Tre e-mails e un post su Facebook dal contenuto gravemente offensivo nei confronti delle dirette superiori e dei vertici aziendali costano caro al lavoratore, integrando tali condotte una grave insubordinazione tale da condurre al suo licenziamento.
La Corte d'Appello di Roma rigettava il reclamo proposto dal lavoratore contro la sentenza di primo grado con la quale il Giudice aveva respinto l'impugnazione del suo licenziamento per giusta causa intimato dal datore di lavoro. La decisione della Corte ribadiva il contenuto particolarmente offensivo nei confronti delle dirette superiori del ricorrente, nonché dei vertici...
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 27 novembre 2018, la Corte d'appello di Roma rigettava il reclamo di R. V. avverso la sentenza di primo grado, di reiezione, in esito a rito Fornero, della sua impugnazione del licenziamento, per giusta causa "ai sensi dell'art. 2119 c. c.. e dell'art. 48, lett. B del vigente CCNL", intimatogli dalla datrice T. s.p.a. il 23 novembre 2016, così come già disposto dallo stesso Tribunale con ordinanza, tempestivamente opposta dal lavoratore, a norma dell'art. 1, comma 51 I. 92/2012.
2. In esito a critico e argomentato scrutinio delle risultanze documentali, la Corte territoriale ribadiva il contenuto gravemente offensivo e sprezzante nei confronti delle sue dirette superiori e degli stessi vertici aziendali delle comunicazioni del lavoratore, a mezzo di tre e-mails e del messaggio sul suo profilo Facebook dell'ottobre 2016 (quest'ultimo legittimamente acquisibile, in quanto non assistito da segretezza per la sua conoscibilità anche da terzi), non disconosciute, integranti insubordinazione grave, a norma della previsione contrattuale collettiva e comunque giusta causa di licenziamento, per il loro carattere plurioffensivo e tale da precludere la proseguibilità del rapporto, per l'elisione del legame di fiducia tra le parti, anche considerato il ruolo aziendale del predetto (account manager, per la gestione della comunicazione pubblicitaria nazionale ad uso locale: insegne della grande distribuzione, eventi, promozione locale dei negozi TIM).
3. Con atto notificato il 24 gennaio 2019, il lavoratore ricorreva per cassazione con quattro motivi, cui la società resisteva con controricorso e memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.
4. Il P.G. rassegnava conclusioni scritte, a norma dell'art. 23, comma 8bis c. c..
137/20 inserito dal. conv. 176/20, nel senso del rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, quale il contesto lavorativo e l'evoluzione dei rapporti aziendali, comportanti la maturazione delle comunicazioni via mail e la pubblicazione del post sul profilo Facebook del lavoratore.
2. Esso è inammissibile.
3. In disparte l'insussistenza di un fatto storico omesso nell'esame, trattandosi piuttosto di una valutazione, insindacabile in quanto congruamente argomentata, con esame della circostanza (dal quart'ultimo al penultimo capoverso di pg. 7 della sentenza), esso non può neppure essere dedotto, a norma dell'art. 348ter, quinto comma c.p.c., applicabile ratione temporis. Nel caso di specie, ricorre infatti l'ipotesi di "doppia conforme" e il lavoratore, per evitare l'inammissibilità del motivo dedotto ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., non ha indicato le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell'appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 22 dicembre 2016, n. 26774; Cass. 6 agosto 2019, n. 20994).
4. Con il secondo, egli deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 15 Cost., 2697 c. c.. anche in relazione all'art. 595 c.p., per illegittima acquisizione dalla società datrice dei posts presenti sulla pagina Facebook del lavoratore, in quanto destinata alla comunicazione esclusiva con i propri "amici" e pertanto riservata, espressiva di una modalità incompatibile con la denigrazione o la diffamazione erroneamente ritenuta, neppure essa avendone dimostrato la diffusione presso terzi: con la conseguente assenza di prova di riferimenti denigratori diretti anche alla società.
