Per la Cassazione, la responsabilità per i danni causati dai cani randagi spetta esclusivamente all'ente, sul quale grava l'onere di provare di avere attivato il servizio di cattura e custodia.
A seguito dell'aggressione da parte di un cane randagio, un cittadino conveniva davanti i Giudici di primo grado l'azienda sanitaria provinciale e il Comune chiedendone la condanna al risarcimento dei danni derivanti dalle lesioni personali subite.
A seguito di rigetto, la persona offesa proponeva appello dinanzi alla Corte...
Svolgimento del processo
1. AC convenne in giudizio avanti il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto il Comune di X , e l'Azienda Sanitaria Provinciale di Y chiedendone la condanna al risarcimento dei danni derivati dalle lesioni personali subite a causa del sinistro occorso in data 10 dicembre 2003, alle ore 21 circa, allorquando, uscito dalla sua abitazione allo scopo di gettare un sacchetto dell'immondizia all'interno di uno dei due cassonetti ubicati nelle vicinanze, era stato aggredito ed azzannato da un cane randagio, improvvisamente balzato da dietro i cassonetti.
Esteso il contraddittorio nei confronti della QI Ltd, chiamata in garanzia dalla Azienda Sanitaria, il tribunale, con sentenza n. 872/2018 del 3 settembre 2018, rigettò la domanda per mancanza di prova di una condotta colposa ascrivibile al comune, unico ente tenuto per legge alla vigilanza sui cani randagi e alla loro cattura (14 legge reg. Sicilia n. 15 del 2000, attuativa della legge quadro nazionale n. 281 del 1991).
2. Con sentenza n. 552/2019 del dì 8 luglio 2019 la Corte d'appello di Messina ha confermato tale decisione con riferimento alla domanda proposta nei confronti dell'Azienda Sanitaria, rilevando che questa era bensì onerata del servizio di cattura dei cani randagi in via sussidiaria, per evitare soluzione di continuità nella transizione del relativo compito al comune, ma solo «nelle aree urbane in cui il fenomeno del randagismo (era) più avvertito», e sempre che l'autorità sanitaria fosse stata posta al corrente di una simile condizione sul territorio.
Ha invece accolto l'appello in quanto proposto nei confronti del comune, riconoscendolo responsabile, ex art. 2043 cod. civ., dell'evento e per l'effetto condannandolo al pagamento, in favore dell'appellante, della somma di Euro 67,881 a titolo di risarcimento del danno.
Ha al riguardo rilevato, in sintesi, che:
- le informative di P.G. redatte nell'immediatezza dell'evento e valorizzate dal primo giudice (le quali negavano che vi fossero mai state segnalazioni della presenza di cani randagi in zona e che, da informazioni assunte sui luoghi fossero mai stati registrati simili episodi), poste a raffronto con la dichiarazione poi resa dal teste s (vicecomandante della polizia locale) che aveva affermato, sia pur con riferimento alla data della testimonianza (e quindi all'anno 2009), di essere a conoscenza dell'esistenza in zona di cani randagi, risultavano scarsamente attendibili in quanto «provocate» (o «derivate») dalla denuncia del sinistro e per essere inverosimile che la problematica non -potesse o comunque dovesse essere già allora conosciuta;
- il teste P aveva riferito di avere in precedenza notato la presenza di cani randagi nella zona, anche vedendoli aggirarsi intorno ai cassonetti proprio per la ricerca di cibo, precisando tuttavia che le lamentele non erano state formalizzate;
- se ne doveva desumere la preesistenza di un fenomeno che, a prescindere da formali denunce, avrebbe potuto e dovuto comunque ex se essere appreso e conosciuto da parte dell'ente comunale, tramite il personale preposto all'ordinario controllo del territorio;
- anche la scarsa ed insufficiente illuminazione (da tutti confermata) contribuì al sinistro, nella misura in cui la presenza del cane rappresentò una sorpresa per il C ed anche per i suoi accompagnatori del momento.
3. Avverso tale decisione il Comune di X propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui resistono gli intimati depositando controricorsi.
4. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell'art. 380-bis cod. proc. civ., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza della Corte.
La difesa del controricorrente AC ha depositato memoria ex art. 380-bis, comma secondo, cod. proc. civ..
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso il Comune di X denuncia «violazione e falsa applicazione dell'art. 14 legge reg. Sicilia
3 luglio 2000, n. 15, e del decreto Assessoriale Reg. Sicilia 13 febbraio 2001 n. 10557», per avere la corte d'appello ritenuto esente da responsabilità l'Azienda Sanitaria.
