Dopo un anno, la Corte Costituzionale torna a pronunciarsi sul regime sanzionatorio previsto per il reato di diffamazione a mezzo stampa, dichiarando l'illegittimità dell'obbligo del carcere per i giornalisti.
I Tribunali di Salerno e Bari hanno sollevato dubbi sulla legittimità costituzionale della pena detentiva prevista per la diffamazione a mezzo stampa in relazione agli artt. 21 Cost. e 10 della CEDU.
Con sentenza n. 150 del 12 luglio 2021, la Corte dichiara
incostituzionale
l'
Sul tema, la Consulta ritiene invece compatibile con la Costituzione l'art. 595, comma 3, c.p., che prevede la pena detentiva per i casi più gravi di diffamazione, stabilendo la reclusione da sei mesi a tre anni oppure, in alternativa, il pagamento di una multa in caso di condanna per diffamazione commessa a mezzo stampa o di altra forma di pubblicità. L'aggravante scatta dunque in casi eccezionali, ossia quando il giornalista si rende responsabile di campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media per screditare l'avversario con affermazioni non veritiere, trasformandosi così «da “cane da guardia” della democrazia» in pericolo per la stessa.
Le questioni sollevate sono già state oggetto di attenzione della Corte Costituzionale nell'ordinanza n. 132/2020, in cui sollecitava il legislatore a riformare la disciplina vigente, allo scopo di bilanciare il diritto alla libertà di cronaca e di critica dei giornalisti con la tutela reputazionale individuale.
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza del 9 aprile 2019, iscritta al n. 140 del r.o. 2019, il Tribunale ordinario di Salerno, sezione seconda penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 21, 25, 27 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), questioni di legittimità costituzionale dell’art. 595, terzo comma, del codice penale e dell’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa), «per le ragioni di cui in motivazione».
1.1.– Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a decidere sulla responsabilità penale di P. N., imputato del delitto di diffamazione a mezzo stampa, e di A. S., imputato in quanto direttore responsabile per omesso controllo, per aver attribuito alle persone offese un fatto determinato (l’affiliazione a un sodalizio mafioso) non corrispondente al vero alla luce degli atti di indagine dell’autorità giudiziaria. Poiché, secondo il rimettente, la condotta diffamatoria risulta sussumibile tanto nella fattispecie generale di cui all’art. 595, terzo comma, cod. pen., quanto in quella di cui all’art. 13 della legge n. 47 del 1948, il giudizio di merito non potrebbe essere definito indipendentemente dalla soluzione delle prospettate questioni di legittimità costituzionale.
Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente ravvisa anzitutto il contrasto tra le disposizioni censurate e l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 CEDU.
Rilevato che la libertà di espressione è tutelata sia dall’art. 10 CEDU, sia dall’art. 21 Cost., sicché la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo formatasi sulla disposizione convenzionale andrebbe utilizzata come «strumento di ampliamento e adeguamento del diritto interno», il giudice a quo osserva che, secondo il consolidato orientamento della Corte EDU, risulterebbe contraria all’art. 10 CEDU, in quanto eccessiva e sproporzionata, la previsione anche solo in astratto della pena detentiva per i delitti di diffamazione a mezzo stampa, salvo che in circostanze eccezionali ove si determini una grave lesione di altri diritti fondamentali, come ad esempio in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza (sono citate le sentenze della Corte EDU 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia; 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia; 17 dicembre 2004, Cumpana e Mazare contro Romania).
Non sussisterebbero ostacoli al recepimento di tale consolidata giurisprudenza della Corte EDU, in assenza, nell’ordinamento interno, di valori o principi costituzionali suscettibili di prevalere sulla libertà di espressione, tutelata tanto dall’art. 10 CEDU, quanto dall’art. 21 Cost.
Né sarebbe possibile adottare un’interpretazione convenzionalmente orientata delle norme censurate, ritenendo soggette a pena detentiva «esclusivamente le condotte diffamatorie a mezzo stampa che rivestano i caratteri dell’eccezionalità». Tale interpretazione si porrebbe infatti in contrasto con i principi di tassatività e determinatezza della fattispecie penale, corollari del principio di legalità di cui all’art. 25 Cost., che impedirebbero al giudice di integrare la norma incriminatrice con il requisito dell’eccezionalità, «i cui precisi contorni e confini, peraltro, dovrebbero pur sempre essere determinati puntualmente dal legislatore, cui spetta in via esclusiva il potere di legiferare in materia penale».
Non potrebbe, infine, essere seguito l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che ha ritenuto la disciplina della diffamazione a mezzo stampa conforme all’art. 10 CEDU, sul rilievo dell’eccezionalità delle circostanze in cui i giudici di merito avevano irrogato la pena detentiva, poiché le valutazioni della Corte di cassazione sono state disattese dalla Corte EDU nelle citate pronunce Sallusti e Belpietro.
Le disposizioni censurate risulterebbero altresì contrarie agli artt. 3 e 21 Cost., in quanto la previsione di una pena detentiva per i reati di diffamazione a mezzo stampa sarebbe «manifestamente irragionevole e totalmente sproporzionata rispetto alla libertà di manifestazione di pensiero, anche nella forma del diritto di cronaca giornalistica, fondamentale diritto costituzionalmente garantito dall’art. 21 Cost., la cui tutela, in assenza di contrari interessi giuridici interni prevalenti, non può che essere favorevolmente estesa nelle forme stabilite dalla giurisprudenza della Corte Edu, eliminando così, salvi i “casi eccezionali”, anche la mera comminazione di qualunque pena detentiva».
Secondo il rimettente, poi, la comminatoria di una pena detentiva per le condotte di diffamazione a mezzo stampa si porrebbe in contrasto con il principio di offensività, ricavabile dall’art. 25 Cost., «in quanto totalmente sproporzionata, irragionevole e non necessaria rispetto al bene giuridico tutelato dalle norme incriminatrici in questione, ovvero il rispetto della reputazione personale».
