Ciò che conta, infatti, è l'elemento intenzionale, cioè lo scopo perseguito dall'agente che, nel caso dell'esercizio arbitrario è costituito dall'attuazione di un proprio diritto mentre, nel caso di estorsione, dal conseguimento di un ingiusto profitto.
La Corte d'Appello di Bologna confermava la pronuncia di primo grado, con la quale l'imputato era stato condannato perché ritenuto responsabile del delitto di tentata estorsione.
Contro tale decisione, l'imputato propone ricorso per cassazione, lamentando l'errata qualificazione giuridica del fatto, considerando che nella sua condotta dovevano ravvisarsi tutti gli...
Svolgimento del processo
1.1 Con sentenza in data 19 dicembre 2019, la corte di appello di Bologna, confermava la pronuncia del tribunale di Modena datata 26-10-2017 che aveva condannato alle pene di legge C. B. perché ritenuto colpevole del delitto di tentata estorsione.
1.2 Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione l'imputato, tramite il proprio difensore avv.to L. L., deducendo, con unico motivo ivi riassunto ex art. 173 disp. att. cod.proc.pen., violazione degli artt. 56, 629 e 393 cod.pen. per errata qualificazione giuridica del fatto posto che, nella condotta del ricorrente, dovevano ravvisarsi tutti gli elementi costitutivi il meno grave delitto di esercizio arbitrario poiché, come già affermato dal G.I.P. di Modena nell'ordinanza con la quale era stata revocata la misura cautelare, il C. B. aveva agito per il pagamento di una fattura relativa a lavori svolti presso il cantiere della supposta vittima senza quindi richiedere il pagamento di somme non dovute.
1.3 Con parere ritualmente depositato in Cancelleria il Procuratore Generale chiedeva il rigetto del ricorso osservando come: "nel ricorso nulla pare specificato quanto alla possibilità che i correi (di cui il F. è indicato come condannato dal G.U.P." per il reato di cui all'odierno processo") avessero agito senza un fine di profitto proprio. L'esistenza del credito, pur presa in considerazione dal "Giudice della cautela", è stata poi esclusa da entrambi i giudici di merito".
Motivi della decisione
2.1 Il ricorso è fondato nei limiti che verranno esposti.
Le Sezioni Unite di questa Corte di cassazione hanno recentemente statuito che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all'elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie. (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Rv. 280027) In motivazione le Sezioni Unite hanno precisato che:" Ai fini della distinzione tra i reati di cui agli articoli 393 e 629 codice penale assume, pertanto, decisivo rilievo l'esistenza o meno di una pretesa in astratto ragionevolmente suscettibile di essere giudizialmente tutelata; nel primo, il soggetto agisce con la coscienza e la volontà di attuare un proprio diritto, a nulla rilevando che il diritto stesso sussista o non sussista, purchè l'agente in buona fede e ragionevolmente, ritengo di poterlo legittimamente realizzare; nell'estorsione, invece, l'agente non si rappresenta, quale impulso del suo operare, alcuna facoltà di agire in astratto legittima, ma tende a/l'ottenimento dell'evento di profitto mosso dal solo fine di compiere un atto che sa essere contra jus perché privo di giuridica legittimazione, per conseguire un profitto che sa non spettargli".
Le Sezioni Unite di questa Corte proseguono affermando: "ai fini dell'integrazione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la pretesa arbitrariamente coltivata dall'agente deve, peraltro, corrispondere esattamente all'oggetto della tutela apprestata in concreto dal/' ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata da/l'agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato, e l'agente deve quindi essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l'oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente (Sez. 5, n. 2819 del 24 novembre 2014 Rv 263589; Sez. 2, n. 46288 del 28 giugno 2016 Rv 268362). Pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata ovvero che il diritto oggetto della legittima tutela privata sia realmente esistente, deve, peraltro, trattarsi di una pretesa non del tutto arbitraria, ovvero del tutto sfornita di una possibile base legale, poiché il soggetto attivo deve agire nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto in ipotesi suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale avente, in astratto, apprezzabili possibilità di successo ".
Con particolare riferimento all'intensità della minaccia e della violenza quali elementi distintivi delle fattispecie, la pronuncia prosegue affermando espressamente che:" Come già evidenziato, tra le altre, da Sez. 2, n. 46288 del 28 giugno 2016, M., RV 268360 e Sez.2 n. 51433 del 4 dicembre 2013, F., RV 257375, sia l'artico/o 393 comma terzo, codice penale che l'articolo 629, comma secondo, codice penale (in quest'ultimo caso, mediante richiamo dell'articolo 628, comma terzo, numero 1 codice penale) prevedono che la pena è aumentata se la violenza o minaccia è commessa con armi, senza legittimare distinzioni tra armi bianche ed armi da fuoco:
è quindi normativamente prevista la qualificazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, aggravato dall'uso di un'arma, anche di condotte poste in essere con armi tali da rendere la violenza o la minaccia di particolare gravità, ovvero costrittiva, e comunque sproporzionata, rispetto al fine perseguito. Detto riferimento appare decisivo, atteso che, secondo il contrario orientamento, siffatta condotta dovrebbe sempre integrare gli estremi del più grave delitto di estorsione, il che, per espressa previsione di legge, non è la stessa relazione del Guardasigilli al Re sul progetto del codice penale, pur in estrema sintesi (pagina 158), osserva che la fattispecie tipica di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è comprensiva di ogni specie di violenza, fisico morale, senza attribuire, quindi, alcuna rilevanza al quantum di violenza esercitata oppure alla gravità della minaccia proferita. E' stato, infine, già evidenziato da questa Corte (sezione sesta numero 45064 del 12 giugno 2014, S., in motivazione) che le norme sostanziali poste a confronto non contengono alcuna gradazione (né verso l'alto né verso il basso) delle modalità espressive della condotta violenta o minacciosa e che le fattispecie si distinguono in base al solo finalismo della condotta, che in un caso è mirata al conseguimento di un profitto ingiusto, e nell'altro allo scopo, soggettivamente concepito in modo ragionevole, di realizzare, pur con modi arbitrali, una pretesa giuridicamente azionabile. In questa prospettiva, il livello offensivo della coercizione finisce con l'incidere sulla gradazione della pena, ma non sulla qualificazione del fatto: risulta, pertanto, evidente la carenza di tipicità che si connette all'enucleazione, in assenza di qualsiasi segnale linguistico, di una sotto fattispecie delle nozioni di violenza e minaccia, così gravemente intimidatorie da connotare ex se di ingiustizia qualunque finalismo, e dunque sostanzia/mente da annullare la funzione definitoria del corrispondente riferimento alla specifica connotazione del profitto perseguito dall'estorsore".
Ne consegue affermare che secondo le Sezioni Unite l'intensità della violenza o minaccia non può assurgere ad elemento discretivo delle fattispecie previste e punite dagli artt. 393 e 629 cod.pen. rilevando soltanto l'elemento intenzionale, in specie costituito dal fine perseguito dall'agente che, nel caso dell'esercizio arbitrario è diretto alla attuazione di un proprio diritto, mentre nell'estorsione mira al conseguimento di un profitto ingiusto perché privo di qualsiasi fondamento giuridico.
Quanto al possibile concorso dei terzi nei fatti, la stessa pronuncia precisa poi che i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni hanno natura di reato proprio non esclusivo (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Rv. 280027); in motivazione si precisa come:" Il "chiunque" indicato dagli articoli 392 e 393 cod. pen. è, dunque, soltanto il soggetto che potrebbe ricorrere al giudice al fine di esercitare un preteso diritto. 6.4. Secondo il tradizionale e consolidato insegnamento della giurisprudenza civile, l'istituto della negotiorum gestio, previsto e disciplinato dagli artt. 2028 ss. cod. civ., postula lo svolgimento di un'attività, da parte del gestore, diretta al conseguimento dell'esclusivo interesse di un altro soggetto, caratterizzato da/l'assoluta spontaneità dell'intervento del gestore, e quindi dalla mancanza di un qualsivoglia rapporto giuridico in forza del quale egli sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui (Sez. 3, n. 23823 del 22/12/2004, Rv. 579141; Sez. 1, n. 16888 del 24/07/2006, Rv. 591617). Sempre sotto il profilo civilistico, la legittimazione ad esercitare nel processo un diritto altrui è eccezionale (cfr. art. 81 cod. proc. civ., a norma del quale, "Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui"). 6.4.1. Nella giurisprudenza penale di legittimità è talora emersa la preoccupazione che, legittimando incondizionatamente il terzo ad attivarsi in luogo del reale creditore, il debitore/vittima possa trovarsi esposto a danni ulteriori rispetto a quelli connaturali alle fattispecie di reato tipiche, perché «costretto a versare denaro nelle mani di un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio, senza alcuna garanzia di effetto liberatorio» (Sez. 5, n. 5193 del 27/02/1998, P.G., L. ed altri, Rv. 211492), potendo in tali casi ingenerarsi una situazione «che non avrebbe permesso alla vittima di ottenere garanzie dell'estinzione del proprio debito con il versamento sollecitato» (Sez. 6, n. 41329 del 19/10/2011, D., n.m., in motivazione). 6.4.2. Tutto ciò premesso, osserva il collegio che la qualificazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni (a seconda dei casi, con violenza sulle cose oppure con violenza o minaccia alle persone) delle condotte poste in essere spante da terzi non appartenenti al nucleo familiare del creditore (coniuge, figlio, genitore, come emerso nella casistica giurisprudenziale innanzi riepilogata), che si siano attivati di propria iniziativa, senza previo concerto o comunque non d'intesa con il creditore, comporterebbe l'immotivata applicazione del previsto regime favorevole, che trova giustificazione, anche quanto al rispetto del principio di uguaglianza ex art. 3 Cast., proprio e soltanto nella contrapposizione tra un presunto creditore ed un presunto debitore, che risolvono la propria controversa senza adire le vie legali, pur potendo farlo (il creditore ricorrendo al giudice civile, il debitore sporgendo querela). Nel caso in cui il presunto creditore sia del tutto estraneo a/l'iniziativa del terzo negotiorum gestor, non potrà, quindi, essere configurato un reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma ricorreranno quanto meno (e salvo 13 quello che si osserverà in seguito con riguardo ai rapporti tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione) gli estremi dei corrispondenti reati comuni (danneggiamento o violenza privata)".
