La polizia giudiziaria riportava nell'annotazione di servizio le dichiarazioni rese dagli indagati colti in flagranza di reato. La Cassazione dichiara l'inammissibilità delle stesse in quanto non verbalizzate né sottoscritte.
Con sentenza n. 37316 del 13 ottobre 2021, la Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi sulla gravità indiziaria dei delitti di detenzione e porto di un'arma clandestina, accertata sulla base delle dichiarazioni rese nell'immediatezza del fatto dagli indagati, i quali, come riportato nell'annotazione di servizio, «non hanno voluto riferire nulla se non che fosse di...
Svolgimento del processo
1. Con il provvedimento impugnato, il Tribunale di Bari, in funzione di tribunale del riesame, ha rigettato la richiesta di riesame proposta nell'interesse di D. U. avverso l'ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Trani in data 14 aprile 2021, con la quale veniva applicata la misura cautelare della custodia in carcere per il concorso, con P. A., nei delitti di detenzione e porto di un'arma clandestina (artt. 110 cod.. pen., 23, terzo e quarto comma, l. n. 110 del 1975 - Capo A) nonché di ricettazione della medesima arma (artt. 110 e 648 cod. pen. - capo B).
1.1. Con concorde valutazione di entrambi i giudici della fase cautelare è stata ritenuta la sussistenza della gravità indiziaria per i sopraindicati delitti, accertati in flagranza, sulla base della relazione di servizio che ha descritto la fase preliminare all'accertamento dei fatti durante la quale è stato notato il passaggio di un involto da P. A. a D. U., del verbale di perquisizione e sequestro dell'arma clandestina e di quanto spontaneamente riferito nell'occasione del controllo da entrambi gli indagati, come risulta annotato negli atti di polizia giudiziaria.
2. Ricorre D. U., a mezzo del difensore avv. F. D:, che chiede l'annullamento dell'ordinanza impugnata, denunciando:
- la violazione della legge processuale, in riferimento agli articoli 191 e 350 cod. proc. pen., e il vizio della motivazione con riguardo all'inutilizzabilità della dichiarazione asseritamente resa dall'indagato in ordine alla comune detenzione dell'arma poiché tali presunte affermazioni non sono state verbalizzate, ma sono state esclusivamente riportate, peraltro in modo generico, nella relazione di servizio, la quale non può essere ritenuta sostitutiva delle spontanee dichiarazioni di cui all'articolo 350, comma 7, cod. proc. pen., mancando inoltre la spontaneità delle dichiarazioni, oltre alla mancata sottoscrizione delle stesse, che non consente di attribuirne la provenienza all'indagato. Del resto, i militari hanno unicamente annotato che «in merito all'arma rinvenuta, perfettamente funzionante, entrambi non hanno voluto riferire nulla se non che fosse di loro pertinenza», elementi del tutto generici dal punto di vista indiziario (primo motivo);
- la violazione di legge, in riferimento alle disposizioni incriminatrici, e il vizio della motivazione con riguardo alla configurabilità del concorso tra il porto e la detenzione dell'arma e del delitto di ricettazione. La detenzione «in comune» dell'arma è stata meramente presunta dall'accertamento relativo al rinvenimento di essa a bordo del veicolo di proprietà e condotto dal cc-indagato, mentre non risulta alcun elemento da cui possa ipotizzarsi l'autonoma o precedente co-detenzione della pistola. Manca ed è illogica la motivazione relativa al concorso nella ricettazione dell'arma, non risultando quando la medesima sia stata acquisita e da chi (secondo motivo);
- il vizio della motivazione con riguardo alla adeguatezza della misura della custodia in carcere a fare fronte alle esigenze cautelari, mancando la motivazione sulla inidoneità dell'abitazione dell'indagato ad apprestare tutela alle ravvisate esigenze, anche sotto il profilo della applicazione del braccialetto elettronico (terzo motivo).
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato sotto il profilo della gravità indiziaria.
1.1. È bene premettere che l'ordinanza impugnata fonda la gravità indiziaria su due concorrenti elementi di prova; essi sono costituiti:
- dalla indicazione, riportata nel verbale cli arresto e perciò ritenuta dotata di fede privilegiata, circa l'atteggiamento assunto dagli occupanti dell'autovettura allorquando, affiancata dal veicolo civetta a bordo del quale si trovavano i carabinieri, è stato notato «chiaramente» il passaggio di una busta di cellophane di colore bianco dal conducente del veicolo P. A. al passeggero D. U. che, chinandosi in avanti, lo occultava sotto il proprio sedile; luogo ove l'arma è stata poi rinvenuta custodita nel sacchetto di plastica dalle dichiarazioni rese nell'immediatezza del fatto dagli indagati i quali,
come riportato nell'annotazione di servizio, in merito all'arma «non hanno voluto riferire nulla se non che fosse di loro pertinenza».
2. Ebbene - tralasciando la questione dell'attribuzione di valore probatorio fidefacente a quanto annotato dai pubblici ufficiali in merito a ciò che gli stessi hanno visivamente percepito, poiché non esiste alcuna prova legale cui attribuire una presuntiva veridicità (Sez. 6, n. 1361 del 04/12/2018 - dep. 2019, Z., Rv. 274839), sicché tale elemento di prova esplica un valore analogo all'altro, seppure risulta dotato di una particolare autorevolezza per la fonte da cui proviene il venire meno dell'elemento di prova costituito dalle dichiarazioni indizianti rese dagli indagati, alle quali il Tribunale ha attribuito un concorrente valore indiziario unitamente alla relazione di servizio relativa a quanto visivamente percepito dai carabinieri, determina la necessità che il tribunale del riesame proceda a nuova valutazione degli elementi di prova utilizzabili allo scopo di verificare se, sulla rinnovata disamina di essi nella fase cautelare,. possa dirsi ugualmente sussistente il quadro di gravità indiziaria.
Del resto, in sede di udienza di convalida, soltanto il co-indagato P. A. si è assunto la responsabilità dell'arma sequestrata sul suo veicolo, escludendo recisamente che D. U. abbia saputo o avuto una qualche parte nella vicenda.
3. È, infatti, fondato il motivo di ricorso circa la utilizzabilità delle dichiarazioni apparentemente rese dagli indagati alla polizia giudiziaria, che sono state oggetto di annotazione nell'atto a firma degli agenti operanti, ma non autonomamente verbalizzate quali dichiarazioni spontaneamente rese dalla persona nei cui confronti sono svolte le indagini a norma dell'articolo 350, comma 7, cod. proc. pen., né, del resto, sono state sottoscritte dai medesimi incolpati.
Piuttosto, come si è detto, agli atti esiste soltanto, elemento che il Tribunale ha omesso di valutare, la dichiarazione resa al GIP dal ca-indagato P. A. che, nell'assumersi la responsabilità del fatto, ha fermamente escluso quella di D. U..
3.1. Il provvedimento impugnato è affetto dal denunciato errore di diritto perché - pur tralasciando l'erronea citazione di un precedente giurisprudenziale (Sez. 4, n. 2124 del 27/10/2020 - dep. :2021, M., Rv. 280242) che, contrariamente a quanto ritenuto dal tribunale del riesame, fa espresso riferimento alla utilizzabilità delle dichiarazioni soltanto là dove verbalizzate ai sensi dell'art. 350, comma 7, cod. proc. pen. - costituisce principio giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, quello secondo il quale «sono inutilizzabili le dichiarazioni non verbalizzate né sottoscritte, rese dall'indagato alla polizia giudiziaria e da questa riportate in un'annotazione redatta ai sensi dell'art. 357, comma 1, cod. proc. pen.» (Sez. 6, n. 56995 del 06/11/2017, R., Rv. 271747). Deve, infatti, essere ribadita la necessità, alla luce delle garanzie che l'ordinamento costituzionale, sovranazionale e processuale riconosce al cittadino, di operare una restrittiva interpretazione delle ipotesi nelle quali le dichiarazioni dell'indagato possono essere utilizzate nei suoi confronti.
La Corte Costituzionale, con sentenza n. :Z37 del 1993, ha da tempo chiarito che il divieto stabilito dall'art. 62 cod. proc. pen., col prevedere che «le dichiarazioni comunque rese nel corso del procedimento dall'imputato o dalla persona sottoposta alle indagini non possono formare oggetto di testimonianza», non è affatto assoluto ed illimitato.
