Nella sentenza in esame, la Cassazione evidenzia che la segnalazione anonima non può essere utilizzata quale strumento di prova dell'illecito alla base del licenziamento disciplinare, al contrario della videoregistrazione ad essa allegata.
La Corte d'Appello di Torino rigettava il reclamo del lavoratore contro la sentenza di primo grado, la quale aveva respinto la sua opposizione all'ordinanza del Tribunale che aveva rigettato l'impugnazione del licenziamento disciplinare intimatogli dalla società presso cui lavorava.
Nello specifico, il fatto addebitato al lavoratore consisteva nell'avere...
Svolgimento del processo
1. Con sentenza 15 novembre 2018, la Corte d'appello di Torino rigettava il reclamo di M. R. avverso la sentenza di primo grado, parimenti reiettiva della sua opposizione, ai sensi dell'art. 1 comma 58 I. 92/2012, all'ordinanza dello stesso Tribunale, che ne aveva rigettato l'impugnazione del licenziamento disciplinare intimatogli il 29 marzo 2017 dalla datrice F. s.p.a.
2. In esito ad argomentato e critico scrutinio delle risultanze istruttorie (con attenta disamina del corretto ambito di utilizzazione della segnalazione anonima raccolta, inviata infine tramite il sistema EH, con la relativa videoregistrazione e di quanto poi emerso dall'indagine interna e dalle dichiarazioni testimoniali), la Corte territoriale riteneva, come già il Tribunale, la tempestività della contestazione (23 marzo 2017) rispetto al fatto addebitato (indebito rifornimento dal predetto il 10 ottobre 2016 di carburante alla propria autovettura in area non autorizzata nello stabilimento di Pomigliano), la prova della sua commissione in base alla valutazione globale degli elementi suindicati e la proporzione del licenziamento al furto di bene aziendale: così esplicitamente sanzionato dall'art. 33 CCNL di settore, in ogni caso integrante giusta causa per l'irrimediabile lesione del rapporto di fiducia tra le parti, tenuto anche conto del ruolo aziendale del lavoratore, responsabile dell'area DD, investito del compito di controllo dei dipendenti del reparto.
3. Con atto notificato il 10 gennaio 2019, il lavoratore ricorreva per cassazione con quattro motivi, cui resisteva la società con controricorso e memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.
4. Il P.G. rassegnava conclusioni scritte, a norma dell'art. 23, comma 8bis d.l. 137/20 inserito da L. conv. 176/20, nel senso del rigetto.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2 legge 179/2017 in relazione ai decreti legislativi n. 231/2001 e n. 193/2003, per introduzione, con l'articolo denunciato, di un nuovo comma 2bis nell'art. 6 d.lg. 231/2001 in relazione al suo primo comma, lett. a), e quindi all'interno di un sistema già esistente anche per le società private (non limitato pertanto alle pubbliche amministrazioni, come erroneamente ritenuto dalla Corte d'appello) dotate di un modello 231, tutelante i dipendenti in caso di segnalazioni; ed infatti la stessa F. s.p.a. avendo, per sua stessa ammissione, adottato dal luglio 2015 un sistema di Whistle Blowing (fenomeno questo da tempo introdotto in Italia alla stregua di best practices) attraverso la piattaforma EH, illecitamente utilizzato per recedere dal rapporto in questione attraverso una successiva attività di indagine non consentita, con palese violazione dalla ripresa video nascosta, ritraente l'immagine del lavoratore (indubbio dato personale protetto dal Garante della Privacy), del suo diritto al rispetto della vita privata, assicurato dall'art. 8 CEDU.
2. Esso è infondato.
3. Giova subito premettere l'inconferenza della violazione di legge denunciata (neppure correttamente, in difetto dei requisiti di configurabilità dell'errar in iudicando: Cass. 16 gennaio 2007, n. 828; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass, 15 gennaio 2015, n. 635; Cass. 18 settembre 2019, n. 23308), in quanto non applicabile ratione temporis (come correttamente ritenuto anche dalla Corte territoriale al primo capoverso di pg. 7 e all'ultimo di pg. 10 della sentenza).