Sostiene che, in virtù del disposto dell'art. 1, comma 3, del citato decreto assessoriale a tenore del quale «Nelle more della definizione delle intese e delle procedure che consentano l'attivazione del servizio cattura cani da parte dei comuni singoli o associati, direttamente o in convenzione con enti privati o associazioni protezionistiche iscritte all'albo regionale, onde evitare l'interruzione del servizio in particolare nelle aree urbane nelle quali il fenomeno del randagismo è più avvertito, fermo restando l'obbligo dei comuni di mettere a disposizione le strutture per il ricovero dei cani ed il loro mantenimento, l'Azienda unitaria sanitaria locale, competente per territorio, continuerà ad assicurare l'espletamento del servizio cattura cani», sussistendone nella specie tutti i presupposti, avrebbe dovuto essere dichiarata la responsabilità esclusiva dell'Azienda Sanitaria.
Rileva che peraltro, diversamente da quanto ritenuto in sentenza, la normativa citata non limita l'intervento dell'Azienda sanitaria alle sole zone in cui il fenomeno fosse «maggiormente avvertito», ma prevede la persistenza a carico dell'Asl dell'obbligo del servizio cattura cani.
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all'art. 360, comma primo, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2697 e 2700 cod. civ., nonché degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. ed errata valutazione delle prove.
Lamenta che la corte peloritana ha erroneamente ritenuto provata la responsabilità del comune, sulla base di un mero giudizio di verosimiglianza, nonostante l'attore non avesse adempiuto l'onere della prova, posto a suo carico ex art. 2043 cod. civ., e nonostante sussistessero atti pubblici e testimonianze che attestavano l'inesistenza dei presupposti di legge per ottenere il risarcimento del danno.
La violazione degli artt. 2700 cod. civ., 115 e 116 cod. proc. civ. è in particolare dedotta per avere la corte d'appello valutato secondo il suo prudente apprezzamento una prova soggetta ad un diverso regime, quale avrebbe dovuto ritenersi quella rappresentata dalle informative della polizia municipale e dei carabinieri.
Lamenta ancora omesso esame del fatto decisivo, risultante dalle concordi deposizioni dei testi, rappresentato dalla riferita mancanza di segnalazioni al comune della presenza dei cani randagi ed eventi simili precedentemente avvenuti.
3. Il primo motivo è infondato.
Come questa Corte ha in più occasioni affermato, la responsabilità per i danni causati dai cani randagi spetta esclusivamente, nel concorso degli altri presupposti, all'ente, o agli enti, cui è attribuito dalla legge (ed in particolare dalle singole leggi regionali attuative della legge quadro nazionale 14 agosto 1991, n. 281) il compito di prevenire il pericolo specifico per l'incolumità della popolazione connesso al randagismo e cioè il compito della cattura e della custodia dei cani vaganti o randagi, mentre non può ritenersi sufficiente, a tal fine, l'attribuzione di generici compiti di prevenzione del randagismo, quale è il controllo delle nascite della popolazione canina e felina, avendo quest'ultimo ad oggetto il mero controllo «numerico» degli animali, a fini di igiene e profilassi, e, al più, una solo generica ed indiretta prevenzione dei vari inconvenienti legati al randagismo (v. ex aliis Cass. 18/05/2017, n. 12495 26/06/2017, n. 15167; 25/09/2018, n. 22546; 18/07/2019, n. 19404).
Il principio non può che essere qui ribadito poiché l'attribuzione per legge ad uno o più determinati enti pubblici del compito della cattura e quindi della custodia degli animali vaganti o randagi (e cioè liberi e privi di proprietario) costituisce il fondamento della responsabilità per i danni eventualmente arrecati alla popolazione dagli animali suddetti, anche quanto ai profili civilistici conseguenti all'inosservanza di detti obblighi di cattura e custodia.
Rientrando l'attività di contrasto del randagismo nell'ambito della polizia veterinaria, ed essendo quest'ultima riconducibile alla tutela della salute, si verte nell'ambito di materia oggetto di potestà legislativa concorrente, statale e regionale, ex art. 117, terzo comma, Cost. (da ultimo, Corte Cost., sentenza n. 222 del 2006).
Poiché la legge quadro statale n. 281 del 1991 non indica direttamente a quale ente spetta il compito di cattura e custodia dei cani randagi, ma rimette alle Regioni la regolamentazione concreta della materia, occorre analizzare la normativa regionale, caso per caso.
