Con la sentenza in commento, la Corte Costituzionale risolve un conflitto di attribuzione tra Stato e Regione in materia di tutela ambientale, affermando che l'Ente territoriale può solamente ampliare l'insieme dei beni paesaggistici e non anche ridurlo.
Con la sentenza n. 164 del 22 luglio 2021, la Corte Costituzionale respinge il ricorso proposto dalla Regione Veneto avverso la decisione dello Stato di riconoscere tra le proprie competenze l'interesse pubblico paesaggistico di un'area.
Sull'argomento, la Consulta precisa che le Regioni possono pianificare lo sviluppo del proprio territorio con scelte di carattere urbanistico «solo quando quest'ultime siano rispettose dei vincoli posti dallo Stato per tutelare beni di valore paesaggistico», ivi compresa l'ipotesi in cui il piano paesaggistico della Regione sia in corso di approvazione.
La logica sottesa a tale potere statuale risiede nella tutela dei beni paesaggistici, che consente alle Regioni, in un'ottica “incrementale”, di «allargarne l'ambito ma non di ridurlo, neppure per mezzo dei piani paesaggistici di competenza regionale, da redigere d'intesa con lo Stato».
Svolgimento del processo
1.– Con ricorso notificato il 3 febbraio 2020 e depositato il successivo 12 febbraio, la Regione Veneto ha promosso conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato, in relazione al decreto del Direttore generale della direzione generale archeologia, belle arti e paesaggio del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo del 5 dicembre 2019, n. 1676, recante «Dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’area alpina compresa tra il Comelico e la Val d’Ansiei, Comuni di Auronzo di Cadore, Danta di Cadore, Santo Stefano di Cadore, San Pietro di Cadore, San Nicolò di Comelico e Comelico Superiore».
La Regione reputa tale atto lesivo delle competenze legislative e amministrative che le sono attribuite dagli artt. 117, commi terzo e quarto, e 118 della Costituzione in materia di valorizzazione dei beni culturali e ambientali, governo del territorio, turismo e agricoltura. Esso sarebbe altresì stato assunto in violazione del principio di leale collaborazione.
2.– La ricorrente osserva che il decreto posto alla base del conflitto è stato adottato sulla base dell’art. 138, comma 3, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), che attribuisce allo Stato il potere di dichiarare il notevole interesse pubblico degli immobili e delle aree elencate dall’art. 136 del medesimo testo normativo.
Ciò accade all’esito di un procedimento avviato da una proposta motivata del soprintendente, previo parere della Regione interessata, che lo esprime entro trenta giorni.
Tale iter è “fatto salvo” rispetto al procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico che, invece, si conclude con un provvedimento della Regione ai sensi dell’art. 140 cod. beni culturali.
Nel caso oggetto del presente conflitto, il potere statale è stato esercitato con riferimento a porzioni del territorio regionale che sono state ritenute rilevanti, in quanto «complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale, inclusi i centri e i nuclei storici» (art. 136, comma 1, lettera c, cod. beni culturali) e in quanto «bellezze panoramiche» e «punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze» (art. 136, comma 1, lettera d, cod. beni culturali).
Il decreto del 5 dicembre 2019 ha, in particolare, riconosciuto alle aree della valle del Comelico «un aspetto unitario e uno spiccato carattere di identità, di notevole interesse pubblico», poiché segnate non solo da «bellezze naturali (Dolomiti) e siti panoramici», ma da elementi morfologici che la rendono un «unicum paesaggistico straordinariamente conservato».
Si è pertanto assoggettato tale territorio alla disciplina d’uso recata in apposito allegato al decreto oggetto di conflitto, la cosiddetta «Relazione e Disciplina d’uso», che diviene parte integrante del piano paesaggistico previsto dall’art. 143 cod. beni culturali, e non può venire rimossa o modificata in sede di redazione o revisione del piano, come prevede l’art. 140, comma 2, del medesimo codice.
3.– La ricorrente reputa che, adottando il decreto del 5 dicembre 2019, e dunque individuando i beni paesaggistici che ne sono oggetto in via unilaterale, e senza osservare il «procedimento ordinario» facente capo alla Regione, lo Stato ne abbia leso le prerogative costituzionali in materia di valorizzazione dei beni culturali e ambientali e di governo del territorio (art. 117, terzo comma, Cost.), nonché di agricoltura e turismo (art. 117, quarto comma, Cost.).
Difatti, da tali disposizioni costituzionali dovrebbe evincersi, a parere della ricorrente, che la «competenza pianificatoria in materia paesaggistica» non possa che essere esercitata congiuntamente da Stato e Regioni, mediante l’elaborazione del piano paesaggistico.
Pertanto, il potere statale, previsto dall’art. 138, comma 3, cod. beni culturali e concretamente azionato con il decreto oggetto di conflitto, dovrebbe limitarsi ad «assoggettare singoli beni immobili o un complesso degli stessi ad un vincolo specifico», ma non potrebbe estendersi a «vaste aree geografiche, dalle connotazioni varie e multiformi, per non dire disomogenee», allo scopo di pianificarne dettagliatamente l’uso.
Nel caso di specie, lo Stato avrebbe illegittimamente adottato «un vero e proprio atto di pianificazione», «di gran lunga eccedente il fine di tutela del paesaggio», perché la «Relazione e disciplina d’uso» allegata al decreto del 5 dicembre 2019 conterrebbe «vincoli puntuali, dettagliati e inderogabili» sull’uso del territorio, che sarebbero propri dell’attività di pianificazione, anziché di quella concernente la dichiarazione di notevole interesse pubblico dei beni paesaggistici.
Lo Stato avrebbe perciò menomato le competenze costituzionali regionali, anzitutto appropriandosi, con la dichiarazione di notevole interesse pubblico, del contenuto di pianificazione che dovrebbe essere riservato al piano paesaggistico.
Ciò sarebbe ancora più grave, se si considera che il procedimento di pianificazione paesaggistica, avviatosi nel 2009, è in corso e di prossima conclusione «quanto meno per stralci progressivi», sicché nessuna inerzia può essere contestata alla Regione.
4.– Anche le competenze delle soprintendenze preposte alla tutela paesaggistica e dei Comuni sarebbero state illegittimamente compresse, per la medesima ragione. In particolare, i Comuni avrebbero una competenza propria, ai sensi dell’art. 118 Cost., quanto all’adozione del piano regolatore, le cui scelte sull’uso del territorio sarebbero pregiudicate dal contenuto di pianificazione dettagliata del decreto oggetto di conflitto.
5.– In secondo luogo, sarebbe stato leso anche il principio di leale collaborazione, posto che, esercitando il potere di cui all’art. 138, comma 3, cod. beni culturali, il ruolo della Regione sarebbe stato degradato all’espressione di un mero parere obbligatorio.
Si sarebbe così posta nel nulla tutta l’attività di pianificazione fino ad allora svolta tra Stato e Regione, quando, invece, in presenza di specifiche esigenze di tutela dell’area del Comelico, sarebbe stato possibile «l’adozione congiunta di uno stralcio del piano paesaggistico».
6.– La ricorrente nega, tuttavia, che tali esigenze sussistessero, e ritiene che ciò costituisca un’ulteriore ragione di menomazione della propria sfera di competenza.
Il decreto del 5 dicembre 2019, infatti, pur adottato «nelle more della approvazione del piano paesaggistico», non pone in evidenza alcun «rischio concreto di lesione per l’interesse paesaggistico», se non con un riferimento ad un processo di spopolamento del versante, che non avrebbe alcun rapporto con il bene giuridico oggetto di tutela (ciò che sarebbe segno di «intrinseca contraddittorietà ed eccentricità motivazionale»).
Anzi, la ricorrente osserva che la quasi totalità del territorio (96,6% comprensivo delle aree boschive) proposto alla dichiarazione di notevole interesse pubblico è già «assoggettato a tutela paesaggistica», cosicché non vi sarebbero state ragioni provvisorie e interinali per imporre ulteriori vincoli.
Sarebbe perciò mancato il presupposto di esercizio del «potere straordinario» previsto dall’art. 138, comma 3, cod. beni culturali.
7.– Inoltre, l’imposizione di una disciplina uniforme per un territorio di notevole estensione, e che presenterebbe «situazioni anche molto differenziate» implicherebbe un vizio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e un difetto di proporzionalità, tale da comportare l’annullamento del decreto oggetto di conflitto.
8.– La Regione Veneto lamenta, poi, che il decreto del 5 dicembre 2019 rechi previsioni inderogabili da parte del piano paesaggistico. L’atto afferma, infatti, che la disciplina in esso contenuta «non è suscettibile di rimozioni o modifiche nel corso del procedimento di redazione o revisione» del piano.
