
La Suprema Corte nega la rilevanza, nel riconoscimento dell'assegno divorzile, degli eventuali proventi ottenuti da uno dei coniugi attraverso il lavoro nero.
La ricorrente impugnava la sentenza di rigetto emessa dal Tribunale, al quale aveva chiesto la condanna dell'ex marito alla corresponsione dell'assegno di mantenimento, a seguito di divorzio.
La Corte d'Appello rigettava il gravame, ritenendo insussistenti i presupposti richiesti dall'
Svolgimento del processo
La Corte d'appello di Firenze, con la sentenza indicata in epigrafe, ha rigettato il gravame di cos avverso l'impugnata sentenza del Tribunale di Prato che aveva rigettato la sua domanda di condannare CHF dal quale era divorziata, a corrisponderle un assegno di mantenimento.
Ad avviso della Corte, non sussistevano i presupposti, di cui all'art. 5, comma 6, legge n. 898 del 1970, per il riconoscimento dell'assegno, avuto riguardo sia al criterio del difetto di indipendenza economica del coniuge richiedente sia a quello della conservazione tendenziale del tenore di vita matrimoniale, essendo entrambe le parti titolari delle abitazioni in cui vivevano e di redditi da lavoro per importi di minima differenza, non essendovi prova, neppure indiziaria, dello svolgimento da parte del CH di attività lavorativa "in nero".
La co propone ricorso per cassazione, resistito dal CH.
Le parti hanno presentato memorie.
Motivi della decisione
L'eccezione preliminare di inammissibilità del ricorso per difetto di valida procura speciale è infondata. La procura della co è stata apposta a margine del ricorso e in essa è chiaro il riferimento alla sentenza impugnata, essendo evincibile dal relativo testo la positiva volontà del conferente di adire il giudice di legittimità, il che si verifica certamente quando la procura al difensore forma - come netta specie - materialmente corpo con il ricorso o il controricorso al quale essa inerisce, risultando, in tal caso, irrilevanti gli eventuali errori materiali, come deve ritenersi sia l'erronea apposizione della data (anteriore a quella della sentenza) della certificazione della firma della ricorrente da parte del difensore.
Con un unico motivo complesso, che denuncia violazione degli artt. 112, 113 e 132 c.p.c. e 5, comma 6, legge n. 898 del 1970 e omesso esame di fatti decisivi, la ricorrente articola diverse censure, concernenti il disconoscimento della rilevanza della sperequazione reddituale e patrimoniale tra le parti, l'avere accertato i redditi degli ex coniugi con riferimento al momento risalente nel tempo della separazione, l'avere trascurato elementi probatori significativi che dimostravano le ampie disponibilità finanziarie del CH derivanti dallo svolgimento di attività "in nero", nonché l'onere gravante sulla co per il pagamento del mutuo acceso per l'acquisto della sua casa.
Il motivo è inammissibile, risolvendosi in una richiesta di rivisitazione di apprezzamenti di fatto svolti dai giudici di merito, i quali, diversamente da quanto sostenuto in ricorso, hanno accertato la indipendenza economica della co , in linea con la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale si deve tenere conto, in via principale, della funzione assistenziale dell'assegno divorzile, ai fini dell'attribuzione dello stesso (cfr. Cass., sez. I, n. 21234 del 2019, n. 11504 del 2017).
Priva di specificità è la questione della mancata considerazione dell'onere gravante sulla co di restituzione di somme relative a un mutuo, non precisandosi se e quando la relativa doglianza sia stata introdotta nel giudizio di merito, né in che termini la circostanza sia stata non contestata dal CH • E' noto che l'accertamento della non contestazione nel processo è riservato al giudice di merito, la cui valutazione rientra nel quadro dell'interpretazione del contenuto e dell'ampiezza dell'atto della parte ed è sindacabile in cassazione solo per vizio di motivazione (cfr. Cass. n. 27490 del 2019), cioè nei ristretti limiti di cui all'art. 360, n. 5, c.p.c.
All'esito di una analitica verifica delle condizioni reddituali delle parti, i giudici di merito hanno confutato i singoli elementi probatori valorizzati dalla stessa co come indicativi dei maggiori redditi del CH (l'acquisto di un'autovettura, l'incarico conferito ad un investigatore privato, l'iscrizione alla Camera di commercio di Prato, ecc.), fermo restando che non è la mera differenza reddituale tra le parti - che, nella specie, è minima - né l'entità dei loro redditi a giustificare, di per sé, l'attribuzione dell'assegno in proporzione alle sostanze dell'altro coniuge (cfr. Cass. n. 21234 del 2019 cit.). Né sussistono le particolari condizioni che impongono di compensare uno dei coniugi per il particolare contributo (che dimostri in concreto di avere) dato alla formazione del patrimonio comune o dell'altro coniuge durante la vita matrimoniale (cfr. Cass., SU, n. 18287 del 2018).
La doglianza riguardante il mancato espletamento di indagini tramite la polizia tributaria è, infine, inammissibile, alla luce del principio secondo cui il giudice del merito, ove ritenga «aliunde» raggiunta la prova dell'insussistenza dei presupposti che condizionano il riconoscimento dell'assegno di divorzio, può direttamente procedere al rigetto della relativa istanza, anche senza aver prima disposto accertamenti d'ufficio tramite la polizia tributaria, atteso che l'esercizio del potere officioso di disporre, per il detto tramite, indagini sui redditi e sui patrimoni dei coniugi rientra nella sua discrezionalità, non trattandosi di un adempimento imposto dall'istanza di parte, purché sia riscontrabile anche per implicito una valutazione di superfluità dell'iniziativa e di sufficienza dei dati istruttori acquisiti (dr. Cass. n. 8744 del 2019, n. 23263 del 2016).
Il ricorso è inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente alle spese, liquidate in € 2200,00, di cui € 200,00 per esborsi.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del dPR n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati.