La Cassazione chiarisce che quando gli arresti domiciliari non possono essere disposti per mancanza di un luogo idoneo, il limite di pena detentiva triennale non opera, ma occorre previamente rilevare l'inadeguatezza di misure gradate rispetto agli arresti.
Il Tribunale di Roma confermava l'ordinanza con la quale era stata rigettata l'istanza di revoca o modifica della misura cautelare in carcere inflitta all'attuale ricorrente, il quale si rivolge alla Suprema Corte lamentando la violazione dell'
In particolare, egli...
Svolgimento del processo
Propone ricorso per cassazione il difensore di H. M., B. C. avverso l'ordinanza n. 165/2021 R.G.T.L. del Tribunale di Roma Sezione per il Riesame in Appello, emessa ad esito della camera di consiglio del 30.4.2021 e depositata il 3.5.2021, con la quale veniva confermata l'ordinanza di rigetto dell'istanza di revoca o modifica della misura cautelare in carcere del 21.1.2021 della Corte d'Appello di Roma-Sezione III Penale.
Il ricorso è affidato ad un unico, articolato, motivo, deducente violazione dell'art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., illogicità della motivazione ed erronea applicazione dell'art. 275, comma 2-bis, cod. proc. pen.
Premette il ricorrente quanto segue:
- a seguito della conferma della condanna alla pena ad anni due di reclusione ed euro 500,00 di multa da parte della Corte d'appello in data 15.1.2021, veniva proposta istanza di revoca o sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere per diversi motivi, tra cui il tempo trascorso dall'applicazione della misura - arresti domiciliari dal 18.2.2020 sino al 4.5.2020, giorno della sostituzione con la misura custodiale per sopravvenuta inidoneità del domicilio - ed inadeguatezza e sproporzione della stessa rispetto alla pena irrogata;
- avverso il provvedimento di rigetto della Corte d'appello, veniva proposta istanza di riesame ed il Tribunale, con l'ordinanza impugnata, nel confermare il rigetto, motivava che l'ostatività del limite minimo di pena di cui all'art. 275, comma 2-bis, cod. proc. pen. è inoperante, giacché «la misura è stata disposta per inidoneità del luogo di esecuzione (come indicato nell'ordinanza del 4.5.2020[,] in riferimento alla situazione conflittuale tra l'H. M. ed il marito della donna ospitante)», inidoneità tuttora perdurante, «non essendo stata indicata alcuna opzione alternativa in tal senso».
Rileva il ricorrente che la motivazione dell'ordinanza impugnata è apodittica.
Nella specie, nessun giudice - compreso il Tribunale - ha mai valutato la richiesta subordinata, sempre formulata, relativa all'applicazione della misura dell'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, fornendo alcuna motivazione sull'eventuale inadeguatezza di tale gradata misura.
L'ordinanza impugnata viola poi il principio secondo cui adeguatezza e proporzionalità devono essere sempre costantemente oggetto di valutazione, anche d'ufficio, da parte del giudice per tutta la durata dell'esecuzione della misura: l'irrogazione di una pena detentiva inferiore ai tre anni, incidendo sul profilo della proporzionalità, costituisce evenienza idonea ad imporre la sostituzione della misura custodiale con altra meno afflittiva.
All'udienza, sia il P.G. che il difensore concludevano per l'accoglimento del ricorso.
Motivi della decisione
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
L'ordinanza impugnata, premesso che «la difesa non ha allegato alcun fatto nuovo tale da giustificare una revisione del giudizio cautelare», nella parte in cui affronta la denunciata - già dinanzi al Tribunale - violazione del principio di proporzionalità della misura custodiale tuttora in corso di esecuzione, a seguito della sentenza d'appello confermativa della condanna inflitta all'H. M. alla pena di anni due di reclusione ed euro 500 di multa, motiva nel duplice senso che:
- da un lato, la misura custodiale appare proporzionata all'entità delle condotte contestate all'H. M.;
- dall'altro lato, non rileva il limite minimo di pena previsto dall'art. 275, comma 2-bis, cod. proc. pen., poiché la misura custodiale è stata disposta per l'inidoneità del luogo di esecuzione.
L'ordinanza impugnata è illegittima anzitutto per violazione dell'art. 275, comma 2-bis, cod. proc. pen., che, nella parte rilevante, recita: [...]. Salvo quanto previsto dal comma 3 e ferma restando l'applicabilità degli articoli 276, comma 1-ter, e 280, comma 3, non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all'esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni. Tale disposizione non si applica nei procedimenti per i delitti di cui agli articoli 423-bis, 572, 612-bis, 612-ter e 624-bis del codice penale, nonché all'articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, e quando, rilevata l'inadeguatezza di ogni altra misura, gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell'articolo 284, comma 1, del presente codice.
Cercando di conferire un ordine logico all'esposizione, prima di affrontare le questioni - su cui ampiamente si diffonde il ricorso - poste dall'ultimo periodo del comma 2-bis dell'art. 275 cod. proc. pen., occorre affrontare l'ambito di applicabilità del penultimo periodo del medesimo comma, verificandone la possibile rilevanza nel caso di specie.
È noto come, riguardo a tale penultimo periodo, la giurisprudenza faccia registrare, più che un vero e proprio contrasto, diverse sensibilità.
Secondo un indirizzo minoritario, più recente, «il limite di tre anni di pena detentiva necessario per l'applicazione della custodia in carcere, previsto dall'art. 275, comma 2-bis, cod. proc. pen.» ha un rilievo ostativo automatico anche in corso di esecuzione della misura, «sicché questa non può essere mantenuta qualora sopravvenga una sentenza di condanna, quantunque non definitiva, a pena inferiore al suddetto limite» (Sez. 5, n. 4948 del 20/01/2021, N, Rv. 280418-01; Sez. F, n. 26542 del 13/08/2020, B., Rv. 279632-01).
Secondo l'indirizzo maggioritario, invece, detto limite «deve essere oggetto di valutazione prognostica solo al momento di applicazione della misura, ma non anche nel corso della protrazione della stessa, con la conseguenza che il presupposto assume rilievo non in termini di automatismo, ma solo ai fini del giudizio di perdurante adeguatezza del provvedimento coercitivo, a norma dell'art. 299 cod. proc. pen.» (Sez. 4, n. 21913 del 25/06/2020, E., Rv. 279299-01; Sez. 6, n. 47302 del 05/11/2015, P.M. in proc. S., Rv. 265339-01; Sez. 4, n. 13025 del 26/03/2015, I., Rv. 262961-01; Sez. 6, n. 1798 del 16/12/2014, dep. 2015, I., Rv. 262059-01).
Ritiene il Collegio che possa percorrersi una via di sintesi rispetto ai due ricordati indirizzi.
Invero, la prospettiva propugnata dall'indirizzo minoritario sembra meritevole di condivisione in considerazione del rilievo che il giudizio prognostico imposto al giudice della cautela è volto a specificamente evitare la "contaminazione carceraria" qualora il medesimo, alla luce della cognizione solo sommaria che gli compete, si convinca della "realistica" possibilità che la pena irrogata ad esito del plenum iudicium non raggiunga i tre anni, in tal guisa agganciando il procedimento cautelare agli esiti di quello di merito; talché si presterebbe a censure di irragionevolezza, potenzialmente rilevanti ai sensi degli artt. 3 e 13 Cost., l'affermazione che quella medesima valutazione sull'entità della pena, impediente in fase genetica l'applicazione della misura, perda di consistenza, con immediato riverbero sulla misura in corso, proprio nel momento topico in cui alla sommarietà della cognizione inducente alla prognosi di pena infratriennale si sostituisce la "realtà" di una pena ritenuta dal giudice del merito - alla stregua di una cognitio non meramente sommaria e, comunque, ben più ampia di quella del giudice della cautela - contenibile entro il limite.
In effetti, il limite di tre anni di pena detentiva se, per espressa volontà del legislatore, ha rilievo ostativo in chiave prognostica (come sostiene l'indirizzo maggioritario), quando cioè il giudice si accinge a valutare i presupposti per l'emissione dell'ordinanza applicativa della misura, non può a fortiori non esplicare un tale rilievo anche successivamente, quando cioè, a misura emessa sul presupposto, ex post venuto meno, dell'irrogabilità di una pena ultratriennale, la pena irrogata con la sentenza pur non definitiva di condanna è risultata obiettivamente inferiore ai tre anni, passandosi dunque da una mera prognosi sfavorevole all'interessato all'effettività di una quantificazione della pena al medesimo invece favorevole.
Tuttavia - ed in parte qua è suscettivo di venire in considerazione l'indirizzo maggioritario - l'ostatività del limite in conseguenza dell'effettività della quantificazione infratriennale della pena ad esito del giudizio si produce solo dopo che - ferma, in ogni caso, la stabilizzazione della piattaforma indiziaria derivante dall'intervenuta dichiarazione di penale responsabilità per i fatti oggetto di misura - il tema dell'entità della pena in concreto irrogata dal giudice del merito non è più passibile - alla stregua di pertinenti allegazioni il cui onere ricade sull'interessato - di essere rimesso in discussione: la qual cosa equivale a dire che la suddetta ostatività del limite viene ad esistenza solo dopo che sia scaduto per il Pubblico Ministero il termine per impugnare la decisione in punto di determinazione della pena al di sotto del limite medesimo; invero, in pendenza del ridetto termine, e a maggior ragione nel caso in cui il Pubblico Ministero abbia realmente svolto impugnazione sulla pena, essendo il tema della quantificazione della pena ancora tecnicamente controverso, la determinazione della stessa al di sotto dei tre anni è priva di alcuna idoneità a riverberare, ex se, i propri effetti sull'insensibile parallelo binario del procedimento cautelare.
In buona sostanza, ad avviso del Collegio, prospettive e conclusioni dell'indirizzo maggioritario paiono condivisibili fintantoché perdurano le condizioni in forza delle quali abbia possibilità di estrinsecazione un giudizio meramente prognostico sull'entità della pena, subentrando invece l'applicabilità di prospettive e conclusioni proprie dell'indirizzo minoritario dal momento in cui ad un siffatto giudizio si sostituisce un'effettiva quantificazione infratriennale della pena, in termini di stabilità ancorché relativa (la stabilità della quantificazione della pena è infatti pur sempre collegata ai reati per cui è intervenuta condanna, in conseguenza della cui eventuale eliminazione - per qualsiasi ragione - nella progressione del giudizio la pena è fisiologicamente passibile di ridimensionarsi ed in limine finanche di annullarsi, donde il predicato di relatività della stabilità medesima).
Opina il Collegio che la soluzione di medietà dianzi proposta tenga in adeguata considerazione le ragioni dell'orientamento maggioritario, polarizzate sull'obiettiva mancanza, nel penultimo periodo del comma 2-bis dell'art. 275 cod. proc. pen., sia di «un collegamento funzionale con l'obbligo di costante verifica della correlazione tra misura cautelare in atto e pena irrogata, che permetta, ai fini dell'esecuzione della prima, la considerazione degli eventi verificatisi successivamente, come richiesto nell'art. 300 cod. proc. pen.», sia di «un collegamento diretto tra l'esecuzione della misura e l'effetto sospensivo dell'esecuzione della pena per le sanzioni inferiori ai tre anni, di cui all'art. 656[, comma 9, cod. proc. pen.]» (così, in motiv., Sez. 6, n. 1798 del 2014, cit., par. 2), ma nel contempo evidenzai come siffatte ragioni si dissolvano allorquando alla semplice "previsione" di una pena irrogata superiore ai tre anni ex comma 2- bis citato, in forza della quale la misura è stata emessa, si sostituisce il "dato di fatto" dell'emissione di una sentenza di condanna a pena inferiore a detto limite, in forza della quale la misura, retrodatando il giudizio cautelare, non avrebbe potuto essere emessa e dunque, nell'attualità, non può più essere mantenuta. Infatti, l'insensibilità delle vicende della cautela alle evoluzioni del merito sussiste sino a quando le statuizioni del giudice del merito, per quanto non ancora passate in giudicato, acquisiscano comunque l'impronta, a parità di altre condizioni, della non ulteriore compromettibilità in giudizio: in tal caso, sopravvenuto l'esito pur parziale del giudizio, il procedimento cautelare, che accede a quello principale, cede a questo, cui è ancillare, non vivendo di vita autonoma.
Nondimeno, come accennavasi, le condizioni di maturazione della sopravvenuta ostatività del limite - ossia: 1) pronuncia di sentenza di condanna, pur non definitiva, a pena infratriennale e 2) scadenza del termine per il Pubblico Ministero per impugnare la sentenza, senza che il medesimo l'abbia in effetti gravata, segnatamente in punto di determinazione della pena al di sotto del limite medesimo - deve costituire oggetto di specifica allegazione in capo all'avente interesse alla revoca o degradazione della misura, ovvero deve comunque risultare dagli atti del relativo sub-procedimento.
Nella specie, il ricorso, per quanto renda ragione della sussistenza della prima condizione, omette invece di ragguagliare sulla seconda, senza che sia concesso a questa Suprema Corte, che è giudice di mera legittimità degli atti impugnati, senza poteri di merito (men che meno istruttori), di poter acquisire aliunde gli elementi non devolutile.
Talché, avuto riguardo a siffatta specifica situazione processuale, allo stato, per quel che risulta a questa Suprema Corte, deve escludersi che l'H. M., pur avendo riportato condanna alla pena di anni due di reclusione ed euro 500 di multa, si trovi nella possibilità di automaticamente beneficiare della quantificazione della pena al di sotto della soglia di rilevanza di cui al penultimo periodo del comma 2-bis dell'art. 275 cod. proc. pen..
Nella perduranza, dunque, delle condizioni legittimanti la prosecuzione della custodia cautelare in carcere dell'H. M. a termini della suddetta previsione di legge, viene in linea di conto l'ulteriore questione, evocata funditus dal ricorso ma in effetti gradata rispetto a quella sin qui esaminata, inerente l'applicabilità dell'ultimo periodo del comma 2-bis dell'art. 275 cod. proc. pen..
In via preliminare, deve rilevarsi che i titoli di reato per cui si procede (rapina cd. semplice, lesioni personali e resistenza a pubblico ufficiale) non rientrano nel novero di quelli ostativi.
Appurato ciò, vero è quel che scrive il Tribunale nell'ordinanza impugnata, ossia che il limite di pena detentiva triennale non opera qualora gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di un luogo idoneo, ma è altresì vero che, affinché detto limite possa essere in concreto ritenuto inoperante, deve essere previamente «rilevata» - ossia verificata e quindi esplicitata attraverso una congrua motivazione - «l'inadeguatezza di ogni altra misura».
In riferimento al concetto di «ogni altra misura», tenuto conto che l'ipotesi di cui la norma si occupa è quella dell'impossibilità di disporre gli arresti domiciliari, con conseguente applicazione della custodia cautelare in carcere, è giocoforza ritenere che debba essere previamente «rilevata» l'inadeguatezza di misure gradate rispetto agli arresti stessi. In buona sostanza, la circostanza che questi non possano essere disposti per un'evenienza meramente esogena impone al giudice - che si accinge, unicamente a cagione di ciò, ad applicare, o a confermare, la misura massima - di fornire specifica giustificazione delle ragioni per cui essa solo, benché peggiorativamente sostitutiva di quella domiciliare, sia idonea a salvaguardare le esigenze cautelari, non contenibili con nessun'altra di minore afflittività rispetto alla domiciliare. Emerge dunque un onere di motivazione rafforzata in capo al giudice, che non può limitarsi ad addurre l'adeguatezza della misura domiciliare e l'impossibilità oggettiva della sua applicazione per disporre, o confermare, il trattamento cautelare più rigoroso, così ritenendo solo implicitamente l'inadeguatezza anche delle misure minori della domiciliare, ma è tenuto a render conto di per sé dell'inadeguatezza - ancorata ad indici concreti ed obiettivi - specificamente di queste ultime.
Nell'ottica della superiore esegesi, l'ultimo periodo del comma 2-bis dell'art. 275 cod. proc. pen. esibisce una linea di coerenza con i portati evolutivi della giurisprudenza di legittimità in punto di proporzionalità ed adeguatezza della misura.
Come correttamente osservato dal ricorrente, risale a Sez. U, n. 16085 del 31/03/2011, P.M. in proc. K., Rv. 249324-01, l'insegnamento per cui «il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza, opera come parametro di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale».
