Tema centrale dei rinvii pregiudiziali alla CGUE operati dalla Consulta è quello della possibilità per l'Autorità giudiziaria italiana di rifiutare la consegna di soggetti raggiunti da MAE in ipotesi non contemplate dalla disciplina nazionale ma sulle quali persistono dubbi circa la compatibilità con i diritti fondamentali della persona.
Con le ordinanze numero 216 e 217 depositate oggi, la Corte Costituzionale ha proposto due distinti rinvii pregiudiziali alla Corte di Giustizia europea in relazione ai casi in cui l'Autorità giudiziaria italiana possa rifiutare di dare esecuzione a un mandato di arresto europeo.
Nello specifico, l'ordinanza n. 216 ha ad oggetto il caso di un cittadino italiano raggiunto da MAE affinché fosse processato in Croazia per il reato di detenzione e cessione di sostanze stupefacenti. Tuttavia, dall'espletamento di una perizia medica disposta dal Giudice procedente, l'imputato era risultato affetto da patologia psichica cronica di durata indeterminabile, incompatibile con il regime carcerario. Da qui, l'Autorità giudiziaria italiana chiedeva alla Consulta di dichiarare l'illegittimità costituzionale della disciplina italiana sul MAE, la quale non prevede la possibilità di rifiutare la consegna dell'imputato in casi siffatti, sostenendo che essa contrasti con il diritto alla salute sancito dagli
Una volta rilevato che nemmeno la decisione quadro 2002/584/GAI in materia prevede la facoltà di rifiutare la consegna di un soggetto nelle condizioni sopra descritte, la Corte evidenzia che i dubbi sulla compatibilità della legge nazionale con i principi costituzionali investono inevitabilmente anche la disciplina della decisione quadro, dunque ritiene che rientri in via primaria nel diritto dell'Unione stabilire gli standard di tutela dei diritti fondamentali al cui rispetto sono subordinate legittimità e concreta esecuzione a livello nazionale della disciplina del MAE. Di conseguenza, la questione da sottoporre alla CGUE è se e in che misura i principi e le procedure stabilite in relazione agli altri motivi di rifiuto della consegna possano estendersi all'ipotesi in cui essa potrebbe esporre l'imputato al pericolo di subire un grave pregiudizio alla sua salute.
Il caso che ha dato origine, invece, all'ordinanza n. 217 inizia con la richiesta proveniente dall'Autorità giudiziaria rumena di consegnare un cittadino di uno Stato non UE residente da almeno 10 anni in Italia affinché scontasse una pena di 5 anni in un carcere rumeno. La Corte Costituzionale è stata coinvolta per via dell'asserita illegittimità costituzionale della legge nazionale sul MAE laddove non prevede la facoltà di rifiutare la consegna di un cittadino di uno Stato terzo residente legittimamente in Italia, accompagnata dall'impegno dello Stato italiano ad eseguire la pena a lui inflitta in Italia.
Mentre la decisione quadro lascia liberi gli Stati membri di rifiutare la consegna di cittadini di Stati terzi che oramai siano radicati nel territorio nazionale, la normativa italiana ha stabilito, invece, che il rifiuto possa disporsi solo a favore di un cittadino italiano o di altro Stato membro residente legittimamente ed effettivamente in Italia da almeno 5 anni, nulla prevedendo a proposito dei cittadini di Stati terzi.
Anche la risoluzione di questa questione è stata rinviata alla CGUE, chiedendo se sia compatibile con il diritto fondamentale alla vita privata e familiare dell'interessato una normativa come quella italiana che preclude automaticamente il rifiuto della consegna di cittadini di Stati terzi residenti legittimamente sul territorio nazionale. Qualora ne sia ritenuta l'incompatibilità, poi, la Consulta chiede altresì di precisare sulla base di quali criteri e presupposti, i legami dell'interessato debbano considerarsi significativi al punto da imporre allo Stato di rifiutare la consegna.
Corte Costituzionale, ordinanza (ud. 23 settembre 2021) 18 novembre 2021, n. 216
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza del 17 settembre 2020 la Corte d’appello di Milano, sezione quinta penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 18 e 18-bis della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), in riferimento agli artt. 2, 3, 32 e 110 (recte: 111, come chiarito dalla Corte rimettente nella successiva ordinanza di correzione di errore materiale del 2 febbraio 2021) della Costituzione, nella parte in cui non prevedono quale motivo di rifiuto della consegna, nell’ambito delle procedure di mandato d’arresto europeo, «ragioni di salute croniche e di durata indeterminabile che comportino il rischio di conseguenze di eccezionale gravità per la persona richiesta».