Posto che tale previsione riproduce quanto stabilito dall’art. 140, comma 2, cod. beni culturali, la ricorrente eccepisce la illegittimità costituzionale di tale disposizione di legge, in riferimento agli artt. 3, 97, 117, terzo e quarto comma, 118 e 120 Cost., perché sarebbe irragionevole, sproporzionato e lesivo delle competenze regionali precludere la modificazione delle prescrizioni contenute dalla dichiarazione di notevole interesse pubblico da parte dell’atto di pianificazione, che, a sua volta, esige un continuo aggiornamento.
9.– Infine, il decreto oggetto di conflitto sarebbe illegittimo, perché, al pari dei piani paesaggistici, esso avrebbe dovuto essere sottoposto alla valutazione ambientale strategica (VAS). Omettendo tale iniziativa, lo Stato avrebbe leso l’art. 6, commi 1 e 2, lettera a), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale).
10.– La Regione Veneto conclude chiedendo l’annullamento del decreto del 5 dicembre 2019.
11.– Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile, e, nel merito, non fondato.
12.– L’Avvocatura, premesso che l’atto oggetto di conflitto è stato impugnato anche innanzi al TAR Veneto, eccepisce l’inammissibilità del ricorso, perché la Regione sarebbe priva di attribuzioni costituzionali nella materia della tutela dell’ambiente, riservata alla competenza legislativa esclusiva statale dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
13.– Sarebbero poi inammissibili alcune specifiche censure, che non involgerebbero in nessun modo profili concernenti il riparto delle competenze costituzionali.
In particolare, la Regione Veneto non potrebbe avanzare in sede di conflitto tra enti rilievi sulla vastità ed eterogeneità del territorio disciplinato dal decreto del 5 dicembre 2019, circostanza, peraltro, che la ricorrente avrebbe indicato in modo totalmente generico.
Sarebbe inoltre inammissibile la censura concernente la mancata sottoposizione a VAS dell’atto oggetto di conflitto, posto che si tratterebbe di vizio non ridondante sulla sfera di attribuzione costituzionale della Regione.
Parimenti, la ricorrente non avrebbe indicato quali competenze sue proprie sarebbero lese, quanto alla denunciata compressione delle prerogative di soprintendenze e Comuni.
14.– Inammissibile per difetto di rilevanza, e comunque non fondata, sarebbe l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 140, comma 2, cod. beni culturali, che, oltretutto, avrebbe dovuto investire l’art. 141, nella parte in cui si dichiara applicabile l’art. 140, comma 2, appena menzionato, alle dichiarazioni di notevole interesse pubblico adottate sulla base dell’art. 138, comma 3, cod. beni culturali.
15.– Nel merito, l’Avvocatura osserva che il decreto oggetto di conflitto reca prescrizioni d’uso di carattere generale, ovvero valevoli per l’intero compendio, e di carattere specifico, ovvero riferite ai contesti entro cui esso si articola.
Tutte tali prescrizioni hanno la finalità conservativa che l’art. 140, comma 2, cod. beni culturali attribuisce alla dichiarazione di notevole interesse pubblico.
Si tratterebbe di prescrizioni, concernenti l’uso del territorio, necessarie a «indirizzare l’esercizio del potere di autorizzazione paesaggistica nei singoli casi», sicché non sarebbe fondata la censura della ricorrente, che le reputa eccedenti lo scopo, alla luce del fatto che gran parte dell’area del Comelico è già oggetto di tutela paesaggistica.
Difatti, osserva l’Avvocatura, quest’ultima tutela deriverebbe dai vincoli «a macchia di leopardo» posti dall’art. 142 cod. beni culturali, che recano mere «misure di salvaguardia», consegnate «ai singoli provvedimenti autorizzatori», mentre il decreto del 5 dicembre 2019 appronta «linee generali preventive, prevedibili e atte a rendere coordinato e coerente l’esercizio del potere di autorizzazione».
Andrebbe perciò escluso che la dichiarazione di notevole interesse pubblico si sia sovrapposta illegittimamente al contenuto dei piani paesaggistici, alla cui elaborazione partecipa la Regione.
I piani, infatti, non servirebbero a individuare «i valori paesaggistici eminenti», ma solo a «operare un rilievo della valenza paesaggistica, anche non eminente, dell’intero territorio regionale».
La funzione di selezionare anche «intere aree geografiche» per il preminente connotato paesaggistico sarebbe propria della sola dichiarazione di notevole interesse pubblico, sicché «i due provvedimenti e procedimenti operano, insomma, su piani funzionali e contenutistici diversi».
16.– La Regione Veneto avrebbe perciò torto a sostenere che il decreto oggetto di conflitto abbia ecceduto dalle sue finalità, surrogando il piano paesaggistico, tanto più che il piano sarebbe in corso di elaborazione da parte della Regione da circa dodici anni, allo stato senza esito. Quindi, l’Avvocatura reputa «del tutto fuori luogo invocare una presunta mancanza di leale cooperazione tra Stato e Regione», visto che «la conclusione del procedimento di pianificazione è ancora lontana».
17.– Né sarebbero ravvisabili vizi nel procedimento osservato. Il potere statale previsto dall’art. 138, comma 3, cod. beni culturali sarebbe esercitabile, anche in difetto di un rischio concreto di lesione dell’interesse paesaggistico. Nel caso di specie, esso, attraverso le prescrizioni specifiche contenute nel decreto oggetto di conflitto, avrebbe anche tenuto conto della specificità delle aree entro cui si ripartisce il territorio soggetto a tutela. Infine, la tutela paesaggistica sarebbe preordinata anche ad arrestare il «degrado» delle aree di pregio, sicché sarebbe congruo che essa risponda a fenomeni di abbandono del versante, di spopolamento e di declino dell’agricoltura.
Motivi della decisione
1.– La Regione Veneto ha promosso conflitto di attribuzione (reg. confl. enti n. 1 del 2020) nei confronti dello Stato, in relazione al decreto del Direttore generale della direzione generale archeologia, belle arti e paesaggio del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo del 5 dicembre 2019, n. 1676, recante «Dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’area alpina compresa tra il Comelico e la Val d’Ansiei, Comuni di Auronzo di Cadore, Danta di Cadore, Santo Stefano di Cadore, San Pietro di Cadore, San Nicolò di Comelico e Comelico Superiore».
Con tale atto, adottato ai sensi dell’art. 138, comma 3, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), è stato dichiarato il notevole interesse pubblico di un’area del territorio veneto, reputata «bellezza panoramica» «avente valore estetico e tradizionale», in base all’art. 136 cod. beni culturali.
Alla dichiarazione si è accompagnata l’imposizione di una specifica disciplina, contenuta nella relazione allegata al decreto, con cui sono dettate le prescrizioni concernenti le componenti morfologiche del paesaggio ed i limiti ai quali soggiacciono gli interventi ammissibili.
1.1.– Il decreto oggetto di conflitto è stato impugnato innanzi al TAR Veneto, ciò che non incide sull’ammissibilità del presente ricorso (sentenza n. 17 del 2020).
2.– La ricorrente reputa l’atto lesivo delle competenze legislative e amministrative che le sono attribuite dagli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 della Costituzione in materia di valorizzazione dei beni culturali e ambientali, governo del territorio, turismo e agricoltura. Esso sarebbe altresì stato assunto in violazione del principio di leale collaborazione.
La Regione Veneto sostiene che, nel vincolare con apposite prescrizioni, puntuali, dettagliate e inderogabili, una intera area geografica del territorio, lo Stato avrebbe menomato le attribuzioni costituzionali regionali attinenti allo sviluppo urbanistico e alla fruizione dell’ambiente, soffocando ogni spazio di autonoma concretizzazione di esse.
Ciò sarebbe avvenuto nell’esercizio, in difetto dei presupposti, del potere straordinario e di urgenza conferito allo Stato dall’art. 138, comma 3, cod. beni culturali, nell’ambito di un procedimento ove la partecipazione regionale è degradata all’espressione di un mero parere obbligatorio, ma non vincolante.
Sarebbe così stato eluso il principio di elaborazione congiunta tra Stato e Regione del piano paesaggistico (la cui adozione sarebbe stata imminente), posto che quest’ultimo, in base all’art. 140, comma 2, cod. beni culturali è tenuto a recepire la dichiarazione di notevole interesse pubblico, che non è suscettibile di rimozioni o modifiche.
3.– In via preliminare, debbono essere dichiarati inammissibili i profili del conflitto che non trovano corrispondenza, quanto ai parametri costituzionali indicati e ai motivi di censura che ne sono tratti, nella delibera con cui la Giunta regionale ha autorizzato la proposizione del ricorso (sentenze n. 252 del 2013 e n. 311 del 2008).
Si tratta, anzitutto, dei termini del conflitto basati sull’art. 117, quarto comma, Cost. in tema di agricoltura e turismo.
Inammissibile è anche, per la medesima ragione, la deduzione svolta con il ricorso in ordine alla illegittima compressione delle competenze urbanistiche dei Comuni e delle prerogative delle soprintendenze ai beni culturali.
Infine è inammissibile, per lo stesso motivo, il profilo del conflitto incentrato sulla mancata sottoposizione a valutazione ambientale strategica del decreto oggetto di causa.
4.– Peraltro, quest’ultima censura si rivela inammissibile anche perché con essa la ricorrente si limita a denunciare un profilo di violazione di legge, anziché a dedurre, come è in questa sede necessario, la menomazione delle proprie attribuzioni costituzionali.
Analoga inammissibilità colpisce, perciò, anche le censure con le quali si lamenta che il vincolo abbia un carattere irragionevole e sproporzionato, alla luce delle caratteristiche morfologiche dell’area che vi è interessata, posto che con ciò non si pone in dubbio la spettanza del potere statale o il difetto dei presupposti che lo giustificano, ma la mera illegittimità del suo esercizio in concreto, alla luce delle effettive condizioni dei luoghi.
Spetta perciò al giudice comune vigilare sulla corretta applicazione dell’art. 136 cod. beni culturali, anche con riguardo non tanto alla vastità, ma soprattutto alla omogeneità dei beni avvinti dalla medesima dichiarazione di notevole interesse pubblico (sentenze n. 17 del 2020, n. 259 del 2019, n. 255 del 2019, n. 224 del 2019 e n. 10 del 2017).
5.– L’assoluta estraneità della censura alla sfera di competenze costituzionali della Regione costituisce ulteriore causa di inammissibilità del ricorso, nella parte in cui si lamenta l’omessa attivazione del procedimento di valutazione ambientale strategica, ovvero di un procedimento ove sono destinati ad emergere interessi facenti capo esclusivamente allo Stato (sentenza n. 219 del 2015).
Per la medesima ragione, la denunciata lesione delle prerogative delle soprintendenze statali ai beni culturali è inammissibile, anche perché indifferente rispetto alle attribuzioni della Regione ricorrente.
6.– Quest’ultima, poi, si reputa menomata nella propria sfera di competenza costituzionale dalla previsione, contenuta nel decreto oggetto di conflitto, per la quale la dichiarazione di notevole interesse pubblico costituisce parte integrante del piano paesaggistico, e non ne può essere modificata.
Posto che, per tale parte, il decreto in oggetto è meramente riproduttivo dell’art. 140, comma 2, cod. beni culturali, la Regione eccepisce la illegittimità costituzionale di tale ultima disposizione normativa, in riferimento agli artt. 3, 97, 117, terzo e quarto comma, 118 e 120 Cost.
Così operando, la ricorrente incorre però nel divieto processuale, in sede di conflitto tra enti, di porre in discussione la legittimità costituzionale della disciplina primaria di cui l’atto oggetto di conflitto è applicativo, benché essa non fosse stata a suo tempo impugnata nel termine di decadenza concesso per proporre questioni di legittimità costituzionale in via principale.
Difatti, «a garanzia, nei loro stessi confronti, della certezza del diritto si richiede che Stato e Regione intervengano in termini tassativamente fissati a promuovere direttamente il giudizio di legittimità costituzionale. Tale garanzia verrebbe meno se, con la possibilità di sollevare conflitti di attribuzione per atti meramente esecutivi o applicativi, restasse aperta indefinitamente nel tempo la possibilità della impugnativa delle leggi da parte di soggetti che hanno omesso di proporla in via diretta, nei termini stabiliti dalle norme che regolano l'azione dei soggetti e degli organi costituzionali al fine di assicurare il rispetto della Costituzione e l’unità dell’ordinamento giuridico positivo» (sentenza n. 140 del 1970; in seguito, nello stesso senso, sentenze n. 149 del 2009, n. 375 del 2008 e n. 334 del 2000).
