Mentre nel reato di induzione indebita il privato mantiene la piena consapevolezza del carattere indebito della prestazione data o promessa, nel reato di truffa, invece, la vittima viene indotta in errore in relazione alla doverosità delle somme o utilità oggetto di promessa o dazione.
La Corte d'Appello di Salerno qualificava il fatto originariamente contestato come concussione consumata quale tentativo di induzione indebita di cui all'
Mediante impugnazione della suddetta decisione, il ricorrente si...
Svolgimento del processo
1. C. N. ricorre avverso la sentenza in epigrafe, con la quale la Corte di appello di Salerno, in accoglimento dell'impugnazione proposta dall'imputato e in riforma della sentenza di primo grado, ha qualificato il fatto, originariamente contestato come concussione consumata e tale ritenuto dal Tribunale nella decisione di condanna appellata, quale tentativo di induzione indebita di cui all'art. 319 quater cod. pen., ed ha per l'effetto, con le già riconosciute attenuanti generiche, ridotto la pena a lui inflitta in primo grado ad anni due e mesi otto di reclusione.
Il ricorrente è stato imputato del delitto di concussione consumata di cui all'art. 317 cod. pen. perché, quale funzionario dell'Ufficio Scolastico Provinciale e quindi pubblico ufficiale, abusando della sua funzione, costringeva D. A. a promettergli la somma di mille euro per "sbloccare" la pratica relativa alla domanda di ricostruzione di carriera a fini pensionistici presso l'Ufficio INPS di Roma, somma consegnata dalla D. A. sotto il controllo di personale della Polizia di Stato. Fatti contestati "fino all’aprile 2019".
2. Il ricorrente deduce violazione di legge e vizi di motivazione per avere la Corte territoriale erroneamente qualificato il fatto contestato come tentativo di induzione indebita, anziché come truffa aggravata dalla qualifica di pubblico ufficiale ex artt. 640 e 61, n. 9, cod. pen., avendo egli ottenuto una indebita prestazione dal privato, traendolo in inganno e facendogli credere, attraverso artifici e raggiri, che la stessa fosse dovuta ex lege.
3. In mancanza di tempestiva istanza di trattazione orale, il ricorso è stato trattato e deciso in camera di consiglio senza l'intervento del Procuratore Generale e dei difensori, ai sensi dell'art. 23, comma 8, del d.l. n. 137 del 20 ottobre 2020.
Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte, come indicato in intestazione.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato, per le ragioni e nei termini di seguito precisati. La sentenza è infatti errata e perplessa nella ricostruzione di plurimi elementi di diritto rilevanti ai fini della corretta qualificazione giuridica del fatto.
2. I reati di induzione indebita ex art. 319-quater cod. pen. e di truffa aggravata commessi da pubblico ufficiale, pur avendo in comune l'abuso da parte del pubblico ufficiale della pubblica funzione al fine di conseguire un indebito profitto, si differenziano per il fatto che nel primo colui che dà o promette non è vittima di errore e conclude volontariamente un negozio giuridico illecito in danno della pubblica amministrazione per conseguire un indebito vantaggio, laddove, invece, nella truffa, il pubblico ufficiale si procura un ingiusto profitto sorprendendo la buona fede del soggetto passivo mediante artifici o raggiri ai quali la qualità di pubblico ufficiale conferisce maggiore efficacia (Sez. 6, n. 44596 del 13/03/2019, G., Rv. 277378, relativa a fattispecie in cui la Corte ha ritenuto integrativa del reato di truffa aggravata la condotta del custode del cimitero il quale, in concorso con l'impiegato addetto alle esumazioni, dopo l'esecuzione delle stesse, induceva i familiari del defunto a corrispondere somme di denaro non dovute, tacendo della gratuità del servizio), sicché la distinzione tra il delitto di induzione indebita e quello di truffa va individuata nel fatto che nella prima fattispecie il privato mantiene la piena consapevolezza del carattere non dovuto della prestazione data o promessa, mentre nel reato di truffa la vittima viene indotta in errore circa la doverosità delle somme o delle utilità oggetto di dazione o promessa (Sez. 6, n. 39089 del 21/05/2014, T., Rv. 260794; Sez. 6, n. 53436 del 06/10/2016 , V., Rv. 268792).
Tale consolidato orientamento interpretativo è del resto coerente col principio di diritto chiaramente affermato da Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, dep. 2014, Maldera, Rv. 258470, secondo cui la condotta di induzione indebita, prevista dall'art. 319 quater cod. pen., si configura come persuasione, suggestione, inganno, sempre che quest'ultimo non si risolva in un'induzione in errore.