Come anche la giurisprudenza di legittimità ha chiarito, esso opera infatti solo con riferimento a dichiarazioni rese «nel procedimento» e non genericamente «in pendenza del procedimento», e pertanto, ai fini dell'applicabilità della norma, mentre il discrimine temporale della iscrizione della notizia di reato - o del nome della persona cui il reato è attribuito - nel registro di cui all'art. 335 cod. proc. pen. non assume di per sé alcun rilievo, occorre pur sempre accertare (ed è questo che essenzialmente rileva) che le dichiarazioni di cui si discute siano state rese (spontaneamente) in occasione del compimento di ciò che debba comunque qualificarsi come un (qualsiasi) atto del procedimento.
Così circoscritti i limiti entro cui può operare la disposizione derogatoria del generale divieto di utilizzo delle dichiarazioni altrimenti rese dall'indagato alla polizia giudiziaria, è quindi da escludersi che la norma sia viziata da irragionevolezza o da eccesso di delega, in quanto, posta com'è a tutela della esigenza che le dichiarazioni dell'imputato giungano a conoscenza del giudice attraverso l'esclusivo veicolo della documentazione formale con le garanzie a questa connesse, essa trae origine dalla direttiva dell'art. 2, n. 31 della legge n. 81 del 1987, che vieta l'utilizzazione «agli effetti del giudizio, anche attraverso la testimonianza della polizia giudiziaria, delle dichiarazioni rese senza l'assistenza della difesa», anche se raccolte sul luogo e nell'immediatezza del fatto, e trova fondamento nel principio (direttiva n. 33) che impone alla polizia giudiziaria di compilare verbali o comunque di documentare l'attività compiuta.
È perciò evidente che, in mancanza di documentazione da parte della polizia giudiziaria dell'attività compiuta e delle dichiarazioni rese dall'indagato, non si pone neppure la questione dell'esistenza di tali presunte dichiarazioni dell'indagato, sulle quali ricade comunque la scure del divieto di testimonianza che non può essere surrettiziamente aggirato da una annotazione di servizio che riporti quanto, in difetto di verbalizzazione, sia stato asseritamente dichiarato, nonché l'espresso e assoluto divieto di utilizzabilità ex art. 64, comma 3-bis, primo periodo. cod. proc. pen. delle dichiarazioni eventualmente rese senza gli avvisi di cui all'art. 64, comma 3, lett. a) e b), cod. proc. pen., divieto che non riguarda soltanto l'utilizzo dibattimentale, ma attiene piuttosto alla radicale inutilizzabilità della dichiarazione nell'ambito del procedimento.
Del resto, la previsione contenuta nell'art. 350, comma 7, cod. proc. pen., diversamente dalla raccolta di sommarie informazioni, prevista dal comma 1 del medesimo articolo, che richiede la necessaria presenza del difensore e il rispetto delle modalità previste dall'art. 64 cod. proc. pen., si pone come eccezione al generale divieto di utilizzo dibattimentale soltanto nel caso in cui le dichiarazioni siano spontaneamente ricevute e documentate nelle forme di legge, perché, diversamente, opera il generale divieto di documentazione e utilizzazione previsto dal comma 6 per le notizie e indicazioni utili esclusivamente ai fini della immediata prosecuzione delle indagini indicate al comma 5 del medesimo articolo (Corte costituzionale, sentenza n. 259 del 1991).
3.2. In conclusione, a fronte del generale divieto di utilizzare le dichiarazioni rese dall'indagato senza le garanzie di cui all'art. 64 cod. proc. pen., è consentita unicamente l'utilizzazione delle dichiarazioni rese in presenza del difensore con le menzionate modalità, nonché l'utilizzazione procedimentale (e dibattimentale nei limiti dell'art. 503, comma 3, cod. proc. pen.. ) delle spontanee dichiarazioni che siano state oggetto di verbalizzazione da parte della polizia giudiziaria a norma dell'art. 357, comma 2, cod. proc. pen.
Da ciò deriva che ogni diversa notizia o informazione che l'indagato abbia reso alla polizia giudiziaria ricade sotto la più grave sanzione del divieto di documentazione e utilizzazione prevista dall'art. 350, comma 6, cod. proc. pen.
4. Più in generale, il problema delle violazioni eventualmente commesse nell'attività investigativa non può non tenere conto dell'art. 191 cod. proc. pen. che rappresenta la consacrazione e l'estensione delle affermazioni contenute nella sentenza n. 34 del 1973 della Corte Costituzionale, tanto che nella relazione ministeriale alla detta norma si evoca proprio tale importante pronuncia (si veda, diffusamente, Sez. U, n. 36747 del 28/05/2003, T., Rv. 225469).