7.– Per analoga ragione, il ricorso è inammissibile, nella parte in cui lamenta che, nel procedimento previsto dall’art. 138, comma 3, cod. beni culturali, il coinvolgimento della Regione avvenga solo con parere obbligatorio, ma non vincolante, atteso che ciò è stabilito espressamente dalla legge, non impugnata a suo tempo, con lo stesso comma 3 dell’art. 138 appena citato.
8.– Per il resto, e contrariamente a quanto eccepito dall’Avvocatura generale dello Stato, il ricorso è ammissibile, poiché la Regione sostiene che le proprie competenze costituzionali in tema di valorizzazione dei beni culturali e ambientali e di governo del territorio siano state menomate, in spregio alla leale collaborazione, a causa dell’esercizio di una competenza statale con carenza di potere in concreto (sentenza n. 255 del 2019). Sarebbero cioè mancati i presupposti per attivare il potere di vincolo proprio dello Stato, sicché esso avrebbe trasmodato nella compressione delle concomitanti prerogative costituzionali della Regione (per l’ammissibilità di conflitto promosso dalla Regione avverso una dichiarazione statale di notevole interesse pubblico di bene culturale, sentenza n. 334 del 1998).
Difatti, questa Corte ha da lungo tempo affermato e costantemente ribadito che «la figura dei conflitti di attribuzione non si restringe alla sola ipotesi di contestazione circa l’appartenenza del medesimo potere, che ciascuno dei soggetti contendenti rivendichi per sé, ma si estende a comprendere ogni ipotesi in cui dall’illegittimo esercizio di un potere altrui consegua la menomazione di una sfera di attribuzioni costituzionalmente assegnate all’altro soggetto» (sentenza n. 259 del 2019).
Nel caso di specie, siffatta menomazione si riferirebbe alla elaborazione congiunta del piano paesaggistico e al governo del territorio nel suo sviluppo urbanistico, ovvero a sfere il cui esercizio sarebbe stato compromesso dal decreto oggetto di conflitto.
9.– Il ricorso, tuttavia, non è fondato.
9.1.– Sul piano delle competenze costituzionali attinenti ai beni paesaggistici, questa Corte ha già precisato che «[l]a tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso ed unitario, considerato dalla giurisprudenza costituzionale un valore primario ed assoluto, e rientrando nella competenza esclusiva dello Stato, precede e comunque costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali. In sostanza, vengono a trovarsi di fronte due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla conservazione del paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla fruizione del territorio, affidato anche alle Regioni» (sentenza n. 367 del 2007; in seguito, nello stesso senso, sentenze n. 66 del 2018, n. 11 del 2016, n. 309 del 2011, n. 101 del 2010, n. 226 del 2009, n. 180 del 2008 e n. 378 del 2007).
9.2.– Da tale postulato conseguono alcuni corollari.
Anzitutto, è evidente che il potere conferito allo Stato di vincolare un bene in ragione delle sue intrinseche qualità paesaggistiche (sentenza n. 56 del 1968) non costituisce una deviazione dall’impianto costituzionale, come invece suggerisce la ricorrente quando sostiene che tale attività dovrebbe necessariamente confluire in un atto oggetto di «elaborazione congiunta» con la Regione interessata.
È vero il contrario: il conferimento allo Stato della competenza legislativa esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.), e con esso della potestà di individuare il livello di governo più idoneo ad esercitare le relative funzioni amministrative, rende del tutto coerente con il disegno costituzionale la previsione, oggi codificata dall’art. 138, comma 3, cod. beni culturali, secondo cui l’autorità statale possa autonomamente rinvenire in un bene le caratteristiche che lo rendono meritevole di tutela, anche se la Regione nel cui territorio il bene si trova dovesse essere di contrario avviso.
Tale principio, già espresso da questa Corte con la sentenza n. 334 del 1998, a maggior ragione va ribadito nella vigenza del nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione, che ha ulteriormente rafforzato la competenza statale nel campo della tutela dell’ambiente.
Non vi è, perciò, alcunché di straordinario o di eccezionale nella potestà oggi riconosciuta ad un organo statale dall’art. 138, comma 3, cod. beni culturali, posto che essa, invece, è il naturale sviluppo delle attribuzioni dello Stato in tale materia.
Anzi, «è necessario che restino inequivocabilmente attribuiti allo Stato, ai fini della tutela, la disciplina e l’esercizio unitario delle funzioni destinate alla individuazione dei beni costituenti il patrimonio culturale nonché alla loro protezione e conservazione» (sentenza n. 140 del 2015).
9.3.– Naturalmente, nulla vieta alla legislazione statale di coinvolgere le Regioni nella funzione amministrativa di identificare i beni degni di tutela, tanto più che si tratta di un compito logicamente e giuridicamente distinto, ma senza dubbio preliminare, e perciò connesso, a successivi interventi di valorizzazione, che rientrano nella competenza concorrente (sentenze n. 138 del 2020 e n. 140 del 2015).
Allo stato attuale della legislazione, ciò avviene sia mediante l’espressione di un parere regionale non vincolante nell’ambito del procedimento avviato dallo Stato, sia per mezzo dell’emanazione diretta, nel procedimento che fa capo alla Regione stessa, del provvedimento di tutela, ma sulla base della proposta alla quale è giunta una commissione cui devono partecipare anche organi statali (artt. 137 e 140 cod. beni culturali).
Infine, il piano paesaggistico, che ha una funzione di pianificazione necessariamente ricognitiva degli immobili e delle aree dichiarati di notevole interesse pubblico, riveste anche una funzione eventualmente dichiarativa di nuovi vincoli (art. 143, comma 1, lettera d, cod. beni culturali), alla quale la Regione partecipa attraverso l’elaborazione congiunta di tale atto (da ultimo, sentenza n. 240 del 2020).
Il legislatore ordinario si è perciò ispirato in tale materia ad una logica incrementale delle tutele che è del tutto conforme al carattere primario del bene ambientale, cui peraltro si riferisce, collocato fra i principi fondamentali della Repubblica, l’art. 9 Cost. (sentenze n. 367 del 2007, n. 183 del 2006, n. 641 del 1987 e n. 151 del 1986).
Tale logica, dal lato della Regione, opera sul piano procedimentale per addizione, e mai per sottrazione, nel senso che la competenza regionale può essere spesa al solo fine di arricchire il catalogo dei beni paesaggistici, in virtù della conoscenza che ne abbia l’autorità più vicina al territorio ove essi sorgono, e non già di alleggerirlo in forza di considerazioni confliggenti con quelle assunte dallo Stato, o comunque mosse dalla volontà di affermare la prevalenza di interessi opposti, facenti capo all’autonomia regionale, come accade nel settore del governo del territorio.
Per questa ragione, è conforme al riparto costituzionale delle competenze che il piano paesaggistico regionale – ove non sia la sede di diversi apprezzamenti legati anche alla dimensione urbanistica del territorio – è tenuto a recepire le scelte di tutela paesaggistica, senza capacità di alterarle neppur sul piano delle prescrizioni d’uso. Altrimenti, esso potrebbe divenire l’occasione per ridurre lo standard di tutela dell’ambiente in forza di interessi divergenti, anziché la sede deputata a collocare armonicamente siffatti interessi sub valenti nella cornice già intagliata secondo la preminente prospettiva della conservazione del paesaggio. L’occasione, vale a dire, per degradare «la tutela paesaggistica – che è prevalente – in una tutela meramente urbanistica» (sentenza n. 437 del 2008).
In particolare, il principio di elaborazione congiunta del piano paesaggistico, ovvero di un atto di competenza della Regione, non significa che in difetto del consenso di quest’ultima lo Stato non possa vincolare alcun bene. Al contrario, esso indica che un’attività propria della Regione (e, alla quale, pertanto, va da sé che essa partecipi), ove confluiscano apprezzamenti attinenti sia al paesaggio, sia al governo del territorio, non possa essere esercitata unilateralmente, estromettendo l’autorità centrale dal processo decisionale (sentenze n. 240 del 2020; n. 86 del 2019; n. 178 del 2018; n. 68 del 2018; n. 64 del 2015; n. 211 del 2013 e n. 437 del 2008).
9.4.– Il secondo corollario, già ben presente nella giurisprudenza costituzionale, consiste infatti nella “prevalenza” assiomatica della tutela dell’ambiente sugli interessi urbanistico-edilizi (sentenza n. 11 del 2016), quando, naturalmente, la dichiarazione di notevole interesse pubblico sia stata legittimamente adottata con riferimento alle categorie di beni elencate dall’art. 136 cod. beni culturali.
Non spetta perciò alla Regione opporre alla scelta di tutela conservativa compiuta dallo Stato l’esigenza di alterare il bene paesaggistico nell’ottica dello sviluppo del territorio e dell’incentivo alle attività economiche che vi si svolgono, mentre un profilo di intervento dinamico, che coinvolge la Regione, può legittimamente articolarsi in attività finalizzate alla promozione e al sostegno della conoscenza, fruizione e conservazione del patrimonio culturale (sentenze n. 138 del 2020 e n. 71 del 2020).
Sotto tale aspetto, è del tutto connaturato alla finalità di conservazione del paesaggio che la dichiarazione di notevole interesse pubblico non si limiti a rilevare il valore paesaggistico di un bene, ma si accompagni a prescrizioni intese a regolamentarne l’uso, fino alla possibilità di vietarlo del tutto, come questa Corte ha recentemente sottolineato (sentenze n. 246 del 2018 e n. 172 del 2018).
Con ciò, in linea di principio, la dichiarazione non si sovrappone alla disciplina urbanistica ed edilizia di competenza regionale e locale, ma piuttosto specifica se e in quale misura quest’ultima possa esercitarsi, in forma compatibile con la vocazione alla conservazione del pregio paesaggistico propria dell’immobile o dell’area vincolata.
La circostanza che larga parte del territorio interessato dalla dichiarazione sia già tutelata per legge ai sensi dell’art. 142 cod. beni culturali non toglie, perciò, che la dichiarazione di notevole interesse pubblico possa sopraggiungere, proprio al fine di arricchire con maggiori dettagli lo specifico grado di protezione di cui i beni inseriti nell’area debbono godere.
10.– Sulla base di queste premesse, appare chiaro che spettava allo Stato adottare il decreto oggetto di conflitto, poiché esso corrisponde all’esercizio di un’attribuzione costituzionale declinata dalla legge con l’art. 138, comma 3, cod. beni culturali, insuscettibile, nel caso concreto, di pregiudicare le competenze della Regione Veneto in tema di valorizzazione dei beni culturali e di governo del territorio.
10.1.– In senso opposto, non vale obiettare che, alla data di adozione dell’atto oggetto di conflitto, era da lungo tempo in corso il procedimento per approvare congiuntamente il piano paesaggistico regionale, sicché imporre il vincolo al di fuori di tale sede violerebbe il principio di leale collaborazione.
Difatti, si è già osservato che, in base alla logica incrementale della tutela paesaggistica, è ininfluente sulla preliminare dichiarazione di notevole interesse pubblico la circostanza che Stato e Regione non concordino, eventualmente, sull’introduzione in sede di pianificazione di un nuovo vincolo ai sensi dell’art. 143, comma 1, lettera d), cod. beni culturali.
Il piano è infatti tenuto a recepire i vincoli già formatisi, proprio perché nel disegno costituzionale, poi attuato dal legislatore ordinario, non compete alla Regione paralizzare le scelte di tutela compiute dai competenti organi statali.
Ne consegue che l’imposizione del vincolo è stata disposta “nelle more della redazione del piano paesaggistico” non perché quest’ultimo sia destinato ad incidere su tale scelta, ma, più semplicemente, perché la finalità di conservazione non è stata di fatto ancora perseguita dallo Stato in occasione dell’approvazione dello strumento di pianificazione, fermo restando che è rimessa alla discrezionalità dell’organo statale competente optare per tale soluzione, ovvero procedere unilateralmente.
In quest’ultimo caso, poi, non è affatto necessario, come invece sostiene la ricorrente, che vi siano ragioni di urgenza. L’art. 138, comma 3, cod. beni culturali riflette, come si è visto, l’esercizio di una competenza costituzionale propria dello Stato, che quest’ultimo, secondo la logica incrementale delle tutele, può esercitare senza alcun condizionamento legato a fattori temporali o contingenti, ovvero alla sfera di competenza regionale.
11.– Il ricorso è perciò privo di fondamento.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara che spettava allo Stato, e per esso al Direttore generale della direzione generale archeologia, belle arti e paesaggio del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, adottare il decreto 5 dicembre 2019, n. 1676, recante «Dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’area alpina compresa tra il Comelico e la Val d’Ansiei, Comuni di Auronzo di Cadore, Danta di Cadore, Santo Stefano di Cadore, San Pietro di Cadore, San Nicolò di Comelico e Comelico Superiore».