Peraltro, essa neppure è rilevante ai fini del ragionamento decisorio della Corte territoriale, che ha esplicitamente qualificato "inconferenti i riferimenti della difesa del reclamante a ... normative entrate in vigore successivamente ai fatti ..., trattandosi unicamente di valutare il materiale probatorio" (così al primo capoverso di pg. 7 della sentenza): sul cui apprezzamento nella sostanza la censura si appunta.
3.1. Merita poi ribadire la distinzione tra: segnalazione anonima, da una parte, ben utilizzabile in assenza di alcun divieto di legge, neppure desumibile dal generale principio di correttezza e buona fede (che è metro di valutazione dell'adempimento degli obblighi contrattuali e non anche loro autonoma fonte), a fini di sollecitazione dell'esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro, ma non di strumento di prova dell'illecito (Cass. 14 marzo 2013, n. 6501; Cass. 4 dicembre 2017, n. 28974); videoregistrazione, dall'altra, allegata a quella, che è invece mezzo di prova, quale riproduzione meccanica ai sensi e per gli effetti previsti dall'art. 2712 c. c., in quanto non disconosciuta, come nel caso di specie, quanto alla non corrispondenza tra realtà fattuale e riprodotta, tanto meno tempestivamente (Cass. 22 aprile 2010 n. 9526; Cass. 28 gennaio 2011 n. 2117; Cass. 7 giugno 2017, n. 14191).
D'altro canto, la decisione della Corte territoriale non si è basata esclusivamente su di essa, ma sulle ulteriori risultanze istruttorie globalmente valutate (Cass. 21 settembre 2016, n. 18507): in particolare, sulle indagini interne e sulle dichiarazioni testimoniali (dal primo capoverso di pg. 12 al secondo di pg. 14 della sentenza).
3.2. Infine, occorre segnalare la novità del rapido cenno del ricorrente al profilo di violazione del diritto alla privacy in riferimento all'art. 8 CEDU (sotto la rubrica "Sul video anonimo", a pg. 16 del ricorso): la questione, implicante gli indubbi accertamenti in fatto relativi, non risulta trattata dalla sentenza impugnata, né mai prima prospettata, non avendo il ricorrente eventualmente indicato dove essa lo sia stata nei gradi di merito (Cass. 22 dicembre 2005, n. 28480; Cass. 13 dicembre 2019, n. 32804).
4. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alle risultanze processuali, violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 c.p.c., per la carenza, lacunosità e contraddittorietà degli elementi probatori a base del licenziamento intimato, rappresentati da un video anonimo (non utilizzabile come elemento di prova ma di impulso dell'attività di indagine) segnalato a distanza di un paio di mesi, da indagini prive di alcun supporto probatorio, da dichiarazioni testimoniali (del teste Balocco, responsabile del sistema EH) in contrasto con la segnalazione anonima del giorno del prelievo contestato, peraltro neppure verificabile nella data e nell'ora.
5. Esso è inammissibile.
6. Il vizio motivo non è più così denunciabile, alla luce del novellato testo dell'art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (Cass. 7 aprile 2014, n. 8053) ed in ogni caso a norma dell'art. 348ter, quinto comma c.p.c., applicabile ratione temporis: ricorre, infatti, l'ipotesi di "doppia conforme", né il lavoratore ricorrente, per evitare l'inammissibilità del motivo dedotto ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., si è curato di indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell'appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 22 dicembre 2016, n. 26774; Cass. 6 agosto 2019, n. 20994).
6.1. Ma neppure si configura la violazione dell'art. 115 c.p.c.
Essa è correttamente denunciata qualora si deduca che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiali riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio); è invece inammissibile la diversa doglianza con cui si lamenti che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall'art. 116 c.p.c. E peraltro, questa norma è sindacabile in sede di legittimità, soltanto ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o una risultanza probatoria, non abbia operato - in assenza di diversa indicazione normativa - secondo il suo "prudente apprezzamento", pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria, oppure ancora, se la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutarla secondo il suo prudente apprezzamento. Qualora si deduca invece, come nel caso di specie, che il giudice abbia solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., soltanto nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass. s.u. 30 settembre 2020, n. 20867): ipotesi qui all'evidenza non ricorrente, per l'ampia e argomentata valutazione probatoria operata dalla Corte subalpina (dall'ultimo capoverso di pg. 10 al secondo di pg. 14 della sentenza).
7. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 7 I. 300/1970, per la tardività della contestazione, in assenza di un'effettiva indagine su fatti ulteriori rispetto all'acquisizione della segnalazione con videoregistrazione (cui, per espressa dichiarazione del teste responsabile del sistema EH, la società datrice non aveva attribuito una priorità elevata), né ricorrendo una dimensione occupazionale dell'azienda, così come valorizzata dalla Corte d'appello, in riferimento al reparto cui egli era addetto (centro ex E.), tali da giustificare l'arco temporale intercorso.
8. Anch'esso è inammissibile.
9. E' noto che la ragione giustificativa della regola di immediatezza (del licenziamento e della contestazione) sia individuata nella connessione dell'onere di tempestività al principio di buona fede oggettiva e più specificamente al dovere di non vanificare la consolidata aspettativa, generata nel lavoratore, di una rinuncia datoriale all'esercizio del potere disciplinare (Cass. 17 dicembre 2008, n. 29480; Cass. 4 dicembre 2017, n. 28974).
9.1. Essa si declina, in materia di licenziamento disciplinare e con specifico riferimento alla contestazione, in senso relativo, a motivo delle ragioni che possono cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l'accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell'impresa; e la valutazione delle suddette circostanze è riservata in via esclusiva al giudice del merito, non potendo, se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici, come appunto nel caso di specie (per le ragioni esposte dall'ultimo capoverso di pg. 14 al terz'ultimo di pg. 16 della sentenza), essere sindacata in sede di legittimità (Cass. 12 gennaio 2016, n. 281; Cass. 26 giugno 2018, n. 16841; Cass. 20 settembre 2019, n. 23516).
10. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 7 I. 300/1970, per il mancato rispetto del principio di proporzionalità del licenziamento disciplinare intimato, in mancanza di prova del fatto materiale, per l'assenza di provvedimenti disciplinari precedenti a proprio carico.
11. Esso è parimenti inammissibile.
12. Occorre qui ribadire il principio, secondo cui, mentre il giudizio di sussunzione è di diritto, sottoponibile in quanto tale anche a questa Corte, quello di mera proporzionalità in concreto fra illecito disciplinare e relativa sanzione è invece giudizio di fatto, riservato al giudice di merito che deve operarlo tenendo conto di tutti i connotati oggettivi e soggettivi della vicenda: come l'entità del danno, il grado della colpa o l'intensità del dolo, l'esistenza o non di precedenti disciplinari a carico del dipendente (Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 29 marzo 2017 n. 8136; Cass. 10 luglio 2018, n. 18172). Ed è proprio ciò che è avvenuto nel caso di specie, per le ragioni, soltanto genericamente e parzialmente censurate, specificamente riferite (come esposte al primo periodo di pg. 17 della sentenza) all'obiettiva gravità del fatto commesso e alla particolare intensità del vincolo fiduciario, irreparabilmente leso, comportato dal ruolo aziendale del lavoratore, responsabile di area con compiti di controllo dei dipendenti (Cass. 12 dicembre 2012 n. 22798; Cass. 14 ottobre 2015, n. 20726; Cass. 30 maggio 2017, n. 13613; Cass. 30 luglio 2018, n. 20083).
13. Pertanto il ricorso deve essere rigettato, con la statuizione sulle spese secondo il regime di soccombenza e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il lavoratore alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13 comma quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.