Secondo la Cassazione, è integrata la fattispecie di disturbo della quiete pubblica quando il rumore è avvertito da più persone, ma solo qualcuno se ne lamenta.
La Corte territoriale di Milano accoglieva l'appello della parte civile costituita e riformava la sentenza con cui il Tribunale di Milano aveva assolto l'imputata «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato» in merito alla contravvenzione
L'imputata propone ricorso in Cassazione deducendo, tra i vari motivi di gravame, che l'appellante aveva inteso come destinatari dei dichiarati disturbi sonori tre diverse unità abitative, ma in effetti tali unità corrispondevano ai vari locali abitati dai familiari conviventi della parte civile, tanto che l'Arpa aveva effettuato i rilievi e le analisi sull'unico appartamento della medesima. Pertanto, la popolazione residente si riduce al nucleo familiare della parte civile.
Alla luce di quanto affermato dalla giurisprudenza, secondo cui «la rilevanza penale della condotta contestata, produttiva di rumori censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede l'incidenza sulla tranquillità pubblica, in quanto l'interesse tutelato dal legislatore è la pubblica quiete», il reato
Per questo motivo, la Cassazione ritiene infondata la doglienza e con sentenza n. 18377 del 12 maggio 2021 dichiara il ricorso inammissibile.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1. Con sentenza del 7 gennaio 2020 la corte di appello di Milano, accogliendo l'appello della costituita parte civile M.G., riformava la sentenza del 24 ottobre 2017 del tribunale di Milano, con la quale I.A. era stata assolta "perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato" in relazione alla contravvenzione ex art. 659 c.p., affermandone la responsabilità ai soli effetti civili e condannandola al risarcimento del danno in favore di M.G..
2.Avverso la pronuncia della suindicata corte di appello propone ricorso per cassazione I.A., mediante il proprio difensore, deducendo tre motivi di impugnazione.
3.Rappresenta con il primo, il vizio ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) in relazione all'art. 576 c.p.p., art. 591 c.p.p., comma 1, lett. a) e art. 568 c.p.p., comma 4, sul rilievo per cui la corte non avrebbe rilevato la carenza di interesse ad impugnare in capo alla parte civile, a fronte della natura della assoluzione intervenuta, siccome adottata con la clausola " perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato", che come tale è inidonea ad assumere efficacia di giudicato in sede civile o amministrativa ex art. 652 c.p.p.. Con l'ulteriore conseguenza di incidere, come accennato, sull'interesse ad impugnare, posto che l'accoglimento dell'impugnazione non darebbe luogo comunque ad alcun effetto favorevole ulteriore alla parte civile, rispetto alla situazione delineatasi con l'assoluzione, in relazione alla tutelabilità e azionabilità delle sue pretese civili.
4. Con il secondo motivo, deduce i vizi ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) per erronea applicazione della legge e contraddittorietà e illogicità della motivazione, circa l'applicabilità della fattispecie ex art. 659 c.p.. Si dissente dalla ricostruzione dei fatti operata dall'appellante circa il coinvolgimento, quali destinatarie dei disturbi sonori, di "tre diverse unità abitative", la diffusione del disturbo tra "la popolazione residente" identificata negli abitanti del "mezzo isolato insistente fra (omissis)", atteso che le "unità abitative" corrisponderebbero, piuttosto, ai vari locali abitati dai familiari conviventi della parte civile, e che la stessa Arpa avrebbe effettuato rilievi e analisi sull'unico appartamento della parte civile M.. Per cui la "popolazione residente" altro non sarebbe che il nucleo familiare del M.. Si aggiunge allora, che dalla sentenza dovrebbe ricavarsi il dato per cui la corte avrebbe correttamente ricostruito la suindicata situazione fattuale, costituita dalla presenza di sei persone collocate in stanze appartenenti alla medesima unità abitativa, attigua al locale indicato in imputazione, facendo tuttavia non corretta applicazione dei principi di diritto da essa stessa richiamati.