Per la Regione Sicilia, l'art. 14 della legge reg. Sicilia 3 luglio 2000 n. 15 (attuativa della legge quadro nazionale 14 agosto 1991 n. 281), attribuisce ai comuni (singoli o associati, eventualmente in convenzione con enti, privati o associazioni protezionistiche) il servizio di cattura dei cani randagi ed il loro affidamento a rifugi sanitari pubblici (che gli stessi comuni hanno l'obbligo di ristrutturare o realizzare) o privati convenzionati (con previsione di espresso divieto, per chiunque non sia addetto al servizio, di procedere alla cattura dei cani randagi).
Alla stregua delle previsioni normative sopra richiamate, dunque, come correttamente rilevato dai giudici a quibus, il compito di cattura dei randagi e di custodia degli stessi nelle apposite strutture deve ritenersi attribuito esclusivamente ai comuni, mentre alla Asl sono attribuiti semplici compiti di generale controllo della popolazione canina (ma senza alcuna competenza in relazione alla cattura e custodia di tali animali) e deve dunque escludersi una responsabilità della Asl e affermarsi solo quella del comune, per i danni causati dai cani randagi alla popolazione (v. già, in tal senso, Cass. n. 12495 del 2017, cit.).
Non può di contro giova)e il riferimento, in ricorso, a quanto previsto dal O.A. 13/02/2001, n. 10557, atteso che lo stesso non può comunque assumere rilievo, tantomeno limitativo, nella ricostruzione della disciplina ricavabile dalle norme di rango primario (la legge quadro statale) o subprimario (la legge regionale).
4. Il secondo motivo è inammissibile per aspecificità, non cogliendo l'effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata.
4.1. Questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass. 12/02/:2015, n. 2741; 26/05/2020, n. 9671) che, in base al principio del neminem laedere, la P.A. è responsabile dei danni riconducibili all'omissione dei comportamenti dovuti, i quali costituiscono il limite esterno alla sua attività discrezionale. E invero, in presenza di obblighi normativi, la discrezionalità amministrativa si arresta, poiché l'ente è tenuto ad evitare o ridurre i rischi connessi all'attività di attuazione della funzione attribuitale.
È stato inoltre evidenziato che, poiché è fuori discussione che l'omissione di una condotta rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell'evento dannoso, allorché si tratti di omissione di un comportamento di cautela imposto da una norma giuridica specifica, ovvero da una posizione del soggetto che implichi l'esistenza di particolari obblighi di prevenzione dell'evento, in caso di «concretizzazione» del rischio che la norma violata tende a prevenire, il nesso di causalità che astringe a quest'ultimo i danni conseguenti rimane presuntivamente provato (cfr. Cass. Sez. U. 11/01/2008, n. 584; Cass. 11/01/2008, n. 582; Cass. n. 274 del 2015, in motivazione; Cass. n. 9671 del 2020, in motivazione).
In tale prospettiva è stato altresì precisato che, una volta dimostrata in giudizio la sussistenza dell'obbligo di osservare la regola cautelare omessa ed una volta appurato che l'evento appartiene al novero di quelli che la norma mirava ad evitare attraverso il comportamento richiesto, non rileva, ai fini dell'esonero dalla responsabilità, che il soggetto terzo a detta osservanza abbia provato la non conoscenza in concreto dell'esistenza del pericolo (cfr. Cass. 05/05/2009, n. 10285; ,ti. 9671 del 2020, quest'ultima proprio con riferimento a danni da aggressione di cani randagi).
Ne deriva che- l'onere del danneggiato di provare, anche per presunzioni, l'esistenza di segnalazioni o richieste di intervento per la presenza abituale di cani, qualificabili come randagi, valorizzato da questa G:orte con pronuncia dalla quale il collegio non intende discostarsi (Cass. 31/07/2017, n. 18954), rimane a valle dell'onere del soggetto tenuto per legge alla predisposizione di un servizio di recupero di cani randagi abbastanza articolato di provare di essersi attivato rispetto all'onere cautelare previsto dalla normativa regionale.
4.2. Nel caso di specie, il servizio di recupero dei cani randagi grava, come detto, sul comune e la domanda risarcitoria è fondata su un fatto che costituisce concretizzazione del rischio che la norma cautelare mirava ad evitare. E poiché l'osservanza della norma cautelare implica l'approntamento di un servizio organizzato, spettava al comune dedurre e dimostrare di avervi dato compiuta osservanza in base ai principi generali in materia di nesso di causalità e di responsabilità colposa.
Solo una volta che questa prova fosse stata data spettava all'attore dedurre e dimostrare che, per esempio, il servizio era stato approntato solo sulla carta, ma che in realtà non era operativo o aveva, nella fattispecie, funzionato male, perché c'erano state specifiche segnalazioni che non avevano avuto seguito.
Nel caso di specie tale prova non è stata offerta, ma anzi, la corte di appello ha accolto la domanda avendo ritenuto al contrario dimostrato il mancato approntamento del servizio e dell'organizzazione necessaria (v. pag. 8 della sentenza, ove si afferma: «alla data del 10/12/2003 il Comune di X era omissivo verso l'obbligatoria attivazione del servizio, che già competeva all'ente comunale in forza dell'art. 14 della legge regionale») e per di più anche l’assenza, nella zona, di una efficiente raccolta dei rifiuti e di illuminazione pubblica: circostanze che anch'esse hanno contribuito a determinare le condizioni perché il grave incidente potesse verificarsi.
4.3. A fronte di tale apparato argomentativo, si appalesa incongruo e comunque infondato il riferimento, in rubrica, quale norma asseritamente violata, all'art. 2697 cod. civ., atteso che la Corte ha deciso sulla base del convincimento positivo dell'inosservanza degli obblighi gravanti sull'ente e ha comunque correttamente ritenuto quest'ultimo gravato del relativo onere.
4.4. Rimane altresì assorbita ed è comunque infondata la doglianza con cui si lamenta violazione degli artt. 2700 cod. civ., 115 e 116 cod. proc. civ.
Si censura con essa il convincimento espresso circa la preesistenza del fenomeno e l'inverosimiglianza della tesi secondo cui gli organi comunali competenti non ne fossero a conoscenza.
La doglianza, per quanto sopra detto, rimane assorbita dal rilievo sopra esposto, secondo cui la responsabilità del comune trova comunque fondamento nell'accertato inadempimento, a monte, dell'obbligo di apprestamento e organizzazione del servizio volto a prevenire il fenomeno.
Può comunque soggiungersi che il convincimento ulteriore espresso nei termini testé detti, quanto in particolare alla preesistenza del fenomeno del randagismo, costituisce frutto di un insindacabile e legittimo esercizio del potere di valutazione delle prove, cui infondatamente il ricorrente oppone un inesistente valore di prova legale al contenuto delle informative menzionate.
Mette conto al riguardo rammentare che, come già chiarito da questa Corte, costituiscono atti pubblici, a norma dell'art. 2699 c. c., soltanto gli atti che i pubbl"1c· ufficiali formano nell'esercizio di pubbliche funzioni certificative delle quali siano investiti dalla legge, mentre esulano da tale nozione gli atti dei pubblici ufficiali che non siano espressione delle predette funzioni; pertanto, non è proponibile querela di falso nei confronti della relazione di servizio redatta dai Carabinieri e dell'allegato rilevamento tecnico descrittivo, ove diretta avverso il contenuto informativo di quanto appreso o constatato dai verbalizzanti atteso che tali atti, non essendo espressione di una funzione pubblica certificativa, godono di fede privilegiata relativamente alle sole circostanze certificate dai militari in relazione all'attività direttamente svolta (data di redazione dell'atto, nominativi dei verbalizzanti, ecc.), ma non anche relativamente alle informazioni in essi contenute (Cass. 28/07/2017, n. 18757; 08/05/2018, n. 10940; 06/06/2019, n. 15334; 27/11/2019, n. 30985).
4.5. Analogamente è a dirsi dell'ulteriore censura svolta con il secondo motivo: omesso esame del fatto rappresentato dalla riferita mancanza di segnalazioni al comune della presenza dei cani randagi ed eventi simili precedentemente avvenuti.
La doglianza è infondata perché la corte peloritana ha tenuto ben presente tale dato, dandone ripetutamente atto, ma lo ha considerato irrilevante perché superato dall'assorbente rilievo che, se il comune avesse adempiuto all'obbligo di predisporre e organizzare il servizio di vigilanza e cattura, avrebbe ben potuto ex se acquisirne conoscenza.
5. il ricorso deve essere pertanto rigettato con la conseguente condanna dell'ente ricorrente alla rifusione, in favore dei controricorrenti, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo, per ciascuno dei due controricorsi.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell'art. 13, comma 1- quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell'art. 1-bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida:
a) in favore di CA in Euro 7.000; b) in favore di Azienda Sanitaria Provinciale di y RN (Europe) e QI (Europe) Ltd. (in solido tra gli stessi) in Euro 5.600 per compensi; oltre, per ciascuno dei due controricorsi, alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell'art. 1-bis dello stesso art. 13.