1.1.– La Corte rimettente espone che il Tribunale Comunale di Zara (Croazia) ha emesso il 9 settembre 2019 un mandato d’arresto europeo ai fini dell’esercizio dell’azione penale a carico di E. D.L., imputato del reato di detenzione a fini di spaccio e cessione di sostanze stupefacenti, commesso in territorio croato nel 2014.
La Corte d’appello di Milano, giudice competente per la procedura passiva di consegna, preso atto della documentazione medica prodotta dalla difesa, che attestava importanti disturbi psichiatrici connessi anche al pregresso abuso di sostanze stupefacenti, in particolare cannabis e metanfetamine, sottoponeva E. D.L. a perizia psichiatrica, dalla quale emergeva, tra l’altro, la presenza di un «disturbo psicotico non altrimenti specificato», che richiede la prosecuzione di terapia farmacologica e psicoterapica per evitare probabili episodi di scompenso psichico. La perizia evidenziava altresì un «forte rischio suicidario» connesso alla possibile incarcerazione, concludendo nel senso che l’interessato «non è individuo adatto alla vita carceraria, necessitando di poter mantenere il percorso [terapeutico] iniziato e che si può dire sia oggi avviato ma certamente ben lontano dall’essere concluso».
Sulla base di tale perizia, la Corte rimettente ritiene che «[i]l trasferimento in Croazia [dell’interessato], in esecuzione del m.a.e., oltre ad interrompere la possibilità di cura, con conseguente aggravamento dello stato generale dell’interessato, costituisce un concreto rischio per la salute del soggetto che potrebbe avere effetti di eccezionale gravità, stante l’acclarato rischio suicidario evidenziato dal perito».
1.2.– La Corte d’appello di Milano rileva tuttavia che l’obbligo di dare esecuzione a un mandato di arresto europeo trova una limitazione nei soli motivi di rifiuto, obbligatori o facoltativi, tassativamente previsti dagli artt. 18 e 18-bis della legge n. 69 del 2005, non essendo prevista una causa generale di rifiuto fondata sulla necessità di evitare violazioni ai diritti fondamentali della persona richiesta in consegna, come in particolare il diritto alla sua salute.
Osserva, d’altra parte, che una volta che la Corte d’appello abbia disposto la consegna dell’interessato, il presidente della Corte o un suo delegato potrebbero sospenderne l’esecuzione ai sensi dell’art. 23, comma 3, della legge stessa. Tuttavia, ad avviso del giudice rimettente tale soluzione non sarebbe idonea ad assicurare piena tutela ai diritti dell’interessato. Essa finirebbe infatti per sottrarre alla fase giurisdizionale della procedura la valutazione circa lo stato di salute dell’interessato, che verrebbe rinviata a una fase di natura esecutiva destinata a concludersi con atto non impugnabile. Inoltre, la sospensione del procedimento avrebbe, in casi come quello all’esame, durata indeterminabile, stante la natura cronica della patologia di cui soffre la persona richiesta; mentre la ratio del rimedio di cui all’art. 23, comma 3, della legge n. 69 del 2005 andrebbe individuata nella possibilità di sospendere il mandato di arresto finalizzato all’esercizio dell’azione penale «in presenza di uno stato di malattia che abbia una diagnosi ed una durata prevedibile».
Il giudice rimettente sottolinea, infine, come il caso in esame non concerna carenze strutturali o sistemiche dello Stato di emissione, tali da far venir meno la presunzione del rispetto dei diritti fondamentali da parte dello Stato medesimo, bensì esclusivamente la peculiarità della malattia psichiatrica (e le correlate esigenze di cura) dell’interessato.
1.3.– In queste condizioni, conclude la Corte milanese, la decisione di disporre la consegna dell’interessato determinerebbe la violazione del suo diritto alla salute, «declinato nelle varie accezioni di diritto all’inviolabilità fisica, e di diritto ad avere cure adeguate», e tutelato come tale tanto dagli artt. 2 e 32 Cost., quanto – a livello di diritto dell’Unione europea – dall’art. 35 della Carta dei diritti fondamentali.
Inoltre, la disciplina vigente violerebbe il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., trattando in modo deteriore le persone colpite da un mandato d’arresto europeo rispetto a coloro di cui sia richiesta l’estradizione, per i quali l’art. 705, comma 2, lettera c-bis), del codice di procedura penale prevede che la Corte d’appello pronunci sentenza sfavorevole all’estradizione «se ragioni di salute o di età comportino il rischio di conseguenze di eccezionale gravità per la persona richiesta».
