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13 luglio 2021
La Consulta sul reato di diffamazione a mezzo stampa: carcere solo nei casi di eccezionale gravità

Dopo un anno, la Corte Costituzionale torna a pronunciarsi sul regime sanzionatorio previsto per il reato di diffamazione a mezzo stampa, dichiarando l'illegittimità dell'obbligo del carcere per i giornalisti.

La Redazione

I Tribunali di Salerno e Bari hanno sollevato dubbi sulla legittimità costituzionale della pena detentiva prevista per la diffamazione a mezzo stampa in relazione agli artt. 21 Cost. e 10 della CEDU.
Con sentenza n. 150 del 12 luglio 2021, la Corte dichiara incostituzionale l'art. 13 della L. n. 47/1948, in quanto obbliga il giudice a punire la diffamazione a mezzo della stampa o della radiotelevisione, aggravata dall'attribuzione di un fatto determinato, con la reclusione da uno a sei anni, a tal punto da produrre « l'effetto di dissuadere i giornalisti dall'esercizio della loro cruciale funzione di controllo dell'operato dei pubblici poteri ».

Sul tema, la Consulta ritiene invece compatibile con la Costituzione l'art. 595, comma 3, c.p., che prevede la pena detentiva per i casi più gravi di diffamazione, stabilendo la reclusione da sei mesi a tre anni oppure, in alternativa, il pagamento di una multa in caso di condanna per diffamazione commessa a mezzo stampa o di altra forma di pubblicità. L'aggravante scatta dunque in casi eccezionali, ossia quando il giornalista si rende responsabile di campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media per screditare l'avversario con affermazioni non veritiere, trasformandosi così «da “cane da guardia” della democrazia» in pericolo per la stessa.

Le questioni sollevate sono già state oggetto di attenzione della Corte Costituzionale nell'ordinanza n. 132/2020, in cui sollecitava il legislatore a riformare la disciplina vigente, allo scopo di bilanciare il diritto alla libertà di cronaca e di critica dei giornalisti con la tutela reputazionale individuale.

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