Non basta limitarsi ad invocare che dalla contabilità dello studio legale non emergono versamenti, essendo dunque fondata la doglianza dell'Agenzia delle Entrate che si basa su varie sentenze da cui risultava che gli avvocati erano stati difensori.
La vicenda giudiziaria inizia con l'emissione nei confronti di uno studio legale associato di un avviso di accertamento con cui erano stati individuati maggiori redditi da lavoro autonomo ed un maggior volume di affari. Tali risultati erano stati oggetto di un contraddittorio preventivo dove gli associati non erano stati in grado di giustificare la mancata corresponsione dei compensi, limitandosi a rilevare che dalla contabilità non emergeva alcuna corresponsione degli stessi, oltre al fatto che non era stato svolto alcun accertamento sui conti.
Tanto in primo grado di giudizio quanto in secondo, gli atti impositivi venivano ritenuti illegittimi, dunque l'Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione, lamentando il fatto che gli atti costituivano rettifiche analitico-induttive fondate sulle varie difese promosse dai legali, le quali erano state desunte dalle sentenze acquisite negli uffici giudiziari.
Con l'ordinanza n. 24255 del 9 settembre 2021, la Suprema Corte accoglie il ricorso, evidenziando che «il fatto che non risultasse dalla contabilità il versamento di alcun compenso è irrilevante nel presente giudizio visto che tale tipo di accertamento in rettifica della dichiarazione prescinde dalla contabilità, anche se formalmente regolare, basandosi invece su presunzioni assistite dai requisiti previsti dall'
A tal proposito, gli Ermellini richiamano l'orientamento di legittimità secondo cui in materia di imposte sui redditi, «il corrispettivo della prestazione del professionista legale e la relativa spesa si considerano rispettivamente conseguiti e sostenuti quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell'esaurimento o della cessazione dell'incarico professionale». Di conseguenza, spetta al contribuente l'onere di provare l'insussistenza di tali ricavi, ponendo l'accendo su quei fattori che avevano impedito o erano stati comunque idonei ad impedire l'incasso dei compensi.
Non avendo il Giudice di seconde cure precisato il motivo per cui non dovesse considerarsi una presunzione idonea il fatto del pagamento del compenso per l'attività professionale portata a termine, oltre ad avere ritenuto necessari altri riscontri probatori attraverso accertamenti bancari, la Corte dichiara fondata la doglianza dell'Agenzia delle Entrate.
Svolgimento del processo
La vicenda giudiziaria trae origine dall'avviso di accertamento n. (omissis) per l'anno di imposta 2005 emesso nei confronti dello Studio legale P. associazione professionale, con cui erano individuati maggiori redditi da lavoro autonomo ed un maggiore volume d'affari, da cui scaturiva una maggiore pretesa fiscale ai fini irap ed iva, nonchè l'applicazione delle relative sanzioni.
La commissione provinciale di Frosinone, a seguito del ricorso del contribuente Studio Professionale P., annullava l'accertamento.
A seguito di appello dell'Agenzia delle entrate, la Ctr del Lazio (sentenza n. 530/39/13) confermava la decisione di primo grado.
Propone ricorso per cassazione l'Agenzia delle entrate, che si affida ad un solo motivo così rubricato: "Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, e art. 39, comma 1, lett. D, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, in combinato disposto con gli artt. 2697 e 2729 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.." Si costituisce con controricorso l'associazione professionale, che in primis rileva la mancanza di doglianze della Agenzia circa la deducibilità delle spese postali e per i carburanti, ed in ordine al motivo inerente ai soli ricavi ne chiede il rigetto.
Tale associazione professionale presenta anche memoria ex art. 380 bis-1 c.p.c..
In relazione all'accertamento effettuato nei confronti dello Studio professionale P., l'Agenzia delle entrate provvedeva a recuperare la maggiore pretesa irpef nei confronti dei due associati P.D. (accertamento n. (omissis)) e P.F. (RC (omissis)) in proporzione alla loro partecipazione alla associazione.
A seguito del ricorso di P.F., la Commissione provinciale di Frosinone annullava l'accertamento.
A seguito di appello proposto dalla Agenzia delle entrate, la CTR del Lazio confermava la decisione di primo grado (sentenza n. 531/39/13).
L'Agenzia delle entrate impugna tale decisione con un motivo perfettamente sovrapponibile a quello proposto avverso quella inerente l'associazione professionale.
Si costituisce il contribuente chiedendo il rigetto del gravame con controricorso illustrato con memoria.
Anche P.D. proponeva ricorso contro l'accertamento e in sede di appello la Ctr del Lazio dichiarava deducibili le spese carburante e manutenzione solo nella misura del 50%, confermando nel resto la decisione impugnata che aveva annullato l'accertamento. Propone ricorso per Cassazione l'Agenzia delle entrate con rifermento al maggior reddito accertato, con motivo analogo a quello già proposto nei confronti della associazione e dell'altro socio.
Si costituiscono con controricorso, illustrato con memoria, gli eredi di P.D. nonchè di D.V.A., e cioè P.F., P.M. e P.S., chiedendo il rigetto del ricorso principale e proponendo altresì ricorso incidentale in quanto le spese di manutenzione e per carburante erano state già dedotte al 50 % dalla associazione professionale.
Motivi della decisione
Il collegio in via preliminare, essendovi evidenti ragioni di connessione oggettiva e soggettiva, dispone la riunione dei procedimenti, in quanto l'accertamento fiscale nei confronti della associazione, priva di personalità giuridica, riverbera i suoi effetti sui redditi dei singoli associati. In tal modo la Corte intende aderire al principio giurisprudenziale, formatosi in sede di litisconsorzio relativo al caso di accertamento emesso nei confronti di società di persone, che poi per trasparenza coinvolge anche i singoli soci. In particolare nel processo di cassazione, come affermato, tra altre, da Cass. n. 29843 del 2017, "in presenza di cause decise separatamente nel merito e relative, rispettivamente, alla rettifica del reddito di una società di persone ed alla conseguente automatica imputazione dei redditi stessi a ciascun socio, non va dichiarata la nullità per essere stati i giudizi celebrati senza la partecipazione di tutti i litisconsorti necessari (società e soci) in violazione del principio del contraddittorio, ma va disposta la riunione quando la complessiva fattispecie, oltre che dalla piena consapevolezza di ciascuna parte processuale dell'esistenza e del contenuto dell'atto impositivo notificato alle altre parti e delle difese processuali svolte dalle stesse, sia caratterizzata da: 1) identità oggettiva quanto a "causa petendi" dei ricorsi; 2) simultanea proposizione degli stessi avverso il sostanzialmente unitario avviso di accertamento costituente il fondamento della rettifica delle dichiarazioni sia della società che di tutti i suoi soci e, quindi, identità di difese; 3) simultanea trattazione degli afferenti processi innanzi ad entrambi i giudici del merito; 4) identità sostanziale delle decisioni adottate da tali giudici. In tal caso, la ricomposizione dell'unicità della causa attua il diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall'art. 111 Cost., comma 2, e dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, art. 6 e 13), evitando che con la (altrimenti necessaria) declaratoria di nullità ed il conseguente rinvio al giudice di merito, si determini un inutile dispendio di energie processuali per conseguire l'osservanza di formalità superflue, perchè non giustificate dalla necessità di salvaguardare il rispetto effettivo del principio del contraddittorio.
Va aggiunto, quanto al ricorso n. 24291/16, che la statuizione della CTR di rigetto dell'eccezione di violazione del litisconsorzio necessario non è stata oggetto di impugnazione in questa sede e pertanto su di essa si è formato il giudicato interno.
Ciò detto va anche rilevato che, con le sentenze emesse in appello con riguardo all'associazione e al socio P.F., era stato affermato che correttamente la associazione professionale aveva portato in detrazione sia le spese postali che quelle inerenti al carburante e alla manutenzione.
Tale capo delle sentenze non è stato in alcun modo impugnato dalla Agenzia delle entrate ed è quindi ormai irrevocabile e non può non produrre effetti favorevoli anche nei confronti dell'altro socio P.D., e per esso degli eredi, i quali pertanto non hanno interesse all'esame del ricorso incidentale concernente la detraibilità delle suddette spese, che è quindi inammissibile.
Pertanto occorre solo esaminare l'unico motivo del ricorso in cassazione proposto dalla Agenzia delle entrate circa i maggiori ricavi accertati, quali compensi professionali non dichiarati, proposto, in modo perfettamente sovrapponibile, in tutti e tre i ricorsi avverso le distinte decisioni pronunciate dalla Ctr in sede di appello da parte dell'Agenzia delle entrate.
In particolare l'Agenzia deduce che l'accertamento, nella parte relativa ai maggiori ricavi, si basava su acquisizioni di sentenze presso vari uffici giudiziari, da cui emergeva che lo studio professionale aveva patrocinato varie difese, il che alla luce del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d, consentiva la rettifica analitica induttiva. Aggiunge che i risultati dell'accertamento erano stati oggetto di contraddittorio preventivo senza che gli associati fossero stati in grado di giustificare la mancata corresponsione dei compensi.
Il motivo, oltre che ammissibile in quanto, contrariamente a quanto eccepito nei controricorsi, è sufficientemente specifico ed autosufficiente, è anche fondato.
Invero, il fatto che non risultasse dalla contabilità il versamento di alcun compenso è irrilevante nel presente giudizio visto che tale tipo di accertamento in rettifica della dichiarazione prescinde dalla contabilità, anche se formalmente regolare, basandosi invece su presunzioni assistite dai requisiti previsti dall'art. 2729 c.c..
A tal proposito, va osservato che secondo l'orientamento di questa Suprema Corte (Cass. civ., Sez. V, 11 agosto 2016, n. 16969) "In tema d'imposte sui redditi, il corrispettivo della prestazione del professionista legale e la relativa spesa si considerano rispettivamente conseguiti e sostenuti quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell'esaurimento o della cessazione dell'incarico professionale".
Ne consegue, pertanto, che il corrispettivo della prestazione del professionista legale si debba presumere conseguito quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell'esaurimento o della cessazione dell'incarico professionale. Nel caso la prestazione professionale risulta proprio dalle sentenze acquisite.
La pronuncia censurata, pertanto, è viziata per violazione di legge per avere ritenuto che i compensi non risultavano effettuati.
Il fatto che l'Ufficio abbia utilizzato una presunzione per individuare il momento della effettiva percezione del reddito è legittimo, in quanto conforme al criterio generale posto dall'art. 2727 c.c..
In altri termini, in virtù della prova indiziaria suddetta era onere del contribuente dare la prova dell'insussistenza di tali ricavi, senza che ciò comportasse l'onere di fornire una prova negativa, giacchè può parlarsi di prova negativa solo quando taluno per far valere un diritto fosse tenuto a dimostrare non solo i fatti costitutivi ma altresì la inesistenza di fatti estintivi. Non è certo questa la situazione del caso di specie. Qui l'Amministrazione ha fondato la pretesa fiscale su di una prova per presunzione ed il contribuente, per resistere, avrebbe dovuto contrastare tale prova e quindi, a questo fine, aveva l'onere di dimostrare di non aver percepito alcun reddito, per esempio producendo diffida ad adempiere o richieste di decreto ingiuntivo, o provare l'infruttuosità della esecuzione. In particolare era onere del contribuente dimostrare la esistenza di fattori che avevano impedito o che comunque erano stati idonei ad impedire l'incasso dei compensi. Nè vale obiettare che non risulta emessa la fattura, in quanto nel caso l'ufficio assume che il compenso vi sia stato e quindi appare ragionevole ritenere che tale fattura non sia stata emessa al fine proprio di sottrarsi al pagamento delle imposte.
Pertanto, la doglianza della Agenzia è fondata non avendo la Ctr precisato perchè non dovesse considerarsi idonea presunzione il fatto del pagamento del compenso per attività professionale portata a termine, ed avendo ritenuto necessari ulteriori riscontri probatori mediante accertamenti bancari.
In conclusione, in accoglimento dei ricorsi riuniti, le sentenze impugnate vanno cassate con rinvio alla Ctr del Lazio, in diversa composizione, che svolgerà un nuovo esame attenendosi alla motivazione suddetta.
P.Q.M.
La Corte riunisce al ricorso n. 27783/2014 i ricorsi n. 27959/2014 e n. 24291/16 e li accoglie; cassa le sentenze impugnate con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, che provvederà anche in ordine alle spese processuali di questo grado.
Dichiara inammissibile per carenza di interesse il ricorso incidentale degli eredi di P.D..
Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti incidentali, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso incidentale, se dovuto.