Talché, se - alla stregua della predetta sentenza delle Sezioni Unite - proporzionalità ed adeguatezza sono parametri in continuum e se - alla stregua dell'ultimo periodo del comma 2-bis in disamina - affinché, «quando [ ...] gli arresti domiciliari non possano essere disposti», sia inoperante il limite minimo di tre anni di pena detentiva di cui al periodo precedente deve essere previamente «rilevata l'inadeguatezza di ogni altra misura», il giudice è tenuto - in conformità, del resto, all'art. 299, comma 2, cod. pen. - a compiere anzitutto la necessaria valutazione circa l'adeguatezza o meno delle misure gradate rispetto a quella degli arresti qualora (non già si limiti a «ritenere che, all'esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni»), ma, in concreto, addirittura irroghi, o constati esser stata irrogata, una pena detentiva infratriennale, potendo solo dopo aver ritenuto inadeguate tali misure passare a valutare l'ulteriore e distinto requisito della proporzionalità della misura custodiale in luogo della domiciliare.
In considerazione di quanto precede, coglie nel segno la censura del ricorrente nella parte in cui lamenta l'omessa valutazione della richiesta originaria, espressamente formulata in via subordinata rispetto a quella di revoca della misura custodiale, di applicazione di una misura meno afflittiva, proposta in quella dell'obbligo di presentazione alla p.g. Nessuno dei giudici di merito ha finanche preso in esame detta richiesta, né di per sé stessa né, soprattutto, in funzione del tenore dell'ultimo periodo del comma 2-bis dell'art. 275 cod. proc. pen., sul cui dettato, ciò nondimeno, segnatamente l'ordinanza impugnata fa perno.
Fermo ciò, v'è da aggiungere che tale valutazione era imposta agli organi della cautela non solo dalla lettera del penultimo periodo del comma 2-bis dell'art. 275 cod. proc. pen., ma altresì, sul piano sistematico, dall'esigenza di mantenere "aggiornato" - in ossequio a Sez. U, n. 16085 del 2011, cit. - il giudizio di proporzionalità ed adeguatezza della misura all'entità delle esigenze cautelari, siccome divenute suscettibili di rinnovata considerazione alla luce anche, sebbene non solo, dell'elemento sopravvenuto della quantificazione infratriennale della pena detentiva inflitta.
D'altronde, compiendo un passo indietro, mette conto per mero tuziorismo di rilevare, che, in rapporto al penultimo periodo del comma 2-bis dell'art. 275 cod. proc. pen., anche l'indirizzo maggioritario di cui più sopra s'è detto, al fine di assicurare pur sempre una rivisitazione di proporzionalità ed adeguatezza della misura a fronte di una mutata realtà giuridica afferente chi vi è sottoposto, ben lungi dall'escluderla, addita anzi expressis verbis la strada (atta in parte ad accorciare le distanze rispetto all'indirizzo minoritario) di «una [doverosa] nuova valutazione di merito [soprattutto] dell'adeguatezza della misura, secondo le previsioni di cui all'art. 299 cod. proc. pen.», in guisa da approdare ad un'«analisi complessiva delle caratteristiche oggettive e soggettive dell'azione» (così, in motiv., nuovamente Sez. 6, n. 1798 del 2015, cit., par. 2). Nella specie, siffatte analisi risultano essere state totalmente pretermesse dai giudici di merito ed in particolare dal Tribunale nell'ordinanza impugnata.
Alla stregua di tutto quanto precede, pertanto, in parziale accoglimento del ricorso, l'ordinanza stessa va annullata con rinvio per nuovo esame delle richieste formulate alla luce degli enunciati principi.
Riguardo all'esito decisorio dell'accoglimento del ricorso, pare doveroso tuttavia precisare che, quantunque la difesa abbia insistito in principalità per un accoglimento senza rinvio, il rinvio invece si impone, poiché le omissioni di cui dianzi si è dato conto involgono tipicamente apprezzamenti di merito, che esulano dalla competenza di questa Suprema Corte, in difetto oltretutto della piena cognizione dei pertinenti elementi di giudizio.
P.Q.M.
Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Roma competente ai sensi dell'art. 310 cod. proc. pen.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen..