
L'art. 3 della Convenzione di Istanbul del 2011 rientra nell'ambito di tutela delle violenze endofamiliari, poiché la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica possono essere riconducibili a trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell'art. 14, lett. b), d. lgs. n. 251/2007 ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria.
La Corte d'Appello di Venezia rigettava l'impugnazione proposta da un cittadino del Ghana contro l'ordinanza di primo grado che aveva respinto le sue domande di protezione internazionale e umanitaria. Alla base della decisione vi era la ritenuta non credibilità della vicenda personale del richiedente, dunque quest'ultimo si rivolgeva alla Suprema Corte.
Con...
Svolgimento del processo
1. con sentenza 9 settembre 2019, la Corte d'appello di Venezia rigettava l'appello di K.A. (alias A.), cittadino ghanese, avverso l'ordinanza di primo grado, ai sensi dell'art. 702 bis c.p.c., di reiezione delle sue domande di protezione internazionale e umanitaria;
2. così come il Tribunale, essa riteneva non credibile la vicenda personale del richiedente, per genericità e inverosimiglianza della vicenda narrata (abbandono del Ghana per le minacce di morte dei familiari al suo rifiuto, in quanto di fede cattolica, di sostituire il padre, una volta deceduto, nel culto idolatrico di kum Wwotanfo, che significa "uccidi il tuo nemico"; con arrivo in Italia, attraverso la Libia, dopo aver raggiunto il Niger, aiutato da un camionista incontrato nella foresta, che gli aveva offerto un passaggio fin là);
3. in assenza di allegazione nè specifica nè obiettivamente riscontrata, secondo il paradigma del D.lgs. n. 251 del 2007, art. 3, la Corte territoriale escludeva la ricorrenza dei presupposti della protezione sussidiaria, pure negando, sulla base di fonti internazionali ufficiali indicate, l'esistenza nel Paese di provenienza di un concreto pericolo per la popolazione civile, non attinto dalla pur critica situazione di tutela dei diritti fondamentali per alcune categorie di persone (quali: donne, minori, detenuti e omosessuali), peraltro estranee alla condizione del richiedente; essa non ravvisava neppure i requisiti di concessione della protezione umanitaria, non ritenendo credibile il richiedente, nè particolarmente integrato in Italia, prestando una sporadica attività lavorativa, comunque in assenza di una generalizzata compromissione dei diritti fondamentali in Ghana, in via comparativa;
4. con atto notificato il 15 gennaio 2020, lo straniero ricorreva per cassazione con due motivi, illustrati da memoria ai sensi dell'art. 308 bis.1 c.p.c.; il Ministero dell'Interno intimato non resisteva con controricorso, ma depositava atto di costituzione ai fini della eventuale partecipazione all'udienza di discussione ai sensi dell'art. 370 c.p.c., comma 1, ult. alinea, cui non faceva seguito alcuna attività difensiva.
Motivi della decisione
1. il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. da 2 a 6, 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, artt. 2, 3 CEDU, per essere il rigetto della propria domanda fondato sulla non credibilità della vicenda e per inesistenza dei criteri prescritti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, in riferimento all'onere di allegazione, oltre che per il mancato collegamento della sua situazione di pericolo ad alcuna delle ipotesi giustificanti l'adozione di una misura di protezione internazionale: in totale assenza dell'obbligo giudiziale di cooperazione istruttoria, mediante assunzione di informazioni ufficiali sulla condizione cultuale dei villaggi in Ghana, sulla tolleranza familiare delle pratiche religiose diverse dalle tradizionali e sulla protezione dalle forze di polizia in caso di violenze e minacce di morte per tali ragioni (primo motivo);
2. esso è fondato;
3. la valutazione di credibilità del richiedente deve essere sempre frutto di una valutazione complessiva di tutti gli elementi e non può essere motivata soltanto con riferimento ad elementi isolati e secondari o addirittura insussistenti, quando invece venga trascurato un profilo decisivo e centrale del racconto (Cass. 8 giugno 2020, n. 10908); sicchè, prima di pronunciare il proprio giudizio sulla sussistenza dei presupposti per la concessione della protezione, il giudice deve osservare l'obbligo di compiere le valutazioni di coerenza e plausibilità delle dichiarazioni del richiedente, non già in base alla propria opinione, ma secondo la procedimentalizzazione legale della decisione sulla base dei criteri indicati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (Cass. 11 marzo 2020, n. 6897; Cass. 6 luglio 2020, n. 13944; Cass. 9 luglio 2020, n. 14674);
