
Per la Cassazione, il difensore che intende parlare telefonicamente con il proprio assistito, deve recarsi in un istituto penitenziario prossimo al domicilio, o al luogo dove esercita la professione; in tal modo si evita il rischio di eventuali sostituzioni di persone o di deviazione di chiamata.
Con la sentenza n. 38031 del 22 ottobre 2021, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso di un detenuto ristretto nel carcere in regime penitenziario differenziato che lamenta la legittimità della normativa regolamentare nella parte in cui prevede la necessaria presenza del difensore, appositamente preavvertito, presso...
Svolgimento del processo
1. Con l'ordinanza in epigrafe il Tribunale di sorveglianza di Trieste confermava l'anteriore decisione del Magistrato di sorveglianza di Udine, che - rigettando il reclamo proposto sul punto da G. T., ristretto in regime penitenziario differenziato presso la casa di reclusione di (omissis) - aveva affermato la legittimità della normativa regolamentare secondo cui, per tale categoria di detenuti, l'effettuazione dei colloqui telefonici con i difensori postula la necessaria presenza del professionista, appositamente preavvertito, presso l'istituto penitenziario più vicino alla sede del suo domicilio o dello studio legale.
2. L'interessato ricorre per cassazione, per il tramite del suo difensore di fiducia, articolando tre motivi.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lett. b), Ord. pen., in relazione agli artt. 3, 24, 27 e 113 Cost.
A proposito del regime penitenziario differenziato, cui è in atto sottoposto, il ricorrente osserva che il sistema costituzionale tollera le sole limitazioni strettamente necessarie a garantire le esigenze di ordine e sicurezza pubblica, che ne hanno determinato l'adozione.
Il divieto di corrispondenza telefonica diretta con lo studio professionale del difensore non sarebbe affatto funzionale alla tutela delle predette esigenze, risultando, anche per le lungaggini che conseguono all'attuazione della soluzione alternativa imposta, inutilmente vessatorio, nonché pregiudizievole per il corretto esercizio del diritto di difesa.
L'eventualità che l'avvocato, tenuto al rispetto di un preciso codice deontologico, e assoggettato alla vigilanza dell'Ordine forense, si presti a fare da tramite tra il suo assistito e l'organizzazione criminale, se non escludibile a priori, non potrebbe neppure essere assunta a regola di esperienza, tradotta in un enunciato normativo; a maggior ragione, se contenuto in una fonte di natura secondaria, come la circolare recante l'organizzazione del· circuito detentivo speciale previsto dall'art. 41-bis Ord. pen., inidonea a derogare alla normativa primaria, che non introdurrebbe limitazioni al riguardo.
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce violazione dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lett. b), Ord. pen., in relazione agli artt. 125, comma 3, cod. proc. pen. e 111 Cost.
La motivazione addotta dal Tribunale di sorveglianza, a giustificazione della prescrizione regolamentare, sarebbe evanescente. La sottolineata esigenza di verificare, rispetto al detenuto, l'esatta identità del soggetto suo interlocutore potrebbe infatti essere soddisfatta, così come avviene per i detenuti sottoposti a regime di alta sicurezza, da cautele alternative, quali la telefonata comunque avviata tramite il centralino dell'istituto di pena, registrata e indirizzata al numero telefonico dello studio legale, ufficialmente comunicato all'Ordine forense. Surreale sarebbe l'ipotesi che il difensore, in studio, cada vittima di pressioni o minacce di esponenti della criminalità organizzata e, per l'effetto, ceda ad essi la cornetta. Pressioni o minacce potrebbero, d'altra parte, essere realizzate in molte altre forme, influenzando per esempio la corrispondenza epistolare, non assoggettata a restrizioni, ovvero quella telefonica effettuata secondo le modalità dettate dalla circolare.
2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce violazione dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lett. b), Ord. pen., in relazione agli artt. 117 Cost. e 6 CEDU.
La giurisprudenza della Corte di Strasburgo assegnerebbe rilievo eminente al diritto dell'accusato di comunicare in modo riservato con il proprio difensore, ritenendolo aspetto fondamentale del processo equo garantito dalla Convenzione.
Tale diritto sarebbe ingiustamente sacrificato dalla regolamentazione censurata.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è articolato in motivi tra loro intimamente connessi, che possono essere congiuntamente esaminati, risultando all'esito infondati.
2. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 143 del 2013, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 24, secondo comma, Cost., l'art. 41-bis, comma 2-quater, lett. b), ultimo periodo, Ord. pen., come modificato dall'art. 2, comma 25, lett. f), numero 2), della legge n. 94 del 2009, nella parte in cui esso pone limitazioni, di frequenza e durata, al diritto dei detenuti, sottoposti alla sospensione delle regole di trattamento, ai sensi del comma 2 del medesimo art. 41-bis, ad intrattenere colloqui con il loro difensore.
Il giudice delle leggi ha affermato che la norma dichiarata incostituzionale, introducendo limitazioni destinate ad operare a prescindere dalla natura e dalla complessità dei procedimenti giudiziari nei quali il detenuto è coinvolto, dal grado di urgenza dell'intervento difensivo richiesto, nonché dal numero dei legali patrocinanti, determinava una compressione indefettibile del diritto di difesa, che non trovava giustificazione nel bilanciamento tra il diritto stesso e interessi di pari rilevanza costituzionale, quali la protezione dell'ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini. Infatti - anche in conformità con la giurisprudenza della Corte EDU, secondo cui le restrizioni dei contatti confidenziali tra una persona detenuta e il suo avvocato possono avvenire solo se assolutamente necessarie - nell'operazione di bilanciamento non può esservi un decremento di tutela di un diritto fondamentale se ad esso non fa riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango, che, in applicazione della norma censurata, non è stato ravvisato.
3. La pronunzia costituzionale in questione ha ritenuto illegittimo il regime di limitazione automatica dei colloqui, ma non le limitazioni che dovessero essere individualmente imposte in ragione di particolari esigenze (in termini, Sez. 2, n. 3729 del 13/01/2015, L., Rv. 262640-01), e tanto meno ogni forma di regolamentazione dei colloqui medesimi, che risulti armonica con le caratteristiche del regime detentivo speciale e con le finalità preventive che, anche dopo le modifiche apportate dalla legge n. 94 del 2009, ad esso sono assegnate dall'ordinamento (Sez. 1, n. 52054 del 29/04/2014, P., Rv. 261809-01).
La stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 212 del 1997, aveva del resto precisato che «il diritto di conferire con il proprio difensore non può essere compresso o condizionato dallo stato di detenzione, se non nei limiti eventualmente disposti dalla legge a tutela di altri interessi costituzionalmente garantiti [...], e salva evidentemente la disciplina delle modalità di esercizio del diritto, disposte in funzione delle altre esigenze connesse allo stato di detenzione medesimo». Il principio è di ordine generale e, per i detenuti assoggettati al regime detentivo di cui all'art. 41-bis, comma 2, Ord. pen., vale, in rapporto alla funzione da esso svolta, in misura più stringente.
Nel rispetto delle esigenze funzionali del regime detentivo speciale, ed entro la cornice delineata dalla normativa di rango primario, le modalità di esercizio del diritto di colloquio con il difensore possono essere disciplinate anche da fonte secondaria, di carattere regolamentare.
Alla magistratura di sorveglianza compete di verificare il rispetto di tali confini.
4. Come ineccepibilmente ritenuto dall'ordinanza impugnata, essi non appaiono valicati.
La prescrizione (art. 16.3 della circolare dipartimentale di organizzazione del circuito detentivo speciale) - secondo cui il difensore, che intenda ricevere la telefonata dal proprio assistito, assoggettato al regime ex art. 41-bis, comma 2, Ord. pen., si debba recare in un istituto penitenziario prossimo al domicilio, o al luogo ove esercita l'attività forense - appare ragionevole, in quanto risponde all'esigenza di garantire l'esatta identità dell'interlocutore, scongiurando il rischio, anche riconducibile all'intervento di terzi, di sostituzione di persona o di deviazione di chiamata.
Il maggiore disagio, all'osservanza della prescrizione connesso, è compensato dalla salvaguardia così assicurata ai valori fondamentali della sicurezza pubblica e della prevenzione dei reati, in un’ottica di equilibrato contemperamento.
Resta fermo che la prescrizione in discussione, nella sua concreta operatività, non deve tradursi in una negazione surrettizia del diritto al colloquio con il difensore, che si avrebbe ove esso fosse esageratamente dilazionato nel tempo, o in altro modo ostacolato. Un tale comportamento potrebbe, tuttavia, essere sempre denunciato all'Autorità giudiziaria per gli interventi del caso.
Seguono la reiezione del ricorso e la condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.