In primo luogo, dunque, la sentenza impugnata deve ritenersi affetta da erronea applicazione della legge penale là dove ritiene elemento costitutivo del delitto di cui all'art. 319-quater cod. pen., testualmente, "l'induzione, intesa come induzione in errore, cioè come conseguenza di un inganno" (p. 9).
Inoltre, sul medesimo punto la motivazione della sentenza in esame appare intrinsecamente contraddittoria, poiché ricostruisce il fatto escludendo che l'accertata indebita dazione di denaro sia da farsi risalire ad un errore della vittima sulla effettiva debenza della somma successivamente consegnata al ricorrente, sotto il controllo della polizia. Il provvedimento impugnato evidenzia infatti che l'insegnante D. A., subito dopo la richiesta del ricorrente, "insospettita, si era informata presso la segreteria della sua scuola per sapere se effettivamente per la sua pratica vi fosse la competenza dell'ufficio di Roma, ed aveva avuto risposta negativa", telefonando quindi ella stessa al C., rimandando l'appuntamento già fissato e denunciando il fatto alla polizia (p. 7). Orbene, la giurisprudenza di questa Corte opera l'actio finium regundorum tra il delitto di induzione indebita commesso mediante inganno e quello di truffa in riferimento al fatto che nella prima fattispecie il privato mantiene la piena consapevolezza della non debenza della prestazione data o promessa, accettando la pattuizione illecita per conseguire un indebito vantaggio, mentre nel reato di truffa la vittima viene indotta in errore circa la doverosità delle somme o delle utilità oggetto di dazione o promessa (Sez. 6, n. 53436 del 06/10/2016, V., cit.).
3. La qualificazione giuridica del fatto è peraltro questione che rientra, anche per gli aspetti non specificamente considerati in un ricorso ammissibile, nel novero delle questioni su cui la Corte di cassazione può decidere ex art. 609, comma secondo, cod. proc. pen..
Il Collegio rileva dunque che la Corte di appello ha errato altresì nell'applicazione dei principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità in ordine all'individuazione del rispettivo perimetro di applicazione delle finitime fattispecie astratte della concussione, oggetto di originaria contestazione e sulla quale si è appieno sviluppato il contraddittorio delle parti, e dell'induzione indebita a dare o promettere utilità, nella quale la sentenza impugnata ha ritenuto di dover sussumere il fatto di cui in imputazione.
Infatti, la sentenza in esame qualifica come vantaggio indebito il risultato prospettato dal pubblico ufficiale C. all'insegnante D. A. - e da quest'ultima perseguito - allorché al contempo ritiene (p. 10) che "la rappresentazione consisteva nell'affermare che, in caso di mancato accoglimento della richiesta di dazione, invece, i tempi si sarebbero dilatati". La qualificazione giuridica del fatto operata dalla Corte territoriale deve ritenersi all'evidenza distonica rispetto alla condotta tenuta dal pubblico ufficiale, che la sentenza ricostruisce senza evidenziare circostanze obiettive idonee a causare la prospettata dilatazione dei tempi di definizione della pratica diverse dall'abuso del potere e della funzione dello stesso pubblico ufficiale. Con la conseguenza che, secondo tale ricostruzione, il risultato prospettato dal ricorrente alla insegnante D. A. non potrebbe essere qualificato come indebito vantaggio o "tornaconto personale", bensì come un danno ingiusto.
Il Collegio ricorda al proposito che il delitto di concussione, di cui all'art. 317 cod. pen. nel testo modificato dalla l. n. 190 del 2012, è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno "contra ius" da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all'alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita e si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall'art. 319 quater cod. pen. introdotto dalla medesima l. n. 190, la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest'ultimo non si risolva in un'induzione in errore), di pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico (Sez. U, M., cit., la quale, in motivazione, ha precisato che, nei casi ambigui, l'indicato criterio distintivo del danno antigiuridico e del vantaggio indebito va utilizzato, all'esito di un'approfondita ed equilibrata valutazione del fatto, cogliendo di quest'ultimo i dati più qualificanti idonei a contraddistinguere la vicenda concreta).
Il Collegio sottolinea altresì che, in tema di concussione, l'abuso costrittivo del pubblico agente non deve necessariamente concretizzarsi in espressioni esplicite, potendo attuarsi anche mediante una minaccia implicita, allusiva, ovvero che abbia assunto forma esortativa o di metafora, purchè sia comunque idonea ad incutere nella persona offesa, in relazione alla personalità dell'agente ed alle circostanze del caso concreto, il timore di un danno ingiusto, così coartandone la volontà (Sez. 6,. n. 33653 del 14/09/2020, B., Rv. 279924, in applicazione del principio, la Corte ha qualificato come concussione, e non come induzione indebita, la condotta di appartenenti alle forze dell'ordine, i quali, richiamando falsi esposti a carico di un collega, gli prospettavano per implicito che, ove non avesse collaborato alla realizzazione di un furto al caveau della Banca I., avrebbe subito pregiudizi lavorativi e giudiziari, conseguenze evitabili grazie all'insabbiamento da parte di essi agenti di tali esposti).
4. Va altresì rilevato che la consumazione dei reati di concussione e di induzione indebita è configurabile solo allorché sia intervenuta la definizione di un reale accordo tra l'agente pubblico autore dell'abuso prevaricatore e il privato in ordine alla promessa di dazione dell'utilità. Pertanto, in tema di concussione, deve qualificarsi come consumata la fattispecie nella quale il soggetto passivo abbia sollecitato l'intervento della polizia giudiziaria dopo aver effettivamente promesso l'indebita prestazione al pubblico ufficiale, a nulla rilevando che in un secondo momento il privato possa aver deciso di non adempiere, eventualmente rivolgendosi all'autorità inquirente; ricorre invece l'ipotesi tentata qualora la promessa segua la predisposizione, d'accordo con la polizia giudiziaria, di un piano diretto a individuare il funzionario infedele e risulti preordinata a tale scopo (Sez. 6, n. 30944 del 7/4/2018, L., Rv. 273596; vedi, Sez. 6, n. 25255 del 01/04/2014, R., Rv. 259973,. secondo la quale, ai fini della configurabilità del tentativo di concussione, è necessaria l'oggettiva efficacia intimidatoria della condotta, mentre è indifferente il conseguimento del risultato concreto di porre la vittima in stato di soggezione).
Allo stesso modo, la consumazione del reato di induzione indebita è configurabile solo qualora l'indotto abbia formulato un'effettiva promessa al soggetto pubblico inducente, con conseguente perfezionamento di un reale accordo tra l'agente pubblico autore della induzione alla prestazione indebita e il privato determinatosi alla promessa per conseguire un vantaggio ingiusto (Sez. 6, n. 14856 del 15/3/2021, S.). La volontà del privato di non dar seguito all'accordo risulta dunque irrilevante ai fini della consumazione del reato nel caso in cui la promessa, allorché è stata effettuata, era reale, e solo successivamente il privato abbia deciso di non dargli seguito, eventualmente denunciando il fatto alle forze dell'ordine o all'autorità giudiziaria. Viceversa, quando l'accordo sia solo apparente, in quanto il privato indotto, fin dal momento in cui simulatamente promette la dazione, si è risolto a resistere all'illecita richiesta, è configurabile solo il tentativo di induzione indebita, posto che le pressioni esercitate dal pubblico agente, pur astrattamente idonee e dirette in modo inequivoco ad indurre alla promessa o alla dazione, non determinano alcuno dei suddetti risultati, restando dunque il privato estraneo al tentativo di induzione ed esente da penale responsabilità.
L'induzione indebita a dare o promettere utilità costituisce infatti un "reato plurisoggettivo proprio o normativamente plurisoggettivo" (Sez. U., M., cit., p. 47), poiché prevede la punizione di entrambi i protagonisti. Pertanto, la consumazione del reato - a concorso necessario - si verifica con il cedimento del privato alla condotta induttiva; cedimento che si realizza con la promessa o la dazione dell'indebita utilità. Al contrario, mancando tale adesione e non verificandosi lo stato di soggezione della vittima, parallelamente a quanto avviene per il tentativo di concussione, atti idonei inequivocamente diretti a indurre realizzeranno un tentativo di induzione indebita.
Va infine ribadito che ai fini della configurabilità del tentativo di induzione indebita di cui all'art. 319 quater cod. pen., da ritenersi integrato quando l'evento non si verifica per la resistenza opposta dal privato alle illecite pressioni del pubblico agente, non è necessario il perseguimento di un indebito vantaggio da parte di quest'ultimo, poichè tale elemento rileva esclusivamente per la sussistenza della fattispecie consumata, in un'ottica interpretativa volta a giustificare adeguatamente, ai sensi dell'art. 27 Cost., la punibilità del privato (Sez. 6, n. 32246 del 11/04/2014, S., Rv. 262075).
5. Alla luce di quanto fin qui esposto si rende necessario, in conclusione, l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio degli atti alla Corte di appello di Napoli affinché, in coerente applicazione dei principi di diritto dettati dalle richiamate decisioni di legittimità e nel rispetto del divieto di reformatio in peius (poiché la sentenza annullata non è stata oggetto di impugnazione del Pubblico Ministero), proceda a nuovo giudizio sui punti e profili critici segnalati, nella piena autonomia dei relativi apprezzamenti di merito.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo 9iudizio alla Corte di appello di Napoli.