3.1. nell'ambito di una tale valutazione procedimentalizzata è centrale l'esame delle dichiarazioni rese dal richiedente (in particolare: D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. b), riscontrate da "tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese d'origine al momento della domanda" (art. 3, comma 3, lett. a D.Lgs. cit.): così integrando errore di diritto, correttamente denunciato, l'esame parziale del racconto (riportato all'ultimo capoverso di pg. 3 della sentenza), che la Corte territoriale ha superficialmente ritenuto non credibile, in base ad elementi marginali neppure calibrati sul peculiare contesto del Paese di provenienza (dal terzo al quinto capoverso di pg. 4 della sentenza);
3.2. al di là della verifica sulla situazione della sicurezza del Ghana, sotto il profilo generale di sussistenza o meno di una condizione di violenza indiscriminata e di compromissione dei diritti fondamentali (pure sulla base di fonti neppure tutte accreditate per ufficialità nè aggiornate: indicate a pgg. 7 e 8 della sentenza), la Corte veneziana non ha operato alcun approfondimento istruttorio, tramite acquisizione di specifiche informazioni ufficiali, come invece sarebbe stato suo obbligo (Cass. 10 maggio 2011, n. 10202; Cass. 14 novembre 2017, n. 26921; Cass. 25 luglio 2018, n. 19716), in ordine alla situazione di tutela dei diritti di professione religiosa dei villaggi in Ghana, diversi dalle tradizioni cultuali di origine tribale e di trasmissione familiare, rispetto alla tolleranza nell'ambito familiare, da parte delle forze di polizia in caso di violenze e minacce di morte per tali ragioni: in tema di protezione internazionale, il riconoscimento dello status di rifugiato o la protezione sussidiaria non possono, infatti, essere negati solo perchè i responsabili del danno grave per il cittadino straniero siano soggetti privati, qualora nel paese d'origine non vi sia un'autorità statale in grado di fornire a costui adeguata ed effettiva tutela; senza neppure una decisiva rilevanza del fatto che il richiedente non si sia rivolto alle autorità locali o statuali per invocare tutela, potendo tale scelta derivare, in concreto, proprio dal timore di essere assoggettato ad ulteriori trattamenti persecutori o umanamente degradanti (Cass. 8 novembre 2019, n. 28974; Cass. 6 maggio 2020, n. 8573; Cass. 16 dicembre 2020, n. 28779, in specifico riferimento al carattere endofamiliare delle reiterate minacce e percosse inflitte al richiedente a causa del suo credo religioso);
3.3. giova pure ribadire l'orientamento di questa Corte che annovera nell'ambito di tutela delle violenze endofamiliari, oltre che strettamente domestiche (Cass. 9 marzo 2020, n. 6573; Cass. 11 marzo 2020, n. 6879) l'art. 3 della Convenzione di Istanbul dell'11 maggio 2011 sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, in quanto riconducibili ai trattamenti inumani o degradanti considerati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, sicchè è onere del giudice verificare in concreto se, pur in presenza di minaccia di un danno grave ad opera di un "soggetto non statuale", ai sensi dell'art. 5, lett. c), del decreto citato, lo Stato di origine sia in grado di offrire alla donna adeguata protezione; e ciò quali limitazioni al godimento dei diritti umani fondamentali, suscettibili di integrare i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria detta, in termini di rischio effettivo di "danno grave" per "trattamento inumano o degradante", qualora risulti che le autorità statuali non contrastino tali condotte o non forniscano protezione contro di esse, essendo frutto di regole consuetudinarie locali (Cass. 17 maggio 2017, n. 12333; Cass. 21 ottobre 2020, n. 230179; Cass. 21 ottobre 2020, n. 23017);
4. il ricorrente deduce poi violazione o falsa applicazione dell'art. 14 Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, art. 10 Cost., D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5, 19, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, per il mancato riscontro, ai fini della protezione umanitaria, della propria situazione di vulnerabilità soggettiva nell'inattendibilità della vicenda narrata e della compromissione del nucleo fondamentale dei diritti inviolabili in caso di rimpatrio, senza alcuna valorizzazione del percorso di integrazione sociale in Italia, attraverso l'apprendimento della lingua e l'attività lavorativa svolta e tuttora praticata nel settore agricolo alle dipendenze di una ditta specificamente indicata (secondo motivo);
5. esso è assorbito;
6. pertanto il primo motivo di ricorso deve essere accolto, con assorbimento del secondo, la cassazione della sentenza impugnata e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d'appello di Venezia in diversa composizione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d'appello di Venezia in diversa composizione.