Le norme censurate vanificherebbero, infine, la funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., attesa la «inidoneità della minacciata sanzione detentiva a garantire il pieno rispetto della funzione generalpreventiva e specialpreventiva della pena stessa». Ciò in quanto detta sanzione, essendo sproporzionata al metro della giurisprudenza della Corte EDU, risulterebbe in concreto inapplicabile e, quindi, inidonea a orientare la condotta sia della generalità dei consociati, sia del singolo giornalista.
1.2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Salerno siano dichiarate inammissibili o infondate.
L’ordinanza di rimessione sarebbe anzitutto insufficientemente motivata in punto di rilevanza delle questioni. Il giudice a quo avrebbe omesso di precisare se le affermazioni diffamatorie oggetto di imputazione fossero frutto di una distorta valutazione di fatti reali o costituissero una notizia pacificamente falsa; profilo questo rilevante per la valutazione della conformità delle norme censurate agli artt. 117, primo comma, Cost. e 10 CEDU, in quanto, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, l’inflizione della pena detentiva per il delitto di diffamazione a mezzo stampa non contrasterebbe con l’art. 10 CEDU in caso di propalazione di una notizia pacificamente falsa.
Il Presidente del Consiglio dei ministri eccepisce poi l’oscurità del petitum dell’ordinanza di rimessione, che non consentirebbe di comprendere se il rimettente aspiri a ottenere una pronuncia ablativa delle disposizioni censurate, una pronuncia manipolativa in punto di pena ovvero una pronuncia additiva in ordine alla delimitazione delle condotte incriminate.
L’Avvocatura generale dello Stato evidenzia inoltre che l’accoglimento del petitum – comunque inteso – non eliminerebbe in toto i censurati profili di illegittimità costituzionale del trattamento sanzionatorio previsto per il reato di diffamazione, in quanto l’art. 595 cod. pen. prevede comunque, anche in relazione a ipotesi diverse dalla diffamazione a mezzo stampa, la possibilità di irrogare la pena detentiva in via alternativa rispetto alla pena pecuniaria.
L’interveniente eccepisce infine l’omessa adozione, da parte del giudice a quo, di un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata delle norme censurate, in presenza di un diritto vivente indirizzato nel senso della legittimità della pena detentiva nelle ipotesi di diffamazione a mezzo stampa caratterizzate dagli elementi di eccezionalità delineati dalla giurisprudenza della Corte EDU, in particolare nelle sentenze 16 aprile 2009, Egeland e Hanseid contro Norvegia e 22 aprile 2010, Fatullayev contro Azerbaijan.
1.3.– Si è costituita in giudizio P. N., parte nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Salerno.
La parte richiama le pronunce della Corte EDU già citate dal rimettente (Belpietro contro Italia e Sallusti contro Italia), nonché la sentenza Ricci contro Italia dell’8 ottobre 2013, per dedurne che la previsione della pena detentiva in relazione alle condotte di diffamazione a mezzo stampa sarebbe compatibile con l’art. 10 CEDU solo in presenza di circostanze eccezionali, riconducibili a gravi lesioni di diritti fondamentali (quali la diffusione di discorsi d’odio o l’istigazione alla violenza), che non risulterebbero integrate dalla diffamazione realizzata mediante attribuzione di un fatto determinato.
Alla luce di tale giurisprudenza, l’art. 595, terzo comma, cod. pen. potrebbe essere interpretato in maniera conforme all’art. 10 CEDU, nel senso che la pena detentiva, ivi prevista in via alternativa alla pena pecuniaria, sia irrogabile solo in presenza di una condotta di diffamazione a mezzo stampa connotata dal ricorrere di circostanze eccezionali.
Siffatta interpretazione non potrebbe invece essere prospettata in relazione all’art. 13 della legge n. 47 del 1948, poiché detta disposizione commina la pena detentiva in via congiunta (e non alternativa) alla pena pecuniaria per tutte le ipotesi di diffamazione a mezzo stampa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, a prescindere dalla gravità della singola condotta.
Né potrebbe opinarsi diversamente, in base al rilievo che l’art. 13 della legge n. 47 del 1948 configura non un’autonoma ipotesi di reato, ma una circostanza aggravante del delitto di diffamazione, come tale bilanciabile ex art. 69 cod. pen. con eventuali circostanze attenuanti, con conseguente possibilità che il giudice pervenga a escludere l’applicazione della pena detentiva. Da un lato, infatti, qualora la circostanza aggravante di cui all’art. 13 della legge n. 47 del 1948 operi da sola ovvero in concorso con altre circostanze aggravanti, il giudice dovrebbe comunque applicare la pena detentiva congiuntamente alla pena pecuniaria; dall’altro lato, in caso di concorso tra circostanze eterogenee, sarebbe rimesso alla discrezionalità del giudice l’eventuale giudizio di prevalenza o equivalenza delle circostanze attenuanti rispetto all’aggravante in parola.
1.4.– Con atto depositato l’8 ottobre 2019, il Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti (CNOG) è intervenuto in giudizio ad adiuvandum, ai sensi dell’art. 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, chiedendo alla Corte di dichiarare ammissibile l’intervento e di accogliere le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal rimettente.
L’interveniente illustra diffusamente la giurisprudenza della Corte EDU relativa ai requisiti di compatibilità con l’art. 10 CEDU della punizione delle condotte di diffamazione a mezzo stampa e della previsione della pena detentiva, deducendone la contrarietà della disciplina censurata dal rimettente alla garanzia convenzionale della libertà di espressione.
Il CNOG evidenzia poi che un filone della giurisprudenza di legittimità (sono richiamate Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze 13 marzo 2014, n. 12203 e 19 settembre 2019, n. 38721), in adesione ai principi espressi dalla Corte EDU, riterrebbe che, in relazione alle condotte di diffamazione a mezzo stampa, l’irrogazione della pena detentiva sia giustificata solo in presenza di gravi lesioni dei diritti fondamentali, quali quelle derivanti dalla propalazione di discorsi di odio o di istigazione alla violenza.