5. Esso è infondato.
6. Premessa l'esigenza di tutela della libertà e segretezza dei messaggi scambiati in una chat privata, in quanto diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, pertanto da considerare come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile (Cass. 10 settembre 2018, n. 21965: nella specie, conversazione in chat su Facebook composta unicamente da iscritti ad uno stesso sindacato), nella fattispecie in esame non sussiste una tale esigenza di protezione (e della conseguente illegittimità dell'utilizzazione in funzione probatoria) di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro diffuso su Facebook. Il mezzo utilizzato (pubblicazione dei post sul profilo personale del detto social così secondo il Tribunale, come riportato al terz'ultimo capoverso di pg. 2 e al terz'ultimo di pg. 5 della sentenza impugnata) è, infatti, idoneo (secondo l'accertamento della Corte territoriale, anche recependo dal provvedimento del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 13 giugno 2013 il supporto tecnico di comprensione dell'articolata modulazione dei messaggi su Facebook e della diversa fruibilità esterna a seconda di essa: all'ultimo capoverso di pg. 12 della sentenza), a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone (Cass. 27 aprile 2018, n. 10280, che ha ritenuto tale condotta integrare gli estremi della diffamazione e costituire giusta causa di recesso, siccome idonea a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo).
7. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 48 lett. B), sub a) del CCNL del settore delle telecomunicazioni, anche in relazione all'art. 47, lett. e) e degli artt. 2106, 2119, 2697 c. c.., per l'erronea qualificazione della condotta del lavoratore alla stregua di grave insubordinazione ai superiori, tuttavia ricorrente in caso di inadempimento degli ordini e delle direttive datoriali o dei superiori gerarchici, anziché come alterco, diverbio, aspra critica (come in particolare ritenuto da Cass. 5 maggio 2017, n. 11027), rientrante nell'ipotesi di inosservanza di "una condotta uniformata a principi di correttezza verso i colleghi" o al più di "lieve insubordinazione nei confronti dei superiori", sanzionate in via conservativa.
8. Anch'esso è infondato.
9. È insegnamento di questa Corte che la nozione di insubordinazione debba essere intesa in senso ampio: sicché, nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato, essa non può essere limitata al rifiuto del lavoratore di adempiere alle disposizioni dei superiori (e dunque ancorata, attraverso una lettura letterale, alla violazione dell'art. 2104, secondo comma c. c..), ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l'esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale (Cass. 27 marzo 2017, n. 7795; Cass. 11 maggio 2016, n. 9635; Cass. 2 luglio 1987, n. 5804 e la più recente 19 aprile 2018, n. 9736, in riferimento ad un rapporto di lavoro pubblico).
9.1. Infatti, ciò che conta, ai fini di una corretta individuazione di una condotta di insubordinazione, nel contemperamento dell'interesse del datore di lavoro al regolare funzionamento dell'organizzazione produttiva con la pretesa del lavoratore alla corretta esecuzione del rapporto di lavoro, è il collegamento al sinallagma contrattuale: nel senso della rilevanza dei soli comportamenti suscettibili di incidere sull'esecuzione e sul regolare svolgimento della prestazione, come inserita nell'organizzazione aziendale, sotto il profilo dell'esattezza dell'adempimento (con riferimento al potere direttivo dell'imprenditore), nonché dell'ordine e della disciplina, su cui si basa l'organizzazione complessiva dell'impresa, e dunque con riferimento al potere gerarchico e di disciplina (Cass. 13 settembre 2018, n. 22382). In particolare, la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicarne l'esecuzione nel quadro dell'organizzazione aziendale (giurisprudenza consolidata fin da Cass. 2 luglio 1987, n. 5804, citata): sicché, la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall'obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana riconosciute dall'art. 2 Cost., può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all'organizzazione aziendale, dal momento che l'efficienza di quest'ultima riposa sull'autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi ed essa risente un indubbio pregiudizio allorché il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli (Cass. 11 maggio 2016, n. 9635).
Né una tale nozione deve ritenersi smentita dal precedente di legittimità citato dal ricorrente, in riferimento all'operata distinzione tra "insubordinazione" e "alterco", per la ritenuta inconferenza, nella peculiare fattispecie scrutinata ("episodio avvenuto davanti alla macchinetta del caffè pochi minuti prima dell'inizio del turno ... vale a dire nello stabilimento, ma non durante l'orario di lavoro."), del "rinvio invocato da parte ricorrente a Cass. n. 9635/16 che, in motivazione, ammette che l'insubordinazione possa altresì ravvisarsi nella critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall'obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti": nel caso di specie, per essere il fatto avvenuto al di fuori dell'orario di lavoro, avendo il precedente invocato escluso l'estensione dei vincoli gerarchici tra le persone anche ad un contesto extralavorativo, né "che ad essi debbano essere improntati tutti i rapporti fra loro" (Cass. 5 maggio 2017, n. 11027: così in motivazione, sub p.to 5.).
9.2. La Corte territoriale ha esattamente applicato i su enunciati principi di diritto (esplicitamente richiamati dal secondo all'ultimo capoverso di pg. 11 della sentenza), sulla base di un accertamento in fatto (in esito ad un attento scrutinio delle risultanze documentali: dal penultimo capoverso di pg. 9 al secondo di pg.
10 della sentenza) della ricorrenza nel caso di specie di una condotta di insubordinazione, congruamente argomentato (dal primo periodo al secondo capoverso di pg. 12 e dal terzo al penultimo di pg. 13 della sentenza), pertanto insindacabile in sede di legittimità.
10. Con il quarto, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 48 lett. B) del CCNL di categoria, in relazione agli artt. 2119, 2697 c. c.., 18 I. 300/1970 come modificato dall'art. 1, comma 42 I. 92/2012, per il mancato accertamento dell'esistenza del grave nocumento morale o materiale arrecato dall'insubordinazione del lavoratore, nonostante la sua natura di elemento costitutivo della fattispecie sanzionata, erroneamente invece ritenuto dalla Corte territoriale "insito" nelle azioni compiute dal predetto, con la conseguente inestensibilità di una giusta causa di licenziamento, esclusa dalla previsione di una sanzione conservativa dell'autonomia collettiva.
11. Esso è infondato.
12. Appare evidente la superfluità, nel caso di specie, del denunciato mancato accertamento, una volta che la Corte capitolina abbia (correttamente) qualificato la condotta del lavoratore, in esito al superiore accertamento in fatto, alla stregua di "grave insubordinazione", in quanto esplicitamente sanzionata (art. 48, lett. B), p.to 4, lett. a) dal CCNL di categoria applicabile ratione temporis (al terz'ultimo e penultimo capoverso di pg. 10 della sentenza). Sicché, neppure ricorre una violazione del principio, per il quale, in materia di .licenziamenti disciplinari, nell'ipotesi in cui un comportamento del lavoratore, qualificato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia configurato dal contratto collettivo come infrazione disciplinare cui consegua una sanzione conservativa, il giudice non possa discostarsi da tale previsione (per la condizione di maggior favore fatta espressamente salva dall'art. 12 I. 604/1966), a meno che non accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva (Cass. 7 maggio 2015, n. 9223; Cass. 5 maggio 2017, n. 11027; Cass. 16 maggio 2020, n. 8621; Cass. 10 luglio 2020, n. 14811).
12.1. Ed infatti, la necessità di accertare la sussistenza del grave nocumento morale e materiale si pone qualora esso sia elemento integrante della fattispecie prevista dalle parti sociali come giusta causa di recesso (Cass. 28 settembre 2018, n. 23602), come nell'ipotesi sanzionata con il licenziamento senza preavviso in linea generale dall'art. 48, lett. B), p.to 3 ("In tale provvedimento incorre il lavoratore che provochi all'azienda grave nocumento morale o materiale") e in quella richiamata dal ricorrente, relativa ad una condotta non tipizzata, ma rientrante nella previsione generale per "comportamenti addebitati al lavoratore nelle lettere d'incolpazione ... inserimento nel sito internet, nonché nel profilo Facebook di un'impresa di ristorazione, dei numeri di telefono mobile e di fax assegnati al lavoratore stesso dalla datrice di lavoro attualmente controricorrente; ... avere indicato la detta datrice di lavoro come cliente dell'impresa" (Cass. 13 ottobre 2015, n. 20545, in motivazione).
12.2. Ma la necessità di un tale accertamento non ricorre, quando l'elemento del "grave nocumento morale o materiale" sia già tipizzato dall'autonomia collettiva in alcune condotte (al p.to 4 della lettera B: "A titolo indicativo rientrano nelle infrazioni di cui sopra": ossia generalmente indicate al citato p.to 3), in particolare alla lettera a) ("la grave insubordinazione ai superiori"), come appunto quella in questione.
13. Dalle superiori argomentazioni discende allora il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza e con raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso e condanna il lavoratore alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 6.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.