5. Con il terzo motivo, deduce il vizio ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione al riconoscimento del diritto al risarcimento in capo alla parte civile. La corte avrebbe dovuto, per riconoscere il diritto al risarcimento della parte civile, effettuare un rigoroso accertamento del nesso causale tra la condotta contestata (ovvero i due episodi ascritti) e il danno, oltre a verificare l'elemento psicologico in capo all'imputata, laddove invece non esisterebbero elementi per rinvenire il predetto rapporto causale tra la carica sociale ricoperta dalla ricorrente e il danno ritenuto rinvenibile in capo alla parte civile. Neppure emergerebbe il percorso logico sotteso alla decisione risarcitoria, oltre ad essere comunque inesatto, siccome fondato su elementi errati. La corte infatti, quantificando il danno rispetto alla durata delle emissioni in rapporto ad emissioni - contestate dal 2014 e ritenute permanenti e quindi operanti sino alla sentenza di primo grado - avrebbe trascurato come l'imputata sia stata amministratrice della società cui è riconducibile il locale assunto come fonte dei rumori per brevissimo tempo, così non potendosi imputare alla medesima i danni scaturiti prima e dopo la durata della sua carica.
6. Il primo motivo è manifestamente infondato. L'analisi della questione muove dalla considerazione della previsione di cui all'art. 576 c.p.p., dedicata alla "impugnazione della parte civile e del querelante" che, al comma 1, stabilisce che "la parte civile può proporre impugnazione contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l'azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio". Come già affermato da questa Corte (Sez. 2, n. 9623 del 02/02/2012, Nese, cit.), la norma appena ricordata segna un chiaro mutamento di sistema rispetto al codice di rito del 1930, attraverso la scelta del legislatore di ampliare il novero delle sentenze impugnabili, inclusive, per quanto qui interessa, oltre che della già considerata pronuncia di condanna, anche di quella di "proscioglimento" sia pure sempre nell'ambito di una pretesa volta unicamente alla rivisitazione dei soli effetti civili, per lo stretto collegamento con la limitata legittimazione della parte privata discendente dai confini tracciati anzitutto dall'art. 74 c.p.p. Come precisato dalla Sezioni unite di questa Suprema Corte (Sez. U, n. 28911 del 28/03/2019 Rv. 275953 - 01 MASSARIA) non viene limitato il novero e la tipologia delle sentenze "di proscioglimento" menzionate, la cui nozione deve essere ricavata dall'ambito della sezione I, dedicata appunto alla "sentenza di proscioglimento", del capo II (Decisione) del titolo III (Sentenza) del libro VII (Dibattimento) del codice di rito, con l'opportuna precisazione per cui la formula "sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio", riferibile sia alle sentenze di non doversi procedere sia alle sentenze di assoluzione, è unicamente intesa ad escludere le sentenze di non luogo a procedere pronunciate nell'udienza preliminare.
In linea con tali considerazioni il supremo consesso di questa Corte ha precisato che proprio in ragione del fatto che il giudice penale può decidere sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno solo quando pronuncia sentenza di condanna, deve ritenersi che la parte civile sia legittimata a proporre impugnazione contro la sentenza di proscioglimento o di assoluzione pronunziata nel giudizio.
La giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 28911 del 28/03/2019 cit.) ha anche evidenziato, con riguardo al profilo dell'interesse all'impugnazione, che se lo stesso sistema ha riconosciuto al danneggiato la possibilità di azionare la propria pretesa di carattere civilistico percorrendo, oltre alla via del giudizio civile, anche quella del giudizio penale mediante la costituzione in esso di parte civile, una interpretazione che venisse a ritenere insussistente l'interesse alla impugnazione nel processo penale sol perchè sarebbe pur sempre possibile la residua azione civile si tradurrebbe nella sostanziale ripulsa dello stesso congegno normativo e nella indebita "amputazione" di una facoltà riconosciuta dallo stesso legislatore.
In tal senso sempre le Sezioni Unite (Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240815) hanno rilevato che avendo il danneggiato, con la costituzione di parte civile, inteso trasferire in sede penale l'azione civile di danno, lo stesso ha "interesse ad ottenere nel giudizio penale il massimo di quanto può essergli riconosciuto" sì che non gli si può negare l'interesse ad impugnare la decisione di proscioglimento anche quando questa manchi, come è nel caso in esame, di efficacia preclusiva. E, condivisibilmente, si è anche sottolineato, che, in caso di assoluzione perchè il fatto non costituisce reato, le limitazioni all'efficacia del giudicato, previste dall'art. 652 c.p.p., non incidono sull'estensione del diritto all'impugnazione, riconosciuto in termini generali alla parte civile nel processo penale dall'art. 576 c.p.p., giacchè, tra l'altro, ove si ritenesse il contrario, la parte civile che intendesse impugnare la sentenza assolutoria sarebbe costretta a rinunciare agli esiti dell'accertamento compiuto nel processo penale e a riavviare ab initio l'accertamento in sede civile, con conseguente allungamento dei tempi processuali (Sez. 2, n. 41784 del 18/07/2018, Edilscavi, Rv. 275416, e Sez. 2, n. 36930 del 04/07/2018, Addonisio, Rv. 273519).
Lungo tale percorso argomentativo di recente si è ribadito -condivisibilmente e con operatività anche per il caso di specie seppur connotato dalla diversa formula assolutoria di primo grado del "perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato" -, che sussiste l'interesse processuale della parte civile a impugnare la decisione di assoluzione resa con la formula "perchè il fatto non costituisce reato", in quanto le limitazioni all'efficacia del giudicato, previste dall'art. 652 c.p.p., non incidono sull'estensione del diritto all'impugnazione, riconosciuto in termini generali alla parte civile dall'art. 576 c.p.p., dal momento che chi intraprende il giudizio civile dopo avere già ottenuto in sede penale il riconoscimento della responsabilità per fatto illecito della controparte si giova di tale accertamento e si trova in posizione migliore di chi deva cominciare il giudizio "ex novo" (Sez. 4 -, n. 10114 del 21/11/2019 (dep. 16/03/2020) Rv. 278643 - 01).
7.Anche il secondo motivo è manifestamente infondato. Non appare condivisibile l'affermazione preliminare della ricorrente per cui la corte avrebbe correttamente inquadrato la vicenda fattuale nei termini sostenuti dalla medesima, e difformi dalle prospettazioni, diverse, della parte civile appellante: al contrario questa corte rileva come sia intervenuta, da parte dei giudici di appello, seppure con motivazione sintetica, la condivisione della ricostruzione di una fattispecie conforme alle rappresentazioni di parte civile, con particolare riferimento al significativo dato della sussistenza di distinti condomini, come tali residenti in diverse unità abitative e quindi alla diffusività dei rumori lamentati. Cui ha fatto riscontro la corretta applicazione del principi significativi in materia, secondo i quali la rilevanza penale della condotta contestata, produttiva di rumori censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede l'incidenza sulla tranquillità pubblica, in quanto l'interesse tutelato dal legislatore è la pubblica quiete, sicchè i rumori devono avere una tale diffusività che l'evento di disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluna se ne possa lamentare (Sez. 1, Sentenza n. 47298 del 29/11/2011 Rv. 251406 - 01 Iori).
Rispetto a tale motivazione la ricorrente, elaborando censure che la trascurano del tutto le ragioni dedotte in sentenza, siccome tendono ad attribuire ai giudici di appello una ricostruzione dei fatti del tutto difforme da quella effettivamente elaborata, ma funzionale alle proprie deduzioni difensive, è incorsa, con il motivo in esame, in un difetto di specificità estrinseca, atteso che non si è correttamente confrontata con le ragioni addotte in sentenza. Da qui l'inammissibilità delle deduzioni proposte, in quanto i motivi di ricorso per cassazione sono inammissibili "non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato" (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568) e le ragioni di tale necessaria correlazione tra la decisione censurata e l'atto di impugnazione risiedono nel fatto che il ricorrente non può trascurare le ragioni del provvedimento censurato (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425).
8. Manifestamente infondato è infine il terzo motivo. La corte ha rappresentato, con motivazione congrua e logicamente adeguata, il percorso logico seguito, illustrando come l'importo liquidato in favore della costituita parte civile sia stato determinato in via equitativa, in ragione della durata delle emissioni, e del disturbo cagionato in termini di alterazione del ritmo sonno veglia, della vita familiare e delle ordinarie occupazioni seriali. Tanto risulta conforme alla regula iuris per la quale, in tema di liquidazione del danno morale, la relativa valutazione del giudice, in quanto affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, costituisce valutazione di fatto sottratta al sindacato di legittimità, se sorretta da congrua motivazione (Sez. 6, n. 48461 del 28/11/2013 Rv. 258170 - 01 Fontana; Sez. 3, n. 34209 del 17/06/2010, Ortolan, Rv. 248371).
Rispetto a tali argomentazioni, le deduzioni difensive appaiono inammissibili in quanto propongono valutazioni di fatto, peraltro involgenti in parte, nuovamente, profili di responsabilità.
9. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per la ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che la ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. Con condanna altresì alla rifusione delle spese del grado sostenute dalla parti civile che si liquidano in Euro tremilacinquecento oltre spese generali ed accessori di legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende nonchè alla rifusione delle spese del grado sostenute dalle parti civile che liquida in Euro tremilacinquecento oltre spese generali ed accessori di legge.