1.5.– Con ordinanza n. 37 del 2020, questa Corte ha dichiarato ammissibile l’intervento in giudizio del CNOG, sul rilievo che, ai sensi che l’art. 4, comma 7, delle Norme integrative e secondo la costante giurisprudenza della Corte, nei giudizi in via incidentale possono intervenire i titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio; interesse da ritenersi in specie sussistente, in relazione alla competenza disciplinare attribuita al CNOG dall’art. 20, primo comma, lettera d), dalla legge 3 febbraio 1963, n. 69 (Ordinamento della professione di giornalista).
1.6.– Con atto depositato telematicamente il 3 marzo 2020, oltre il termine di cui all’art. 4-ter, comma 1, delle Norme integrative, la Federazione nazionale della stampa italiana (FNSI) ha presentato un’opinione scritta in qualità di amicus curiae.
1.7.– Il 31 marzo 2020 il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria illustrativa, insistendo per la declaratoria di inammissibilità o di manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Salerno. Riproposte le argomentazioni già sviluppate nell’atto di intervento, l’interveniente soggiunge che le fattispecie di cui agli artt. 595, terzo comma, cod. pen. e 13 della legge n. 47 del 1948 configurano aggravanti speciali del reato di diffamazione, come tali bilanciabili con eventuali circostanze attenuanti, sicché il giudice potrebbe scegliere se applicare la pena detentiva o quella pecuniaria in funzione della maggiore o minore gravità della condotta di diffamazione a mezzo stampa, con conseguente piena conformità della normativa censurata alla giurisprudenza della Corte EDU in tema di libertà di espressione.
Con specifico riferimento al caso oggetto del giudizio a quo, inoltre, l’attribuzione alla persona offesa di una condotta illecita, poi rivelatasi inveritiera, determinerebbe una lesione della presunzione di non colpevolezza, tutelata dagli artt. 27, secondo comma, Cost. e 6, paragrafo 2, CEDU, così concretando una delle circostanze eccezionali che, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, giustificano l’applicazione della pena detentiva al giornalista colpevole di diffamazione.
1.8.– Rispettivamente in data 19 maggio, 29 maggio e 31 maggio 2020, in tutti i casi oltre il termine di cui all’art. 4-ter, comma 1, delle Norme integrative sono pervenute alla cancelleria della Corte, via posta elettronica certificata (PEC), altrettante opinioni scritte del Sindacato cronisti romani presso l’Associazione stampa romana, in qualità di amicus curiae.
1.9.– Il 26 maggio 2020 la parte P. N. ha depositato, fuori termine, memoria integrativa.
2.– Con ordinanza del 16 aprile 2019, iscritta al n. 149 del r.o. 2019, il Tribunale ordinario di Bari, sezione prima penale, ha sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 CEDU, questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948, «in combinato disposto» con l’art. 595 cod. pen., «nella parte in cui sanziona il delitto di diffamazione aggravata, commessa a mezzo stampa e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, con la pena cumulativa della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a 256 [recte: 258] euro, invece che in via alternativa».
2.1.– Il rimettente espone di dover giudicare della responsabilità di G. D.T., imputato del delitto di cui agli artt. 595 cod. pen. e 13 della legge n. 47 del 1948, per avere, in qualità di direttore di un quotidiano, offeso la reputazione di F. C. mediante la pubblicazione di un articolo privo di firma, nel quale si attribuiva alla persona offesa la cessione di stupefacente a una terza persona, malgrado l’avvenuto proscioglimento di F. C. in relazione a tale fatto.
In punto di rilevanza, il giudice a quo espone che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 595 cod. pen. e 13 della legge n. 47 del 1948, il delitto di cui G. D.T. è imputato (diffamazione realizzata con la pubblicazione dell’articolo in questione e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato) risulta punibile con la pena della reclusione da uno a sei anni, prevista in via cumulativa e non alternativa rispetto alla multa di 258 euro.
Non sussisterebbero poi ragioni per prosciogliere l’imputato il quale, pur tratto in giudizio nella qualità di direttore responsabile del quotidiano, sarebbe chiamato a rispondere direttamente della condotta diffamatoria realizzata mediante la pubblicazione dell’articolo privo di firma. Del resto, la questione rimarrebbe rilevante anche ove, all’esito del dibattimento, si dovesse ritenere sussistente la responsabilità di G. D.T. sotto il solo profilo dell’omesso controllo sulla pubblicazione di contenuti diffamatori, ai sensi dell’art. 57 cod. pen., atteso che, anche in tale ipotesi, sarebbe comunque applicabile la pena detentiva, pur ridotta di un terzo nel quantum.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente richiama ampi stralci delle sentenze della Corte EDU Belpietro contro Italia, Sallusti contro Italia e Ricci contro Italia, relative alla compatibilità con l’art. 10 CEDU del trattamento sanzionatorio previsto nell’ordinamento italiano, in particolare per la diffamazione a mezzo stampa.
Da tale consolidata giurisprudenza si trarrebbe che la previsione per tale delitto di una pena detentiva, pur suscettibile di sospensione condizionale o di commutazione in pena pecuniaria, risulterebbe incompatibile con l’art. 10 CEDU, poiché idonea a scoraggiare l’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero e della libertà d’informazione, in tutti i casi in cui non ricorrano circostanze eccezionali, quali la propalazione di discorsi di odio o di istigazione alla violenza.
Né sarebbe praticabile un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata, che considerasse irrogabile la pena detentiva in relazione alle sole condotte diffamatorie concretantisi in incitazione all’odio, alla discriminazione o alla violenza: una simile opzione ermeneutica, «creativa e arbitraria, slegata dal dato letterale, ed esorbitante rispetto alla funzione giurisdizionale» risulterebbe infatti contraria al principio di legalità e lesiva degli artt. 25 e 101 Cost.
Nemmeno sarebbe possibile applicare, in luogo delle sanzioni previste dall’art. 13 della legge n. 47 del 1948, quelle contemplate dall’art. 595, secondo e terzo comma, cod. pen., che prevedono la pena detentiva in via alternativa e non congiunta rispetto alla pena pecuniaria, essendo la fattispecie della diffamazione commessa a mezzo stampa e contestualmente consistente nell’attribuzione di un fatto determinato inequivocabilmente disciplinata dalla prima disposizione.