Infine, la mancata previsione di un motivo di rifiuto legato alle condizioni di salute dell’interessato, in caso di malattia cronica e potenzialmente irreversibile, contrasterebbe con il principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost. (e all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), dal momento che in simili ipotesi la disciplina vigente produrrebbe – per effetto del provvedimento di sospensione dell’esecuzione successivo alla pronuncia che dispone la consegna, ex art. 23, comma 3, della legge n. 69 del 2005 – «una paralisi processuale destinata a durare un tempo del tutto indefinito». Ciò che risulterebbe in contrasto, appunto, con la duplice ratio, oggettiva e soggettiva, sottesa al principio della ragionevole durata: relativa, da un lato, al «buon funzionamento dell’amministrazione della giustizia e all’esigenza di evitare la prosecuzione di giudizi dilatati nel tempo»; e, dall’altro, al «diritto dell’imputato ad essere giudicato – o comunque a vedere conclusa la fase procedimentale cui è sottoposto – in un tempo ragionevole». Ove invece fosse consentito alla corte d’appello rifiutare la consegna nelle ipotesi all’esame, l’autorità giudiziaria di emissione ben potrebbe procedere egualmente in absentia a carico dell’interessato, e giungere così a una pronuncia definitiva a suo carico, con possibilità di attivare, a processo concluso, un mandato di arresto esecutivo.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque non fondate.
L’interveniente rileva, anzitutto, che la possibilità di sospensione della consegna garantita dall’art. 23, comma 3, della legge n. 69 del 2005 scongiurerebbe in radice qualsiasi violazione del diritto alla salute della persona richiesta.
Osserva poi che dai risultati della perizia disposta dalla Corte d’appello, come riassunti nell’ordinanza di rimessione, non emergerebbero l’irreversibilità delle patologie psichiatriche di cui l’interessato sarebbe affetto, né elementi specifici in grado di corroborare l’ipotizzato rischio suicidario; ciò che determinerebbe una insufficiente descrizione della fattispecie oggetto del giudizio.
In ogni caso, la Corte d’appello avrebbe – ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato – potuto seguire, nel caso concreto, la procedura indicata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea in una serie di casi recenti relativi a condizioni di sovraffollamento carcerario o di carenze sistemiche o generalizzate riguardanti l’indipendenza del potere giudiziario dello Stato di emissione (sono citate le sentenze 5 aprile 2016, in cause riunite C-404/15 e C-659/15 PPU, Aranyosi e Caldararu; 25 luglio 2018, in causa C-216/18 PPU, LM, 25 luglio 2018, in causa C-220/18 PPU, ML; 15 ottobre 2019, in causa C-128/18, Dorobantu), non essendovi ragione per ritenere che tale meccanismo non operi allorché «la possibile compromissione di un diritto fondamentale della persona (nella specie, addirittura il diritto alla vita) dipenda da situazioni non imputabili allo Stato di emissione». Da ciò discende, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, che «il Giudice a quo avrebbe dovuto innanzitutto provvedere all’integrazione del quadro conoscitivo a sua disposizione (soprattutto […] in riferimento alle forme di assistenza terapeutica e psicologica e di sorveglianza attivabili, in caso di consegna, da parte dello Stato di emissione) e, solo all’esito, determinarsi di conseguenza, eventualmente […] anche “…ponendo termine…” alla procedura MAE laddove l’ipotizzata problematica non apparisse risolvibile “…in tempi ragionevoli…”».
L’attivazione della procedura introdotta dalle sentenze della Corte di giustizia, a partire dalla sentenza Aranyosi, priverebbe d’altra parte di fondamento – ad avviso dell’Avvocatura generale – anche le censure relative all’asserita lesione del principio di eguaglianza rispetto alla disciplina del procedimento di estradizione, «sostanzialmente identico apparendo, a parità di condizioni, il possibile sblocco negativo delle due diverse procedure», nonché quella relativa alla ragionevole durata del procedimento di consegna, che sarebbe essa stessa incorporata nel “test Aranyosi”.
3.– E. D.L. si è costituito in giudizio a mezzo dei propri difensori, i quali nelle proprie memorie hanno insistito per l’accoglimento delle questioni prospettate, previo eventuale rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, sottolineando in particolare come l’esecuzione del mandato di arresto europeo non possa mai andare a discapito, nello stesso ordinamento dell’Unione oltre che nell’ordinamento italiano, della tutela dei diritti fondamentali della persona, tra i quali quello alla salute, direttamente connessa al valore inalienabile della dignità umana.
4.– Hanno depositato opinioni scritte, in qualità di amici curiae, l’Unione delle camere penali italiane (UCPI), nonché le associazioni European Criminal Bar Association e Fair Trials.
Con decreto del Presidente di questa Corte del 12 luglio 2021 sono state ammesse le opinioni dell’UCPI e di European Criminal Bar Association che, entrambe, adducono argomenti in favore della fondatezza delle questioni prospettate, previo eventuale rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea. L’opinione di Fair Trials non è stata ammessa in quanto redatta in lingua diversa dall’italiano, che è lingua processuale nei giudizi innanzi a questa Corte.
5.– Nel corso dell’udienza svoltasi innanzi a questa Corte, i difensori di E. D.L. hanno chiesto che siano restituiti gli atti al giudice rimettente, sostenendo che l’entrata in vigore medio tempore del decreto legislativo 2 febbraio 2021, n. 10 (Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra stati membri, in attuazione delle delega di cui all’articolo 6 della legge 4 ottobre 2019, n. 117) imporrebbe una nuova valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza delle questioni, in relazione – in particolare – alla nuova formulazione dell’art. 2 della legge n. 69 del 2005, che ad avviso dei difensori stessi imporrebbe all’autorità giudiziaria italiana di non disporre la consegna allorché essa comporti un rischio di violazione dei diritti inalienabili della persona umana riconosciuti dalla Costituzione italiana, dalla CEDU e dallo stesso art. 6 del Trattato sull’Unione europea (TUE).
Motivi della decisione
1.– La Corte d’appello di Milano, sezione quinta penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 18 e 18-bis della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), nella parte in cui tali disposizioni non prevedono quale motivo di rifiuto della consegna «ragioni di salute croniche e di durata indeterminabile che comportino il rischio di conseguenze di eccezionale gravità per la persona richiesta».
Secondo il giudice rimettente, la mancata previsione di questo motivo di rifiuto lederebbe il diritto alla salute dell’interessato, tutelato dagli artt. 2 e 32 della Costituzione.
Inoltre, il giudice rimettente lamenta una disparità di trattamento, lesiva dell’art. 3 Cost., tra la disciplina all’esame e quella prevista per le procedure di estradizione, nelle quali l’art. 705, secondo comma, lettera c-bis), del codice di procedura penale prevede espressamente che l’estradizione sia negata «se ragioni di salute o di età comportino il rischio di conseguenze di eccezionale gravità per la persona richiesta».
Infine, la disciplina censurata violerebbe il principio di ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 111, secondo comma, Cost., determinando una stasi processuale per un tempo indefinito, che potrebbe essere invece evitata ove al giudice italiano fosse consentito concludere il procedimento con il rifiuto della consegna.
2.– In sostanza, il giudice rimettente lamenta di non poter rifiutare l’esecuzione di un mandato di arresto – a differenza di quanto accade nelle procedure di estradizione – allorché la consegna dell’interessato lo esponga a un rischio di eccezionale gravità per la sua salute in relazione a patologie croniche e di durata indeterminabile.
Non compete a questa Corte la valutazione circa l’effettiva sussistenza di tale rischio nel caso all’esame del giudice rimettente. Contrariamente a quanto sostenuto dall’Avvocatura generale dello Stato, si deve infatti osservare che l’ordinanza di rimessione motiva in modo non implausibile – sulla base di una perizia psichiatrica disposta nel corso del procedimento di consegna – circa la sussistenza di un grave rischio per la salute dell’interessato, comprensivo anche di un significativo pericolo di suicidio, che potrebbe derivare da una sua consegna all’autorità giudiziaria dello Stato di emissione e dal suo collocamento in carcere durante la celebrazione del processo. Ciò è sufficiente ai fini della verifica della rilevanza nel caso in esame delle questioni di legittimità costituzionale prospettate.
3.– Occorre altresì preliminarmente precisare che, in epoca successiva all’ordinanza di rimessione, tanto l’art. 18 della legge n. 69 del 2005, concernente i motivi di rifiuto obbligatorio della consegna, quanto l’art. 18-bis della medesima legge, concernente i motivi di rifiuto facoltativo della consegna, sono stati modificati dal decreto legislativo 2 febbraio 2021, n. 10 (Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra stati membri, in attuazione delle delega di cui all’articolo 6 della legge 4 ottobre 2019, n. 117).
Peraltro, nemmeno nel testo oggi in vigore gli artt. 18 e 18-bis della legge n. 69 del 2005 prevedono che debba o possa essere rifiutata la consegna di una persona qualora ciò la esponga a un rischio di eccezionale gravità per la sua salute; sicché le questioni sollevate dal giudice rimettente potrebbero essere formulate in modo identico anche rispetto alla nuova disciplina.
