alla condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.