Il richiamato articolo, infatti, àncora, in via generale, la sanzione dell'inutilizzabilità alla violazione dei divieti stabiliti dalla legge, superando così l'antica tesi che si basava su di una sorta dii autonomia del diritto processuale penale in relazione ai vizi della prova, che quindi possono trovare la loro fonte in tutto il corpus normativo a livello di legge ordinaria o superiore (hanno ritenuto l'inutilizzabilità di prove c.d. incostituzionali: Sez. U., n. 11 del 25/03/1998, M., Rv. 210610; Sez. U., n. 21 del 13/07/1998, G., Rv. 211196; Sez. U., n. 6 del 23/02/2000, D., Rv. 215841).
4.1. Di fronte ad una previsione normativa così perentoria e radicale, è evidente che la palese violazione dello schema legale rende l'atto investigativo, che si pone al di fuori di tale schema, infruttuoso sul piano probatorio, per violazione della legge processuale.
Né vanno sottaciute specifiche norme processuali, correlate alla detta prescrizione generale, che prevedono divieti probatori dall'inutilizzabilità (artt. 62, 63, 141-bis, 195, 203 cod. proc. pen.)sanzionati dall’inutilizzabilità
L'atto documentato in forma differente da quella prescritta sintetizza certamente un'attività di indagine illegittimamente svolta e non può assumere, pertanto, valore di prova (c.d. patologia dinamica).
4.2. Ciò posto, l'annotazione effettuata dalla polizia giudiziaria di dichiarazioni non è utilizzabile processualmente tutte le volte che viola il divieto di testimonianza posto dagli artt. 62 e 195, comma 4, cod. proc. pen., quello della ricezione di dichiarazioni indizianti rese, senza il rispetto delle garanzie difensive, dalla persona sottoposta ad indagini o dall'imputato (art. 63 cod. proc. pen.).
Del resto, il regime di ammissibilità della particolare prova documentale costituita dalla annotazione ad opera della polizia giudiziaria non può che essere conformato proprio alle regole di preclusione della testimonianza sulle dichiarazioni dell'indagato.
Va, inoltre, sottolineata la diversità di regolamentazione prevista per la deposizione indiretta di una fonte comune che non è deputata ad attività investigative, rispetto a quella qualificata proveniente dalla polizia giudiziaria, e ciò proprio al fine di evitare che abbiano ingresso nel processo atti investigativi non ammissibili e non utilizzabili.
L'art. 195, comma 4, cod. proc. pen. vieta la testimonianza del funzionario di polizia «sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli art. 351 e 357, comma 2, lett. a e b>>. Il divieto, quindi, ha per oggetto:
a) le sommarie informazioni assunte dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini, per le quali l'art. 357, comma 2, cod. proc. pen. prescrive la redazione di apposito verbale; b) le informazioni assunte, anch'esse da verbalizzare, dalle persone imputate in un procedimento connesso o collegato; c) le sommarie informazioni rese e le spontanee dichiarazioni ricevute da soggetti indagati, per le quali pure è prescritta la redazione del verbale (art. 357, comma 2, lett. b), anche se la superfluità di tale specifica previsione è insita nella preclusione testimoniale già perentoriamente espressa dall'art. 62 cod. proc. pen. per le dichiarazioni comunque rese dall'imputato o dall'indagato nel corso del procedimento; d) il contenuto narrativo delle denunce, querele e istanze presentate oralmente e soggette a verbalizzazione, atti che comunque, ove contengano sommarie informazioni testimoniali, sono riconducibili alla previsione degli art. 351 e 357, comma 2, lett. c) cod. proc. pen..
Si è voluto così circoscrivere il ripristinato divieto della testimonianza indiretta, in attuazione della nuova formulazione dell'art. 111 Cost. e a superamento della sentenza n. 24 del 1992 della Corte Costituzionale (che lo aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo), soltanto agli atti tipici di contenuto dichiarativo compiuti dalla polizia giudiziaria, i quali devono essere documentati mediante la redazione di un apposito verbale.
Il riferimento alle «modalità di cui agli art. 351 e 357» contenuto nell'art. 195, comma 4, cod. proc. pen. non può essere interpretato nel senso di rendere legittima la testimonianza di secondo grado del funzionario di polizia in caso di mancata verbalizzazione (pur sussistendone l'obbligo) dell'atto di acquisizione delle informazioni ricevute. Così interpretata, la norma finirebbe per tradire il suo scopo fondamentale, che è quello di evitare l'introduzione nel dibattimento, a fini probatori, di dichiarazioni acquisite in un contesto procedimentale non correttamente formalizzato, di salvaguardare il principio di formazione della prova nel contraddittorio del dibattimento e di sanzionare, quindi, l'obbligo di documentazione dell'attività investigativa tipica della polizia giudiziaria, osservando le particolari modalità prescritte dal codice di rito, che non consente di surrogare la redazione del verbale che costituisce una formalizzazione in funzione documentativa comunque irrinunciabile.
L'interpretazione rigorosa e coerente dell'art. 195, comma 4, cod. proc. pen., strutturato in termini di complementarità con le modalità di documentazione del contenuto delle dichiarazioni acquisite in sede di indagini e con il meccanismo di lettura dibattimentale dell'atto divenuto irripetibile, non può che essere nel senso che esso vieti non soltanto la testimonianza indiretta sulle dichiarazioni regolarmente acquisite in sede di sommarie informazioni, ma anche quella sulle dichiarazioni che si sarebbero dovute acquisire con le modalità di cui all'art. 351 cod. proc. pen..
L'indirizzo giurisprudenziale, secondo cui la mancata verbalizzazione di determinati atti tipici non sarebbe di ostacolo alla testimonianza di secondo grado non è in linea col nuovo sistema processuale, il quale ha voluto evitare elusioni in forma surrettizia del principio del contraddittorio.
Gli «altri casi» per i quali l'art. 195, comma 4, cod. proc. pen. legittima la testimonianza de auditu del funzionario di polizia si riducono alle sole ipotesi in cui dichiarazioni di contenuto narrativo siano slittate rese da terzi e percepite dal funzionario «al di fuori di uno specifico contesto procedimentale di acquisizione delle medesime», in una situazione operativa eccezionale o di straordinaria urgenza e, quindi, al di fuori di un «dialogo tra teste e ufficiale o agente di polizia giudiziaria, ciascuno nella propria qualità».
Tale interpretazione, che appare l'unica ragionevole e costituzionalmente corretta, trova indiretto conforto negli interventi della Consulta (cfr. sentenza n. 32 del 2002 e ordinanza n. 36 del 2002), che ha rimarcato il senso del principio del contraddittorio nella formazione della prova, previsto dall'art. 111 Cast.: «... da questo principio con il quale il legislatore ha dato formale riconoscimento al contraddittorio come metodo di conoscenza dei fatti oggetto di giudizio, deriva quale corollario il divieto di attribuire valore di prova alle dichiarazioni raccolte unilateralmente dagli organi investigativi» (sentenza n. 32 del 2002); «l'art. 111 Cast. [ha] espressamente attribuito risalto costituzionale al principio del contraddittorio, anche nella prospettiva della impermeabilità del processo, quanto alla formazione della prova, rispetto al materiale raccolto in assenza della dialettica tra le parti; ... alla stregua di tale opzione appare del tutto coerente la previsione di istituti che mirino a preservare la fase del dibattimento ... da contaminazioni probatorie fondate su atti unilateralmente raccolti nel corso delle indagini preliminari» (ordinanza n. 36 del 2002).
Conclusivamente, per quello che qui interessa, non possono essere acquisiti al processo e non possono essere utilizzati, come materiale probatorio, documenti rappresentativi di sommarie informazioni rese alla polizia giudiziaria (e da questa non verbalizzate) dalla persona sott sta ad indagini, perché, in tale maniera, si renderebbe il processo permeabile apporti probatori unilaterali degli organi investigativi e soprattutto si aggirerebbero le regole sulla formazione della prova testimoniale nel contraddittorio dibattimentale.
Non diversa deve essere la conclusione per il dictum formalmente extraprocedimentale dell'indiziato (o di chi deve ritenersi sostanzialmente tale ovvero dell'indagato o dell'imputato di reato connesso o collegato) che, però, si collochi in un contesto di ricerca investigativa preordinato alla sua acquisizione e che sia oggetto di memorizzazione.
L'acquisizione del relativo atto di polizia consentirebbe, in questo caso, un facile aggiramento del disposto dell'art. 63, comma 2, cod. proc. pen. che proibisce l'utilizzo di qualsiasi dichiarazione resa dall'indagato alla polizia giudiziaria, in mancanza delle prescritte garanzie difensive.
4.3. Non si pensi, del resto, che gli argomenti spesi in merito all'inutilizzabilità dibattimentale dell'atto assunto in violazione degli specifici divieti previsti dalle vigenti disposizioni di legge, non siano privi di effetti anche per quello che riguarda le indagini preliminari quando manchi, come nel caso in esame, l'elemento fondamentale dell'esistenza dell'atto riferibile al dichiarante che costituisce il presupposto stesso della verifica della sua utilizzabilità.
Infatti, sono proprio i canoni legali, che presidiano all'uso dibattimentale dell'atto acquisito nella fase preliminare, che presuppongono l'esistenza dell'atto stesso, non potendosi certo porre la questione dell'utilizzabilità di un atto che non soddisfa i requisiti minimi richiesti dalla legge.
Si tratta, cioè, di limiti che abbracciano, nel caso di specie, quegli elementi essenziali che secondo la legge processuale fanno sì che ci si trovi effettivamente al cospetto di un atto processuale che contiene le dichiarazioni dell'indagato.
La particolare cautela che la Costituzione impone a tutela dell'indagato induce a erigere una barriera invalicabile, fin dalla fase delle indagini preliminari, per fornire una tutela effettiva delle libertà e dei diritti del cittadino sottoposto a indagine di fronte ai penetranti poteri attribuiti alla polizia giudiziaria anche in fase precautelare, non potendosi aggirare le finalità perseguite dalla Carta costituzionale mediante una interpretazione estensiva dei precetti che riguardano i limiti legali dell'intervento della polizia, consentendo ad essa di trascurare l'adozione dei requisiti di esistenza e validità formale dell'atto che la legge processuale espressamente prevede a tutela dell'indagato, primi fra tutti la verbalizzazione e sottoscrizione dell'atto.
5. I precedenti di segno contrario (Sez. 1, n. 15437 del 16/03/2010, O., Rv. 246837; Sez. 1, n. 33821 del 20/06/2014, M., Rv. 263218; quest'ultimo citato dal tribunale del riesame), all'orientamento giurisprudenziale che il Collegio ritiene preferibile, risultano superati dalla successiva costante evoluzione giurisprudenziale che, ferma restando la necessità che le dichiarazioni spontanee - per essere utilizzate in sede cautelare e nel rito abbreviato (Sez. 1, n. 12752 del 27/02/2019, PG c/ M., Rv. 276176) - siano state specificamente verbalizzate ex art. 350, comma 7, cod. proc. pen., si è piuttosto occupata di verificare la libertà della scelta di rendere tali dichiarazioni (Sez. 2, n. 26246 del 03/04/2017, D., Rv. 271148; Sez. 2, n. 14320 del 13/03/2018, B., Rv. 272541; Sez. 1, n. 15197 del 08/11/2019 - dep. 2020, F., Rv. 279125).
5.1. Anche questa evenienza, del resto, non sembra ipotizzabile nel caso di specie, alla luce della formula utilizzata dagli operanti che, nel riportare le presunte dichiarazioni rese dagli indagati, hanno annotato che essi «non hanno voluto riferire nulla», così dovendosi escludere la volontà di rendere una qualsiasi dichiarazione e, cioè, il presupposto stesso della «spontaneità», salvo poi sorprendentemente ammettere, come contraddittoriamente risulta dall'annotazione di servizio, le proprie responsabilità con la plateale confessione che l'arma era «di loro pertinenza».
Anche sotto il profilo della spontaneità della presunta dichiarazione, pertanto, residuano gravi e seri dubbi che impongono di espungere tali riferimenti dagli atti utilizzabili per la decisione.
6. Espunto l'elemento probatorio relativo alle dichiarazioni asseritamente rese dagli indagati, ma non verbalizzate ai sensi dell'articolo 350, comma 7, cod. proc. pen. e perciò non utilizzabili, l'ordinanza impugnata, che pone su un piano di perfetta parità, dal punto di vista della concorrenza indiziaria, le suddette presunte dichiarazioni e quanto visivamente percepito dagli operanti, va annullata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale del riesame di Bari, risultando non necessario procedere all'esame delle restanti doglianze difensive in quanto assorbite a seguito dell'accoglimento del primo e pregiudiziale motivo di ricorso sulla gravità indiziaria.
P.Q.M.
Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Bari competente ai sensi dell'art. 309, co. 7, c.p.p.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen..