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10 settembre 2021
Avvocato non prova il mancato incasso del compenso: ok alla rettifica di maggiori ricavi

Non basta limitarsi ad invocare che dalla contabilità dello studio legale non emergono versamenti, essendo dunque fondata la doglianza dell'Agenzia delle Entrate che si basa su varie sentenze da cui risultava che gli avvocati erano stati difensori.

La Redazione

La vicenda giudiziaria inizia con l'emissione nei confronti di uno studio legale associato di un avviso di accertamento con cui erano stati individuati maggiori redditi da lavoro autonomo ed un maggior volume di affari. Tali risultati erano stati oggetto di un contraddittorio preventivo dove gli associati non erano stati in grado di giustificare la mancata corresponsione dei compensi, limitandosi a rilevare che dalla contabilità non emergeva alcuna corresponsione degli stessi, oltre al fatto che non era stato svolto alcun accertamento sui conti.
Tanto in primo grado di giudizio quanto in secondo, gli atti impositivi venivano ritenuti illegittimi, dunque l'Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione, lamentando il fatto che gli atti costituivano rettifiche analitico-induttive fondate sulle varie difese promosse dai legali, le quali erano state desunte dalle sentenze acquisite negli uffici giudiziari.

Con l'ordinanza n. 24255 del 9 settembre 2021, la Suprema Corte accoglie il ricorso, evidenziando che «il fatto che non risultasse dalla contabilità il versamento di alcun compenso è irrilevante nel presente giudizio visto che tale tipo di accertamento in rettifica della dichiarazione prescinde dalla contabilità, anche se formalmente regolare, basandosi invece su presunzioni assistite dai requisiti previsti dall'art. 2729 c.c.».
A tal proposito, gli Ermellini richiamano l'orientamento di legittimità secondo cui in materia di imposte sui redditi, «il corrispettivo della prestazione del professionista legale e la relativa spesa si considerano rispettivamente conseguiti e sostenuti quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell'esaurimento o della cessazione dell'incarico professionale». Di conseguenza, spetta al contribuente l'onere di provare l'insussistenza di tali ricavi, ponendo l'accendo su quei fattori che avevano impedito o erano stati comunque idonei ad impedire l'incasso dei compensi.
Non avendo il Giudice di seconde cure precisato il motivo per cui non dovesse considerarsi una presunzione idonea il fatto del pagamento del compenso per l'attività professionale portata a termine, oltre ad avere ritenuto necessari altri riscontri probatori attraverso accertamenti bancari, la Corte dichiara fondata la doglianza dell'Agenzia delle Entrate.

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