L'art. 54, comma 3, lett. b), D. Lgs. n. 151/2001 prevede una deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre che si sostanzia nella cessazione dell'intera attività aziendale, non anche di un suo ramo.
Il Giudice di secondo grado confermava la sentenza con la quale era stato annullato il licenziamento intimato ad una lavoratrice madre all'esito di una procedura collettiva ex
Svolgimento del processo
1. La Corte di appello di Milano, pronunziando sugli appelli riuniti proposti da H. s.r.l. in liquidazione, H. s.p.a. e L. s.r.l., ha confermato la sentenza di primo grado con la quale era stato annullato il licenziamento intimato il 26 luglio 2016 da H. s.r.l. in liquidazione a F. N. e H. s.p.a. condannata, quale cessionaria, alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro con decorrenza 18 aprile 2016 ed al pagamento, in solido con H. s.r.l. in liquidazione e L. s.r.l., dell'indennità risarcitoria maturata dal giorno del licenziamento a quello della sentenza.
2. La conferma della sentenza di primo grado è stata fondata sul rilievo, assorbente rispetto a tutte le ulteriori questioni dedotte dalle società appellanti con i rispettivi atti di impugnazione, dello stato di gravidanza della lavoratrice al momento del licenziamento intimato in esito a procedura collettiva ex lege n. 223/1991, stato di gravidanza del quale il datore di lavoro era stato peraltro in precedenza reso edotto; non era invocabile l'ipotesi derogatoria di cui all'art. 54, comma 3 lett. b), d.lgs. n. 151/2001, rappresentata dalla cessazione dell'attività aziendale, posto che, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, la deroga al divieto di licenziamento nel periodo di operatività dello stesso era consentita solo in presenza di cessazione dell'intera attività aziendale e non anche di un suo ramo, come in concreto avvenuto.
3. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso H. s.p.a. sulla base di tre motivi; F. N. ha resistito con tempestivo controricorso; H. s.r.l. in liquidazione e L. s.r.l. non hanno svolto attività difensiva.
4. F. N. ha depositato memoria ai sensi dell'art.
378 cod. proc. civ., così riqualificate le "note conclusive per la pubblica udienza".
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 54, comma 4 e comma 3 lett. c) d. lgs. n. 151/2001 censurando la sentenza impugnata per avere interpretato le disposizioni richiamate nel senso che il divieto di licenziamento della lavoratrice madre viene meno solo nell'ipotesi di totale cessazione dell'attività aziendale e non anche nel caso di cessazione di un ramo o reparto autonomo al quale la lavoratrice era addetta.
2. Con il secondo motivo di ricorso deduce omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione all'interpretazione dell'art. 47, comma 4 bis I. n. 428/1990; si duole in sintesi che la Corte di merito, ritenendo la questione assorbita, avesse omesso di pronunziare sul motivo di gravame incentrato sulla corretta interpretazione della disposizione in oggetto; secondo le società appellanti, infatti, la norma in esame andava interpretata nel senso che la deroga tramite accordi aziendali, consentita in ipotesi di procedura di insolvenza concernente il cedente, non era limitata alle condizioni del rapporto di lavoro trasferito ma contemplava anche la possibilità di incidere sul principio della necessaria continuità dei rapporti di lavoro facenti capo alla cedente con il soggetto cessionario.
3. Con il terzo motivo di ricorso parte ricorrente denunzia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione all'individuazione dei motivi di licenziamento; censura la sentenza impugnata per avere ritenuto assorbita la questione relativa al fatto che la ristrutturazione della forza lavoro non aveva avuto fondamento nel trasferimento di azienda ma nell'obiettivo del risanamento perseguito attraverso il tempestivo avvio della procedura di mobilità.
4. Il primo motivo di ricorso è infondato.
4.1. Al fine del corretto inquadramento della vicenda occorre premettere che H. s.r.l., datrice di lavoro di F. N., a seguito di gravi perdite di esercizio, aveva presentato domanda di ammissione a concordato preventivo sulla base di un piano che prevedeva la perdita di controllo della società da parte dell'attuale azionariato in continuità diretta ovvero della cessione dell'azienda ad una società di nuova costituzione, H. s.p.a., controllata da L. s.r.l. quale assuntore; in tale ultimo caso a condizione che fossero attuati alcuni interventi di risanamento dell'azienda assunta, tra cui la ristrutturazione della forza lavoro; la complessiva operazione aveva comportato la vendita dell'azienda a H. s.p.a. con passaggio di parte dei lavoratori; H. s.r.l. in liquidazione aveva quindi attivato la procedura collettiva ex lege n. 223 /1991 in esito alla quale la F. N., lavoratrice in gravidanza, era stata licenziata.
4.2. La fattispecie, per il profilo che viene in rilievo nell'esame del primo motivo di ricorso, è regolata dall'art. 54 d. lgs. n. 151/2001, recante il "Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma della L. 8 marzo 2000, n. 53, art. 15". Tale disciplina, che deriva da quella dell'art. 2 I. n. 1204/1971, sancisce il divieto di licenziamento della lavoratrice dall'inizio del periodo di gravidanza al compimento di un anno di età del figlio, con le eccezioni di cui al comma 3, tra le quali si colloca quella relativa alla "cessazione dell'attività dell'azienda cui essa è addetta".
4.3. Il tenore testuale della norma, come già osservato da precedenti di questa Corte (Cass. 18/05/2005, n. 10391, in motivazione; Cass. 07/08/2013, n. 18810; Cass. 31/07/2013 n. 18363, e, Cass. 28/09/2017 n. 22720) ai quali si ritiene di dare continuità e che devono intendersi qui richiamati anche ai sensi dell'art. 118 disp att. cod. proc. civ., indica che solo in caso di cessazione dell'attività dell'intera azienda è possibile il collocamento in mobilità della lavoratrice madre, in quanto il d.lgs. n. 151/2001, art. 54, comma 3, lett. b), prevede la non applicabilità del divieto di licenziamento di cui al comma 1 nell'ipotesi chiara di "cessazione dell'attività dell'azienda" alla quale la lavoratrice è addetta e trattandosi di norma che pone un'eccezione ad un principio di carattere generale (e cioè quello fissato dall'art. 54, comma 1, di divieto del licenziamento della lavoratrice che si trovi nelle condizioni ivi specificate), essa non può che essere di stretta interpretazione e non è suscettibile di interpretazione estensiva o analogica. Tale soluzione interpretativa si impone, del resto, anche alla luce della considerazione che essa appare come quella maggiormente idonea a garantire gli interessi, anche di rilievo costituzionali cui è finalizzata la disciplina in tema di tutela della maternità nonché a scoraggiare possibili condotte elusive della parte datoriale che per sottrarsi agli oneri connessi al periodo di tutela potrebbe essere indotta a trasferimenti della lavoratrice presso autonome strutture aziendali destinate alla chiusura.
4.4. I precedenti di legittimità invocati da parte ricorrente, precedenti che, con riferimento all'art. 2 I. n. 1204 del 1971, avevano interpretato la locuzione "cessazione dell'attività di azienda" come estensibile alla soppressione di un ramo o reparto del tutto autonomo e salva la prova del repechage (Cass. 21/12/2004 n. 23684, conf. Cass. 08/09/1999, n. 9551), non appaiono persuasivi anche per un ulteriore ordine di ragioni. Come evidenziato da Cass. 22720/2017 cit., l'art. 2, comma 3, I. n. 1204/1971, seppure conteneva una previsione analoga a quella del d.Lgs. 30 dicembre 2001, n. 151, art. 54, comma 3, lett. b) al comma 4 era priva della specificazione (del divieto di collocamento in mobilità a seguito di licenziamento collettivo, salva l'ipotesi della cessazione dell'attività dell'azienda) introdotta dal legislatore del 2001 in funzione rafforzativa della tutela della lavoratrice madre." La collocazione di tale previsione dopo quella relativa alla sospensione dal lavoro (" ... la lavoratrice non può essere sospesa dal lavoro, salvo il caso che sia sospesa l'attività dell'azienda o del reparto cui essa è addetta, sempreché il reparto stesso abbia autonomia funzionale") costituisce un'indicazione interpretativa che porta a ritenere che quello che costituiva il parametro comune assunto dalla giurisprudenza per giungere ad assimilare l'ipotesi di cessazione dell'attività di un ramo o reparto autonomo a quella dell'intera azienda, ai fini dell'operatività delle deroga al divieto legale, non sia più validamente richiamabile per le fattispecie regolate (come quella in esame) dal dal D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 e che, dunque, non sia argomentabile l'estensione interpretativa prima sostenuta.".
5. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso sono inammissibili.
5.1. Con tali motivi parte ricorrente denunzia omesso esame ai sensi dell'art. 360, comma 1 n 5 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata per omessa pronunzia questioni devolute dalle società appellanti relative alla derogabilità da parte degli accordi sindacali al principio della necessaria continuazione dei rapporti in capo alla società cessionaria dell'azienda o di un suo ramo, anche qualora, come nel caso di specie la procedura di insolvenza della cedente non abbia finalità liquidatoria ma contempli la prosecuzione dell'attività aziendale da parte del cessionario ( secondo motivo ) e relative alla corretta individuazione delle ragioni alla base del licenziamento (terzo motivo) contestandosi da parte delle società appellanti che esse risiedessero nel trasferimento dell'azienda e non nel suo risanamento, in conformità della previsione del piano industriale.
5.2. Secondo quanto si evince dalla relativa illustrazione i motivi in esame, pur formalmente denunziando vizio motivazionale ai sensi dell'art. 360, comma 1, n, 5 cod. proc. civ., non sono intesi ad incrinare la ricostruzione fattuale alla base del decisum come proprio del mezzo formalmente denunziato ma si dolgono dell'omesso esame e quindi della omessa pronunzia sulle questioni richiamate, così implicitamente mostrando di far valere un vizio riconducibile all'ambito dell'errar in procedendo ai sensi dell'art. 360, comma 1 n. 4 cod. proc. civ.
5.3. Essi, anche all'esito della operata riqualificazione sono inidonei alla valida censura della decisione, posto che nulla deducono né argomentano per contrastare, sotto il profilo logico-giuridico la valutazione di assorbimento del giudice di appello, laddove solo l'illogica dichiarazione di assorbimento di un motivo di appello si risolve in una omessa pronuncia censurabile in sede di legittimità ai sensi dell'art. 112 cod. proc. civ. (Cass. 30/04/2019, n. 11459), in relazione all'art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.
6. In base alle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto.
7. Le spese di lite sono regolate secondo soccombenza.
8. Sussistono i presupposti processuali, ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla legge n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, per il versamento a carico di parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1- bis se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 5.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge. Con distrazione.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 20012, n. 228, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle società ricorrenti dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.