Secondo l'impostazione delle Sezioni Unite, quindi, solo quando l'iniziativa del terzo sia estranea alla richiesta del presunto creditore risulta non configurabile l'esercizio arbitrario.
L'applicazione dei sopra esposti principi al caso in esame comporta affermare la fondatezza del motivo con il quale si chiede la riqualificazione dei fatti di tentata estorsione nel delitto di cui all'art. 393 cod.pen.; ed invero dalla stessa ricostruzione dei fatti contenuta nelle sentenze di primo e secondo grado risulta che:
C. B. aveva lavorato unitamente ad altri propri dipendenti in un cantiere della ditta della persona offesa C.;
L'imputato aveva prima prestato servizio alle dipendenze della ditta E. del M. e dopo l'interruzione del rapporto tra tale ditta e l'appaltatore C. aveva proseguito i lavori nel cantiere;
Al termine di detto rapporto dopo essere stato licenziato dal C. aveva emesso una fattura a nome della ditta della moglie per l'importo di 12.000 euro;
La suddetta fattura veniva inviata alla ditta C. che ritenendo non dovute tali somme la restituiva tramite il proprio legale;
Successivamente la restituzione della fattura C. B. inviava presso il cantiere del C. i due coimputati F. e N. per chiederne il pagamento anche con fare minaccioso;
In occasione dell'incontro tra i tre (F., N. e C.) veniva contattato telefonicamente C. B. che rivendicava l'iniziativa ed il diritto al pagamento della somma; A fronte del rifiuto del C. veniva azionata la procedura per decreto ingiuntivo ed il C. B. otteneva l'emissione del provvedimento monitorio che veniva opposto in sede civile dal C.;
Le parti infine transigevano la causa, C. B. rinunciando al supposto credito e C. revocando la costituzione di parte civile nel procedimento penale.
Così ricostruiti i fatti sembra potersi affermare come C. B. abbia sostanzialmente sempre agito a tutela di un proprio supposto credito avendo chiesto il pagamento di una fattura per supposti lavori eseguiti nel cantiere della persona offesa; e tale credito risultava portato da un documento contabile sulla base del quale era anche emesso un decreto ingiuntivo in suo favore.
Né appare decisivo per escludere l'ipotesi dell'esercizio arbitrario l'intervento dei terzi poiché gli stessi appaiono avere agito sempre per la riscossione di quel credito chiedendo il pagamento della fattura e mettendo in contatto il C. proprio con il C. B. in occasione del colloquio, così che richiamate le considerazioni della sentenza delle Sezioni Unite va escluso che l'intervento di F. e N. abbia mutato la qualificazione giuridica dei fatti nel più grave delitto di cui all'art. 629 cod.pen.. Difatti, il reato di cui all'art. 393 cod.pen. è reato proprio ma non esclusivo così da non impedire l'eventuale concorso di terzi; e nel caso di specie l'azione minacciosa risulta sempre portata a termine dal C. B. in occasione dei colloqui telefonici avuti con il C. alla presenza dei coimputati i quali peraltro paiono avere chiesto sempre il pagamento di quella fattura non sussistendo elementi specifici per affermare che F. e N. chiesero il pagamento anche di altri importi, circostanza che certamente avrebbe determinato la sussistenza della più grave ipotesi di estorsione.
Risulta così dimostrato che la richiesta di pagamento della somma precedente l'azione monitoria venne effettuata sempre in relazione al supposto credito così da integrare la fattispecie di esercizio arbitrario secondo i chiarimenti forniti dalla cennata pronuncia delle Sezioni Unite secondo cui:" Pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata ovvero che il diritto oggetto della legittima tutela privata sia realmente esistente, deve, peraltro, trattarsi di una pretesa non del tutto arbitraria, ovvero del tutto sfornita di una possibile base legale, poiché il soggetto attivo deve agire nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto in ipotesi suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale avente, in astratto, apprezzabili possibilità di successo".
Alla luce delle predette considerazioni, pertanto, i fatti devono essere riqualificati nel delitto di cui all'art. 393 cod.pen.; la sentenza impugnata deve pertanto essere annullata sul punto.
Avuto poi riguardo al contenuto della transazione tra le parti del giugno 2009, espressamente richiamata nel ricorso e nella sentenza di appello, contenente espressa remissione di querela da parte del C. nei confronti del C. B., il reato deve dichiararsi estinto perché non procedibile per remissione di querela e l'impugnata sentenza annullata senza rinvio.
L'imputato deve essere infine condannato al pagamento delle spese del processo.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, previa riqualificazione dei fatti ai sensi dell'art. 393 C.P., e dichiara di non doversi procedere nei confronti di C. B. perché il reato è estinto per remissione di querela.
Condanna l'imputato al pagamento delle spese processuali.