Né, ancora, sarebbe dirimente che la circostanza aggravante di cui al predetto art. 13 sia bilanciabile con altre circostanze attenuanti, perché ciò non escluderebbe l’effetto dissuasivo, rispetto all’attività giornalistica, della previsione, in astratto, di una pena detentiva congiunta a quella pecuniaria.
Il rimettente precisa infine che la questione di legittimità costituzionale sollevata mira a una pronuncia che renda la pena detentiva applicabile in via alternativa e non più cumulativa rispetto alla pena pecuniaria. Una simile pronuncia «consentirebbe al giudice di verificare in concreto la sussistenza delle circostanze eccezionali in cui la gravità della condotta e dell’offesa che ne deriva giustifica l’irrogazione di una pena detentiva, lasciando così un adeguato spazio discrezionale utile per conformare la decisione giurisdizionale nazionale ai principi dell’ordinamento CEDU in materia». Si tratterebbe, a parere del giudice a quo, di una soluzione non costituzionalmente obbligata, ma adottabile da parte di questa Corte, sulla falsariga di quanto già avvenuto nella sentenza n. 40 del 2019, in presenza di un preciso punto di riferimento, offerto dall’art. 595 cod. pen., che prevede l’applicazione della pena detentiva in alternativa alla pena pecuniaria nei casi di cui ai commi secondo e terzo.
2.2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata, sulla base delle argomentazioni già svolte nell’atto di intervento depositato nel giudizio iscritto al n. 140 del r.o. 2019.
2.3.– Il 22 ottobre 2019 il CNOG ha depositato atto di intervento ad adiuvandum, di tenore analogo a quello dell’atto presentato nel giudizio iscritto al n. 140 del r.o. 2019.
2.4.– Il 31 marzo 2020 il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria illustrativa, insistendo per l’accoglimento delle conclusioni già rassegnate nell’atto di intervento e richiamando integralmente le argomentazioni svolte nella memoria illustrativa depositata nel giudizio iscritto al n. 140 del r.o. 2019.
2.5.– Il 19, 29 e 31 maggio 2020, e dunque oltre il termine di cui all’art. 4-ter, comma 1, delle Norme integrative, il Sindacato cronisti romani presso l’Associazione stampa romana ha depositato via PEC le stesse opinioni scritte in qualità di amicus curiae depositate nel giudizio iscritto al n. 140 del r.o. 2019.
2.6.– Con ordinanza dibattimentale letta all’udienza del 9 giugno 2020, questa Corte ha dichiarato ammissibile l’intervento ad adiuvandum spiegato dal CNOG nel giudizio iscritto al n. 149 del r.o. 2019.
3.– Con ordinanza n. 132 del 2020, questa Corte, riuniti i giudizi, ritenendo «necessaria e urgente», alla luce della giurisprudenza della Corte EDU e della stessa giurisprudenza costituzionale in tema di libertà di espressione, «una complessiva rimeditazione del bilanciamento, attualmente cristallizzato nella normativa oggetto delle odierne censure, tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale, in particolare con riferimento all’attività giornalistica», ha giudicato opportuno, «in uno spirito di leale collaborazione istituzionale e nel rispetto dei limiti delle proprie attribuzioni, rinviare la decisione delle questioni […] sottopostele a una successiva udienza, in modo da consentire al legislatore di approvare nel frattempo una nuova disciplina».
4.– All’udienza del 22 giugno 2021, le parti hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni già rassegnate in atti.
Motivi della decisione
1.– Con l’ordinanza iscritta al n. 140 del r.o. 2019 il Tribunale ordinario di Salerno, sezione seconda penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 21, 25, 27 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), questioni di legittimità costituzionale dell’art. 595, terzo comma, del codice penale e dell’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa).
Con l’ordinanza iscritta al n. 149 del r.o. 2019 il Tribunale ordinario di Bari, sezione prima penale, ha sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 CEDU, questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948, «in combinato disposto» con l’art. 595 cod. pen., «nella parte in cui sanziona il delitto di diffamazione aggravata, commessa a mezzo stampa e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, con la pena cumulativa della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a 256 [recte: 258] euro, invece che in via alternativa». Dal tenore dell’ordinanza di rimessione risulta peraltro che l’art. 595 cod. pen. è menzionato al mero fine di individuare la fattispecie incriminatrice su cui si innesta la speciale circostanza aggravante prevista all’art. 13 della legge n. 47 del 1948, sulla quale soltanto si appuntano le censure del giudice a quo.
I due giudizi, che sollevano questioni analoghe, sono già stati riuniti ai fini della decisione con l’ordinanza n. 132 del 2020 di questa Corte, di cui si è detto nel Ritenuto in fatto.
Esse pongono, in estrema sintesi, il quesito se sia compatibile con la Costituzione, anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la previsione di pene detentive per il delitto di diffamazione commesso a mezzo della stampa. E ciò con riguardo all’art. 13 della legge n. 47 del 1948, che commina la reclusione in via cumulativa rispetto alla pena pecuniaria, allorché la diffamazione a mezzo stampa consista nell’attribuzione di un fatto determinato; nonché – per ciò che concerne la questione posta dal Tribunale di Salerno – con riguardo anche all’art. 595, terzo comma, cod. pen., che prevede la reclusione in via meramente alternativa rispetto alla pena pecuniaria per il caso di diffamazione col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico.
2.– Con l’ordinanza n. 132 del 2020, questa Corte ha già formulato una serie di valutazioni in ordine al thema decidendum, le quali debbono in questa sede essere integralmente confermate, e alle quali si salda, in consecuzione logica, l’odierna decisione (per il medesimo rilievo, sentenza n. 242 del 2019 rispetto all’ordinanza n. 207 del 2018).
3.– Le questioni sono ammissibili.
3.1.– Rispetto alle questioni sollevate dal Tribunale di Salerno, occorre osservare quanto segue.
3.1.1.– Non è anzitutto fondata l’eccezione di insufficiente motivazione sulla loro rilevanza, formulata dall’Avvocatura generale dello Stato.
Per quanto stringata, la descrizione dei fatti contestati agli imputati (nelle rispettive qualità di autore dell’articolo e di direttore responsabile del quotidiano) compiuta nell’ordinanza di rimessione è sufficiente a comprendere che essi consistono nella diffusione di una notizia lesiva dell’altrui reputazione, consistente in uno specifico addebito successivamente smentito dalle indagini penali compiute dalla competente Direzione distrettuale antimafia. I fatti così descritti certamente corrispondono alla figura legale del delitto di diffamazione, aggravato ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948 in quanto compiuto a mezzo della stampa e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato.
La rilevanza delle questioni prospettate sussiste, tuttavia, anche rispetto all’aggravante di cui all’art. 595, terzo comma, cod. pen., che punisce, tra l’altro, la diffamazione compiuta a mezzo della stampa. Per quanto tale aggravante sia destinata, nell’attuale quadro normativo, ad essere assorbita in quella di cui all’art. 13 della legge n. 47 del 1948, che si pone rispetto ad essa quale lex specialis, l’auspicato accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale formulate dal rimettente rispetto a quest’ultima disposizione renderebbe nuovamente applicabile, nel caso di specie, l’aggravante generale di cui all’art. 595, terzo comma, cod. pen., in concorso con quella prevista dal secondo comma, che prevede un inasprimento di pena in ogni ipotesi in cui la diffamazione consista nell’attribuzione di un fatto determinato; con conseguente applicazione, ai fini della commisurazione della pena, dell’art. 63, quarto comma, cod. pen. Donde la rilevanza – in via condizionata all’accoglimento delle questioni sollevate sull’art. 13 della legge n. 47 del 1948 – anche delle questioni sollevate in relazione all’art. 595, terzo comma, cod. pen.
3.1.2.– Né merita accoglimento l’eccezione, parimenti formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, relativa all’oscurità del petitum formulato dalla medesima ordinanza del Tribunale di Salerno.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «l’ordinanza di rimessione delle questioni di legittimità costituzionale non necessariamente deve concludersi con un dispositivo recante altresì un petitum, essendo sufficiente che dal tenore complessivo della motivazione emerga[no] con chiarezza il contenuto ed il verso delle censure» (sentenza n. 123 del 2021 e, in precedenza, sentenze n. 176 del 2019 e n. 175 del 2018). Nel caso ora all’esame, il dispositivo dell’ordinanza di rimessione rinvia espressamente alle «ragioni di cui in motivazione»; e dalla motivazione si evince come il rimettente non solleciti in alcun luogo – come invece ipotizzato dall’Avvocatura generale dello Stato – una «pronuncia manipolativa sulle pene previste», né una «pronuncia additiva in ordine alla delimitazione delle condotte che esse sanzionano»; bensì denunci l’incompatibilità tout court con i parametri costituzionali e convenzionali evocati di entrambe le disposizioni censurate, che comminano una pena detentiva per il delitto di diffamazione anche al di fuori dei casi eccezionali in cui tale pena potrebbe essere giustificata.
Il petitum dell’ordinanza è, pertanto, interpretabile come diretto alla radicale ablazione di entrambe le disposizioni sottoposte all’esame di questa Corte.
3.1.3.– Priva di pregio è anche l’ulteriore eccezione, svolta dall’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui l’eventuale accoglimento delle questioni formulate dal Tribunale di Salerno a proposito dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948 non eliminerebbe i profili di denunciata illegittimità costituzionale, dal momento che la pena detentiva resterebbe comunque prevista dall’art. 595 cod. pen.
Come appena sottolineato, infatti, il rimettente – del tutto coerentemente – estende le questioni anche all’art. 595, terzo comma, cod. pen., che diverrebbe applicabile laddove fosse dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948, censurato in prima battuta.
3.1.4.– L’Avvocatura generale dello Stato ha infine eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate dal medesimo Tribunale in ragione dell’omessa sperimentazione, da parte del rimettente, di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate.
Nemmeno tale eccezione è fondata.
In effetti, il giudice a quo espressamente esclude di potere interpretare le disposizioni censurate nel senso dell’applicazione della pena detentiva «esclusivamente alle condotte diffamatorie a mezzo stampa che rivestano i caratteri dell’eccezionalità», poiché tale interpretazione contrasterebbe, a suo avviso, con i principi di tassatività e determinatezza della fattispecie penale, nonché di soggezione del giudice alla legge, i quali impedirebbero al giudice di «integrare la norma incriminatrice di questo ulteriore requisito». Quanto poi, in particolare, all’art. 595, terzo comma, cod. pen., che prevede la reclusione soltanto in via alternativa, il rimettente sottolinea come a suo giudizio già la stessa previsione astratta della pena detentiva – e dunque la sua comminazione legislativa – limiti eccessivamente il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, a prescindere dunque dalla decisione del giudice di applicarla o meno nel caso concreto.
Se e in che misura queste valutazioni siano condivisibili, attiene al merito, e non all’ammissibilità delle questioni: a quest’ultimo fine è infatti sufficiente – in base alla ormai costante giurisprudenza di questa Corte – che il giudice abbia esplorato, e consapevolmente scartato, la possibilità di una interpretazione conforme alla Costituzione (ex multis, sentenze n. 32 del 2021, n. 32 del 2020, n. 189 del 2019).
3.2.– Per quanto riguarda invece l’ordinanza del Tribunale di Bari, occorre rilevare quanto segue.
3.2.1.– Non è fondata, nemmeno in questo caso, l’eccezione sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato relativa al difetto di motivazione sulla rilevanza della questione.
Il giudice a quo chiarisce infatti che, impregiudicata ogni valutazione circa la sussistenza della responsabilità dell’imputato, il fatto di cui quest’ultimo è accusato consiste nell’avere consentito, nella propria qualità di direttore di un quotidiano, la pubblicazione di un articolo in cui si attribuiva alla persona offesa un fatto determinato (la cessione di droga a un atleta), nonostante l’intervenuta assoluzione della stessa persona offesa da ogni addebito con sentenza passata in giudicato. Tanto basta per considerare applicabile nel giudizio principale l’art. 13 della legge n. 47 del 1948, che costituisce in questo caso l’unico oggetto delle censure del rimettente.
3.2.2.– Nemmeno può predicarsi, contrariamente all’avviso espresso dall’Avvocatura generale dello Stato, che il petitum formulato dal rimettente sia oscuro. In questo secondo giudizio, anzi, il petitum è espressamente formulato nel dispositivo, e mira univocamente alla modificazione dell’attuale quadro sanzionatorio dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948, imperniato sulla previsione cumulativa di una pena detentiva e di una pena pecuniaria, in modo tale da rendere alternative le due pene.
3.2.3.– Ictu oculi infondata è anche l’eccezione secondo cui l’accoglimento del petitum non eliminerebbe il vizio di illegittimità costituzionale lamentato. Il rimettente, infatti, ritiene che il vizio risieda nell’indefettibilità dell’applicazione della sanzione detentiva, che verrebbe per l’appunto eliminata ove il quadro sanzionatorio fosse modificato nel senso dell’alternatività tra le due pene: ciò che consentirebbe al giudice di evitare di dover irrogare la reclusione, al di fuori dei casi eccezionali in cui tale sanzione sarebbe consentita anche secondo il diritto convenzionale.
3.2.4.– Infine, nemmeno in questo caso è possibile rimproverare al giudice a quo l’omessa sperimentazione di una interpretazione conforme. Il rimettente, infatti, esclude espressamente, con motivazione particolarmente estesa, di poter interpretare la disposizione censurata in modo tale da evitare l’applicazione della pena detentiva nelle ipotesi in cui tale pena risulterebbe in contrasto con la giurisprudenza della Corte EDU. Ciò è sufficiente, come poc’anzi osservato, ai fini della rilevanza della questione proposta.
4.– Le questioni sollevate dal Tribunale di Salerno sull’art. 13 della legge n. 47 del 1948, in riferimento agli artt. 21 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 CEDU, sono fondate.
4.1.– Come già rilevato, la disposizione censurata prevede una circostanza aggravante per il delitto di diffamazione, integrata nel caso in cui la condotta sia commessa col mezzo della stampa e consista nell’attribuzione di un fatto determinato. Essa costituisce lex specialis rispetto alle due aggravanti previste dall’art. 595 cod. pen., secondo e terzo comma, che prevedono cornici sanzionatorie autonome e più gravi rispetto a quelle stabilite dal primo comma, rispettivamente nel caso in cui l’offesa all’altrui reputazione consista nell’attribuzione di un fatto determinato e in quello in cui l’offesa sia recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico.
La pena prevista dall’art. 13 della legge n. 47 del 1948 è quella della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a euro 258. Le due pene – detentiva e pecuniaria – sono dunque previste in via cumulativa, il giudice essendo tenuto ad applicarle indefettibilmente entrambe; e ciò a meno che non sussistano, nel caso concreto, circostanze attenuanti giudicate prevalenti o, almeno, equivalenti all’aggravante in esame.
4.2.– Proprio l’indefettibilità dell’applicazione della pena detentiva, in tutte le ipotesi nelle quali non sussistano – o non possano essere considerate almeno equivalenti – circostanze attenuanti, rende la disposizione censurata incompatibile con il diritto a manifestare il proprio pensiero, riconosciuto tanto dall’art. 21 Cost., quanto dall’art. 10 CEDU.
Come già rilevato da questa Corte nella ordinanza n. 132 del 2020, una simile necessaria irrogazione della sanzione detentiva (indipendentemente poi dalla possibilità di una sua sospensione condizionale, o di una sua sostituzione con misure alternative alla detenzione rispetto al singolo condannato) è divenuta ormai incompatibile con l’esigenza di «non dissuadere, per effetto del timore della sanzione privativa della libertà personale, la generalità dei giornalisti dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri»: esigenza sulla quale ha particolarmente insistito la Corte EDU nella propria copiosa giurisprudenza rammentata nella stessa ordinanza, ma che anche questa Corte condivide.
Per quanto, come si dirà meglio infra (punto 5.3.), la sanzione detentiva non possa ritenersi sempre costituzionalmente illegittima nei casi più gravi di diffamazione, la sua necessaria inflizione, prevista dalla disposizione censurata in tutte le ipotesi da essa previste – che abbracciano, in pratica, la quasi totalità delle diffamazioni commesse a mezzo della stampa, periodica e non –, conduce necessariamente a esiti incompatibili con le esigenze di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, e in particolare con quella sua specifica declinazione costituita dalla libertà di stampa, già definita «pietra angolare dell’ordine democratico» da una risalente pronuncia di questa Corte (sentenza n. 84 del 1969).
E ciò anche in considerazione del diritto vivente, che – come parimenti rammentato nell’ordinanza n. 132 del 2020 – condiziona l’operatività della causa di giustificazione del diritto di cronaca nella sua forma putativa (art. 59, quarto comma, cod. pen.) al requisito dell’assenza di colpa nel controllo delle fonti: ammettendo conseguentemente la responsabilità del giornalista per il delitto di diffamazione anche nell’ipotesi in cui egli abbia confidato, seppur per un errore evitabile, nella verità del fatto attribuito alla persona offesa.
4.3.– Dal momento che la funzione della disposizione censurata è unicamente quella di inasprire il trattamento sanzionatorio previsto in via generale dall’art. 595 cod. pen. in termini che non sono compatibili con l’art. 21 Cost., oltre che con l’art. 10 CEDU, essa deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima nella sua interezza, nei termini auspicati dal ricorrente. Tale dichiarazione non crea, del resto, alcun vuoto di tutela al diritto alla reputazione individuale contro le offese arrecate a mezzo della stampa, diritto che continua a essere protetto dal combinato disposto del secondo e del terzo comma dello stesso art. 595 cod. pen., il cui alveo applicativo si riespanderà in seguito alla presente pronuncia.
4.4.– Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura evocati dal rimettente a proposito della medesima disposizione.
5.– La dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948, in accoglimento delle censure formulate dal Tribunale di Salerno, rende superfluo l’esame della questione formulata dal Tribunale di Bari sulla medesima disposizione, mirante a sostituire il regime di cumulatività di reclusione e multa previsto dalla disposizione medesima con un regime di alternatività tra le due sanzioni.
6.– Le questioni sollevate dallo stesso Tribunale di Salerno sull’art. 595, terzo comma, cod. pen. in riferimento agli artt. 3, 21 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 CEDU, devono invece essere dichiarate non fondate nei termini di seguito precisati.
6.1.– L’art. 595, terzo comma, cod. pen. configura – come già rammentato – una circostanza aggravante del delitto di diffamazione, integrata allorché l’offesa sia recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico. La pena prevista è quella della reclusione da sei mesi a tre anni ovvero della multa non inferiore a 516 euro.
6.2.– La previsione in via, questa volta, soltanto alternativa della pena detentiva da parte della norma censurata non può ritenersi di per sé in contrasto con la libertà di manifestazione del pensiero, tutelata dagli artt. 21 Cost. e 10 CEDU.
Come rammentato nell’ordinanza n. 132 del 2020, se è vero che la libertà di espressione – in particolare sub specie di diritto di cronaca e di critica esercitato dai giornalisti – costituisce pietra angolare di ogni ordinamento democratico, non è men vero che la reputazione individuale è del pari un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona.
Aggressioni illegittime a tale diritto compiute attraverso la stampa, o attraverso gli altri mezzi di pubblicità cui si riferisce l’art. 595, terzo comma, cod. pen. – la radio, la televisione, le testate giornalistiche online e gli altri siti internet, i social media, e così via –, possono incidere grandemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica delle vittime. E tali danni sono suscettibili, oggi, di essere enormemente amplificati proprio dai moderni mezzi di comunicazione, che rendono agevolmente reperibili per chiunque, anche a distanza di molti anni, tutti gli addebiti diffamatori associati al nome della vittima. Questi pregiudizi debbono essere prevenuti dall’ordinamento con strumenti idonei, necessari e proporzionati, nel quadro di un indispensabile bilanciamento con le contrapposte esigenze di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, e del diritto di cronaca e di critica in particolare.
Tra questi strumenti non può in assoluto escludersi la sanzione detentiva, sempre che la sua applicazione sia circondata da cautele idonee a schermare il rischio di indebita intimidazione esercitato su chi svolga la professione giornalistica.
Si deve infatti ritenere che l’inflizione di una pena detentiva in caso di diffamazione compiuta a mezzo della stampa o di altro mezzo di pubblicità non sia di per sé incompatibile con le ragioni di tutela della libertà di manifestazione del pensiero nei casi in cui la diffamazione si caratterizzi per la sua eccezionale gravità (così la stessa Corte EDU, grande camera, sentenza 17 dicembre 2004, Cumpana e Mazare contro Romania, paragrafo 115; nonché sentenze 5 novembre 2020, Balaskas contro Grecia, paragrafo 61; 11 febbraio 2020, Atamanchuk contro Russia, paragrafo 67; 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia, paragrafo 59; 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia, paragrafo 53; 6 dicembre 2007, Katrami contro Grecia, paragrafo 39). La Corte di Strasburgo ritiene integrate simili ipotesi eccezionali in particolare con riferimento ai discorsi d’odio e all’istigazione alla violenza, che possono nel caso concreto connotare anche contenuti di carattere diffamatorio; ma casi egualmente eccezionali, tali da giustificare l’inflizione di sanzioni detentive, potrebbero ad esempio essere anche rappresentati da campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi.
Chi ponga in essere simili condotte – eserciti o meno la professione giornalistica – certo non svolge la funzione di “cane da guardia” della democrazia, che si attua paradigmaticamente tramite la ricerca e la pubblicazione di verità “scomode”; ma, all’opposto, crea un pericolo per la democrazia, combattendo l’avversario mediante la menzogna, utilizzata come strumento per screditare la sua persona agli occhi della pubblica opinione. Con prevedibili conseguenze distorsive anche rispetto agli esiti delle stesse libere competizioni elettorali.
Se circoscritta a casi come quelli appena ipotizzati, la previsione astratta e la concreta applicazione di sanzioni detentive non possono, ragionevolmente, produrre effetti di indebita intimidazione nei confronti dell’esercizio della professione giornalistica, e della sua essenziale funzione per la società democratica. Al di fuori di quei casi eccezionali, del resto assai lontani dall’ethos della professione giornalistica, la prospettiva del carcere resterà esclusa per il giornalista, così come per chiunque altro che abbia manifestato attraverso la stampa o altri mezzi di pubblicità la propria opinione; restando aperta soltanto la possibilità che siano applicate pene diverse dalla reclusione, nonché rimedi e sanzioni civili o disciplinari, in tutte le ordinarie ipotesi in cui la condotta lesiva della reputazione altrui abbia ecceduto dai limiti del legittimo esercizio del diritto di cronaca o di critica.
6.3.– La disposizione ora all’esame – l’art. 595, terzo comma, cod. pen. – deve essere interpretata in maniera conforme a tali premesse.
Il potere discrezionale che essa attribuisce al giudice nella scelta tra reclusione (da sei mesi a tre anni) e multa (non inferiore a 516 euro) deve certo essere esercitato tenendo conto dei criteri di commisurazione della pena indicati nell’art. 133 cod. pen., ma anche – e ancor prima – delle indicazioni derivanti dalla Costituzione e dalla CEDU secondo le coordinate interpretative fornite da questa Corte e dalla Corte EDU; e ciò anche al fine di evitare la pronuncia di condanne penali, che potrebbero successivamente dar luogo a una responsabilità internazionale dello Stato italiano per violazioni della Convenzione (per la sottolineatura del dovere «di evitare violazioni della CEDU» in capo agli stessi giudici comuni, nel quadro dei loro compiti di applicazione delle norme, si veda la sentenza n. 68 del 2017, Considerato in diritto, punto 7.).
Ne consegue che il giudice penale dovrà optare per l’ipotesi della reclusione soltanto nei casi di eccezionale gravità del fatto, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, rispetto ai quali la pena detentiva risulti proporzionata, secondo i principi poc’anzi declinati; mentre dovrà limitarsi all’applicazione della multa, opportunamente graduata secondo la concreta gravità del fatto, in tutte le altre ipotesi.
Questa lettura, del resto, è stata già fatta propria dalla più recente giurisprudenza di legittimità, nel quadro di un’interpretazione che dichiaratamente si ispira alla giurisprudenza pertinente della Corte EDU e all’ordinanza n. 132 del 2020 di questa Corte (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 9 luglio 2020, n. 26509), e che si estende anche agli autori di diffamazioni aggravate ai sensi dell’art. 595, terzo comma, cod. pen. i quali non esercitino attività giornalistica in senso stretto (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 17 febbraio 2021, n. 13993; sezione quinta penale, sentenza 15 gennaio 2021, n. 13060).
Così interpretata, la disposizione censurata risulta conforme tanto all’art. 21, quanto all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 CEDU.
6.4.– Tale interpretazione consente di escludere anche il contrasto della disposizione censurata con l’art. 3 Cost., che il rimettente prospetta sulla base dei medesimi argomenti che sostengono l’allegata violazione degli artt. 21 e 117, primo comma, Cost.
7.– Manifestamente infondata è invece la questione, sollevata dallo stesso Tribunale di Salerno, avente ad oggetto l’art. 595, terzo comma, cod. pen., in riferimento all’art. 25 Cost.
Il rimettente opina che il carattere sproporzionato, irragionevole e non necessario della sanzione detentiva rispetto al bene giuridico tutelato violerebbe il principio di offensività, ricavabile appunto dall’art. 25 Cost.
In senso contrario, deve tuttavia rilevarsi che la diffamazione è, per quanto sopra argomentato, delitto tutt’altro che inoffensivo, essendo posto a tutela di un diritto fondamentale, quale la reputazione della persona, di primario rilievo nell’ordinamento costituzionale; mentre il carattere proporzionato o sproporzionato della sanzione comminata dal legislatore per un fatto comunque offensivo deve piuttosto essere vagliato sotto il profilo della sua compatibilità con altri parametri costituzionali, tra cui segnatamente la libertà di manifestazione del pensiero, secondo le cadenze poc’anzi illustrate.
8.– Non fondato appare infine anche il dubbio di legittimità costituzionale sollevato dal Tribunale di Salerno sulla compatibilità della medesima disposizione con l’art. 27, terzo comma, Cost.
Il giudice a quo non censura qui la sproporzione della pena detentiva rispetto alla gravità del reato, bensì l’«inidoneità della minacciata sanzione detentiva a garantire il pieno rispetto della funzione generalpreventiva e specialpreventiva della pena stessa». Il rimettente assume dunque in premessa la contrarietà alla CEDU della pena detentiva nelle ipotesi di diffamazione a mezzo stampa, e dunque la sua non irrogabilità in concreto; dal che deriverebbe la radicale inefficacia della sua comminatoria edittale rispetto agli scopi preventivi della pena, tra cui – parrebbe di intendere – la finalità rieducativa menzionata nell’art. 27, terzo comma, Cost.
Mai tuttavia, nella giurisprudenza di questa Corte, la necessaria finalità rieducativa della pena è stata utilizzata a sostegno di dichiarazioni di illegittimità costituzionale miranti a censurare l’ineffettività di comminatorie edittali rispetto agli stessi scopi preventivi della pena, in considerazione della inapplicabilità della pena in essa prevista. L’art. 27, terzo comma, Cost. è piuttosto pertinente nel quadro di censure miranti a denunciare il carattere manifestamente sproporzionato della pena prevista dal legislatore rispetto alla gravità del fatto di reato; ma che la cornice edittale prevista dall’art. 595, terzo comma, cod. pen. sia manifestamente sproporzionata si è già avuto poc’anzi modo di escludere, nei limiti appena precisati.
9.– Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), deve essere dichiarata in via consequenziale l’illegittimità costituzionale dell’art. 30, comma 4, della legge 6 agosto 1990, n. 223 (Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato), il quale prevede che «[n]el caso di reati di diffamazione commessi attraverso trasmissioni consistenti nell’attribuzione di un fatto determinato, si applicano ai soggetti di cui al comma 1 le sanzioni previste dall’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47», dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla presente pronuncia.
Resterà anche in questo caso applicabile la disciplina prevista dall’art. 595, terzo comma, cod. pen. nei termini sopra indicati.
10.– La presente decisione, pur riaffermando l’esigenza che l’ordinamento si faccia carico della tutela effettiva della reputazione in quanto diritto fondamentale della persona, non implica che il legislatore debba ritenersi costituzionalmente vincolato a mantenere anche per il futuro una sanzione detentiva per i casi più gravi di diffamazione (in senso analogo, in relazione al contiguo diritto fondamentale all’onore, sentenza n. 37 del 2019).
Resta però attuale la necessità, già sottolineata da questa Corte con l’ordinanza n. 132 del 2020, di una complessiva riforma della disciplina vigente, allo scopo di «individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica; e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime – e talvolta maliziose – aggressioni poste in essere nell’esercizio di tale attività».
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa);
2) dichiara l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), dell’art. 30, comma 4, della legge 6 agosto 1990, n. 223 (Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato);
3) dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 595, terzo comma, del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 21 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), dal Tribunale ordinario di Salerno, sezione seconda penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 595, terzo comma, cod. pen., sollevata, in riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost., dal Tribunale di Salerno, sezione seconda penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
5) dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 595, terzo comma, cod. pen., sollevata, in riferimento all’art. 25 Cost., dal Tribunale di Salerno, sezione seconda penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 giugno 2021.