In ogni caso, ai sensi dell’art. 28, comma 1, del d.lgs. n. 10 del 2021, le modifiche da esso apportate alla legge n. 69 del 2005 non si applicano ai procedimenti di esecuzione di mandati di arresto già in corso, come quello pendente innanzi al giudice rimettente. A tali procedimenti continuano invece ad applicarsi le disposizioni anteriormente vigenti, rispetto alle quali sono formulate le questioni di legittimità costituzionale in questa sede all’esame.
Per tali ragioni, deve escludersi la necessità di una restituzione degli atti per un nuovo esame della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione alla luce delle sopravvenienze normative che concernono gli artt. 18 e 18-bis della legge n. 69 del 2005.
4.– I difensori dell’interessato hanno chiesto in udienza la restituzione degli atti al giudice rimettente, per una nuova valutazione sulla rilevanza e non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale prospettate alla luce delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 10 del 2021 all’art. 2 della legge n. 69 del 2005.
Secondo la prospettazione dei difensori, la nuova formulazione dell’art. 2 della legge n. 69 del 2005, modificando il quadro sistematico di riferimento, imporrebbe al giudice rimettente di non disporre la consegna dell’interessato anche in ipotesi diverse da quelle disciplinate dagli artt. 18 e 18-bis della medesima legge, allorché la consegna comporti il rischio di violare i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione italiana, ovvero i diritti fondamentali sanciti dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea (TUE) e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), tra i quali segnatamente il diritto alla salute dell’interessato.
Tale richiesta non può essere accolta.
Infatti, le modifiche all’art. 2 della legge n. 69 del 2005 introdotte dal d.lgs. n. 10 del 2021 non si applicano alle procedure di consegna già pendenti al momento dell’entrata in vigore di tale decreto legislativo, in forza del suo art. 28, comma 1, poc’anzi menzionato; sicché la Corte d’appello rimettente dovrebbe in ogni caso fare applicazione della disciplina previgente. Né, come meglio si dirà (infra, punto 7.), tali modifiche sono in grado di alterare il quadro sistematico nel quale si collocano le odierne questioni di legittimità costituzionale.
5.– Nel merito, le questioni che questa Corte è chiamata a decidere non concernono soltanto la compatibilità delle disposizioni censurate con la Costituzione italiana, ma coinvolgono preliminarmente l’interpretazione del diritto dell’Unione europea, del quale la legge nazionale censurata costituisce specifica attuazione.
Infatti, gli artt. 3, 4 e 4-bis della decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato di arresto europeo, che disciplinano i motivi di rifiuto obbligatori e facoltativi della consegna, non includono espressamente tra i medesimi la situazione di grave pericolo per la salute dell’interessato derivante dalla consegna stessa, connesso a una patologia cronica e di durata potenzialmente indeterminabile. Pertanto, i dubbi – sollevati dal giudice rimettente – di compatibilità degli artt. 18 e 18-bis della legge n. 69 del 2005 con la Costituzione italiana non possono non investire anche la disciplina degli artt. 3, 4 e 4-bis della decisione quadro, in relazione ai corrispondenti diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta e dall’art. 6 TUE.
6.– Ai fini della decisione delle questioni prospettate, è necessario anzitutto domandarsi se il pericolo di grave danno alla salute dell’interessato conseguente alla sua consegna all’autorità giudiziaria dello Stato di emissione possa essere adeguatamente fronteggiato mediante la sospensione della consegna ai sensi dell’art. 23, comma 3, della legge n. 69 del 2005, che attua nell’ordinamento italiano la previsione di cui all’art. 23, paragrafo 4, della decisione quadro 2002/584/GAI.
La Corte d’appello di Milano ritiene che tale sospensione non costituisca rimedio adeguato ad assicurare la tutela della salute dell’interessato in casi come quello all’esame, caratterizzati dalla presenza di patologie croniche e di durata indeterminabile.
Tale assunto, condiviso dalla difesa dell’interessato, è invece contestato dall’Avvocatura generale dello Stato, che nel proprio atto di intervento ha sottolineato come nel caso in esame ben potrebbe essere disposta la sospensione della consegna.
Questa Corte condivide la valutazione del giudice rimettente, per le ragioni che seguono.
6.1. – L’art. 23, comma 3, della legge n. 69 del 2005 dispone: «Quando sussistono motivi umanitari o gravi ragioni per ritenere che la consegna metterebbe in pericolo la vita o la salute della persona, il presidente della corte di appello, o il magistrato da lui delegato, può con decreto motivato sospendere l’esecuzione del provvedimento di consegna, dando immediata comunicazione al Ministro della giustizia».
6.2.– Come anticipato, tale disposizione costituisce specifica attuazione nel diritto nazionale della previsione dell’art. 23, paragrafo 4, della decisione quadro 2002/584/GAI, che a sua volta prevede: «La consegna può, a titolo eccezionale, essere temporaneamente differita per gravi motivi umanitari, ad esempio se vi sono valide ragioni di ritenere che essa metterebbe manifestamente in pericolo la vita o la salute del ricercato. Il mandato d’arresto europeo viene eseguito non appena tali motivi cessano di sussistere. L’autorità giudiziaria dell’esecuzione ne informa immediatamente l’autorità giudiziaria emittente e concorda una nuova data per la consegna. In tal caso, la consegna avviene entro i dieci giorni successivi alla nuova data concordata».
Nella disciplina della decisione quadro, alla luce della quale la disposizione italiana deve essere interpretata, il differimento «a titolo eccezionale» della consegna sembra dunque previsto in relazione a situazioni di carattere meramente “temporaneo”, che renderebbero contraria al senso di umanità la consegna immediata dell’interessato.
6.3.– Tale rimedio pare, invece, incongruo in relazione a patologie croniche e di durata indeterminabile come quelle che affliggono l’interessato. In simili ipotesi, il differimento dell’esecuzione del mandato di arresto europeo, pur se già autorizzato dalla corte d’appello, rischierebbe di protrarsi nel tempo per una durata indefinita. Ciò finirebbe per svuotare di ogni effetto utile lo stesso provvedimento di consegna pronunciato, rischiando così di impedire allo Stato di emissione, a seconda dei casi, di esercitare l’azione penale o di eseguire la pena nei confronti dell’interessato.
Inoltre, un tale rimedio non garantirebbe piena tutela nemmeno all’interessato, il quale – come giustamente rileva il giudice rimettente – non ha oggi la possibilità di far valere le proprie patologie croniche nell’ambito del procedimento di consegna, nel quale si dispiegano appieno le sue garanzie di difesa, e si trova pertanto a doverle allegare in una fase procedimentale successiva, destinata a sfociare in un provvedimento del presidente della corte o di un suo delegato (nel senso della non invocabilità dei problemi di salute dell’interessato nel procedimento di consegna, si veda, da ultimo, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenze 25-26 giugno 2020, n. 19389 e 12-14 febbraio 2020, n. 5933).
Infine, il protrarsi nel tempo di differimenti fondati su ragioni di salute croniche ostative alla consegna manterrebbe l’interessato in una situazione di continua incertezza circa la propria sorte, in contrasto con l’esigenza di garantire un termine ragionevole di durata in ogni procedimento suscettibile di incidere sulla sua libertà personale.
6.4.– Da ciò consegue che, ad avviso di questa Corte, il rimedio della sospensione della consegna di cui all’art. 23, comma 3, della legge n. 69 del 2005 non può essere considerato rimedio congruo in caso di gravi patologie croniche e di durata indeterminabile che ostino all’esecuzione della consegna.
7.– Occorre a questo punto chiedersi se le clausole generali contenute negli artt. 1 e 2 della legge n. 69 del 2005, nel testo – applicabile nel giudizio principale – anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 10 del 2021, autorizzino l’autorità giudiziaria italiana a non disporre la consegna anche in casi diversi da quelli menzionati negli artt. 18 e 18-bis della legge, allorché la consegna stessa possa comunque esporre l’interessato al rischio di violazione di un suo diritto fondamentale riconosciuto dalla Costituzione italiana o dal diritto dell’Unione europea.
Come sopra rammentato, tale interpretazione è stata sostenuta in udienza dai difensori dell’interessato in relazione alla nuova formulazione dell’art. 2 della legge n. 69 del 2005, introdotta dal d.lgs. n. 10 del 2021, non applicabile nel giudizio principale. Tuttavia, essa potrebbe essere prospettata sulla base dei medesimi argomenti anche in relazione alla vecchia formulazione degli artt. 1 e 2 della medesima legge, che restano applicabili in quella sede. L’interpretazione in parola merita, pertanto, di essere qui esaminata funditus, giacché – ove fosse ritenuta corretta – il giudice rimettente avrebbe la possibilità di rifiutare la consegna dell’interessato già sulla base del diritto vigente, senza necessità di alcuna pronuncia di illegittimità costituzionale.
Ad avviso di questa Corte, tuttavia, una simile interpretazione non può essere condivisa, per le ragioni che seguono.
7.1.– Prima delle modifiche da ultimo intervenute con il d.lgs. n. 10 del 2021, l’art. 1, comma 1, della legge n. 69 del 2005 disponeva: «La presente legge attua, nell’ordinamento interno, le disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, di seguito denominata “decisione quadro”, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri dell’Unione europea nei limiti in cui tali disposizioni non sono incompatibili con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale in tema di diritti fondamentali, nonché in tema di diritti di libertà e del giusto processo». L’inciso finale a partire dalle parole «nei limiti in cui» è stato, ora, abrogato dal d.lgs. n. 10 del 2021.
L’art. 2 della legge n. 69 del 2005, nel testo precedente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 10 del 2021, disponeva che l’Italia avrebbe dato esecuzione al mandato di arresto europeo nel rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU, in particolare dei suoi artt. 5 e 6, e dei suoi protocolli addizionali, nonché dei «principi e [del]le regole contenuti nella Costituzione della Repubblica, attinenti al giusto processo», con particolare riferimento ai principi in materia di tutela della libertà personale, al diritto di difesa, alla responsabilità penale e alla qualità delle sanzioni penali. Tale disposizione è stata integralmente riformulata dal d.lgs. n. 10 del 2021, e prevede, ora, che «[l]’esecuzione del mandato di arresto europeo non può, in alcun caso, comportare una violazione dei principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato o dei diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione, dei diritti fondamentali e dei fondamentali principi giuridici sanciti dall’articolo 6 del trattato sull’Unione europea o dei diritti fondamentali garantiti dalla [CEDU] e dai Protocolli addizionali alla stessa». La formulazione oggi vigente restringe, dunque, la portata della clausola prevista dal testo originario, non menzionando più l’intera gamma dei principi e delle regole costituzionali, bensì soltanto i «principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato» e i «diritti inalienabili della persona» riconosciuti dalla Costituzione.
7.2.– Peraltro, né il testo previgente degli artt. 1 e 2 della legge n. 69 del 2005, né il testo oggi vigente dell’art. 2 della medesima legge chiariscono espressamente se la singola autorità giudiziaria competente per la procedura di consegna – nell’ordinamento italiano, la corte d’appello individuata ai sensi del successivo art. 5 – debba verificare, in ciascun caso concreto, se l’esecuzione di un mandato di arresto europeo emesso dall’autorità giudiziaria di altro Stato membro possa determinare la violazione di uno dei diritti o principi (nazionali ed europei) al cui rispetto la legge n. 69 del 2005, tanto nel testo previgente quanto in quello attuale, dichiara di essere vincolata.
Tali disposizioni debbono, allora, essere interpretate alla luce della complessiva disciplina della decisione quadro 2002/584/GAI, di cui l’intera legge n. 69 del 2005 costituisce attuazione nel diritto nazionale.
7.3.– Il principio generale secondo cui la decisione quadro sul mandato d’arresto europeo, e conseguentemente la sua attuazione a livello di ciascuno Stato membro, debbono rispettare i diritti fondamentali sanciti dall’art. 6 TUE è affermato esplicitamente, sia dal considerando n. 12, sia dall’art. 1, paragrafo 3, della decisione quadro. Inoltre, tale principio è sotteso all’intero ordinamento giuridico dell’Unione, nel quale – come risulta, tra l’altro, dall’art. 51, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) – i diritti fondamentali vincolano tanto le istituzioni, organi e organismi dell’Unione, in primis nella loro produzione normativa, quanto gli Stati membri allorché attuino il diritto dell’Unione.
Come affermato dalla Corte di giustizia, è però precluso agli Stati membri condizionare l’attuazione del diritto dell’Unione, nei settori oggetto di integrale armonizzazione, al rispetto di standard puramente nazionali di tutela dei diritti fondamentali, laddove ciò possa compromettere il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 26 febbraio 2013, in causa C-617/10, Fransson, paragrafo 29; sentenza 26 febbraio 2013, in causa C-399/11, Melloni, paragrafo 60). I diritti fondamentali al cui rispetto la decisione quadro è vincolata ai sensi del suo art. 1, paragrafo 3, sono, piuttosto, quelli riconosciuti dal diritto dell’Unione europea, e conseguentemente da tutti gli Stati membri allorché attuano il diritto dell’Unione: diritti fondamentali alla cui definizione, peraltro, concorrono in maniera eminente le stesse tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri (artt. 6, paragrafo 3, TUE e 52, paragrafo 4, CDFUE).
7.4.– Da ciò consegue che spetta in primo luogo al diritto dell’Unione stabilire gli standard di tutela dei diritti fondamentali al cui rispetto sono subordinate la legittimità della disciplina del mandato di arresto europeo, e la sua concreta esecuzione a livello nazionale, trattandosi di materia oggetto di integrale armonizzazione.
La puntuale previsione, agli artt. 3, 4 e 4-bis della decisione quadro 2002/584/GAI, dei possibili motivi di rifiuto della consegna, obbligatori o facoltativi, mira per l’appunto a far sì che l’attuazione concreta della disciplina sul mandato di arresto europeo rispetti i diritti fondamentali della persona – nell’estensione loro riconosciuta dalla Carta, alla luce della CEDU e delle tradizioni costituzionali comuni –, in conformità al principio enunciato dal considerando n. 12 e dall’art. 1, paragrafo 3, della decisione quadro.
Al tempo stesso, tale puntuale disciplina è funzionale ad assicurare l’uniforme ed effettiva applicazione della normativa sul mandato di arresto europeo, che è fondata sul presupposto della fiducia reciproca tra gli Stati membri circa il rispetto dei diritti fondamentali da parte di ciascuno. Tali esigenze di uniformità ed effettività comportano che sia, di regola, precluso alle autorità giudiziarie dello Stato di esecuzione rifiutare la consegna al di fuori dei casi imposti o consentiti dalla decisione quadro, sulla base di standard di tutela puramente nazionali, non condivisi a livello europeo, dei diritti fondamentali della persona interessata (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 5 aprile 2016, in cause riunite C-404/15 e C-659/15 PPU, Aranyosi e Caldararu, paragrafo 80).
7.5.– Conseguentemente, sarebbe manifestamente in contrasto con tale principio un’interpretazione del diritto nazionale che riconoscesse all’autorità giudiziaria di esecuzione il potere di rifiutare la consegna dell’interessato al di fuori dei casi tassativi previsti dalla legge in conformità alle previsioni della decisione quadro, sulla base di disposizioni di carattere generale come quelle contenute nel testo degli artt. 1 e 2 della legge n. 69 del 2005 anteriormente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 10 del 2021, o come l’art. 2 della medesima legge nella formulazione oggi vigente.
E ciò anche nell’ipotesi in cui, ad avviso del giudice competente, l’esecuzione del mandato di arresto europeo conducesse nel caso concreto a un risultato in contrasto con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale o con i diritti inviolabili della persona, dal momento che soltanto a questa Corte è riservata la verifica della compatibilità del diritto dell’Unione, o del diritto nazionale attuativo del diritto dell’Unione, con tali principi supremi e diritti inviolabili (ordinanza n. 24 del 2017, punto 6).
8.– Peraltro, lo stesso diritto dell’Unione non potrebbe tollerare che l’esecuzione del mandato di arresto europeo determini una violazione dei diritti fondamentali dell’interessato riconosciuti dalla Carta e dall’art. 6, paragrafo 3, TUE.
8.1.– Proprio per evitare che l’attuazione della decisione quadro sul mandato di arresto europeo possa determinare nel caso concreto violazioni dei diritti fondamentali dell’interessato, in situazioni nelle quali la decisione quadro non prevede espressamente motivi di rifiuto della consegna, la giurisprudenza della Corte di giustizia è, di recente, più volte intervenuta a definire, in via interpretativa, procedure idonee a conciliare le esigenze di mutuo riconoscimento ed esecuzione delle decisioni giudiziarie in materia penale con il rispetto dei diritti fondamentali dell’interessato.
Ciò è avvenuto, in particolare, in relazione al pericolo che l’esecuzione di un mandato di arresto europeo possa esporre l’interessato a condizioni di detenzione inumane e degradanti nello Stato di emissione in conseguenza di carenze sistemiche e generalizzate o che comunque colpiscono determinati gruppi di persone o determinati centri di detenzione (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenze Aranyosi, cit.; 25 luglio 2018, in causa C-220/18 PPU, ML; 15 ottobre 2019, in causa C-128/18, Dorobantu), nonché al pericolo di essere sottoposto a un processo non rispettoso delle garanzie di cui all’art. 47 CDFUE, in conseguenza di carenze sistemiche e generalizzate riguardanti l’indipendenza del potere giudiziario nello Stato di emissione (sentenze 25 luglio 2018, in causa C-216/18 PPU, LM; 17 dicembre 2020, in cause riunite C-354/20 PPU e C-412/20 PPU, L e P).
Tali procedure, basate sulla diretta interlocuzione tra le autorità giudiziarie dello Stato di esecuzione e quelle dello Stato di emissione ai sensi dell’art. 15, paragrafo 2, della decisione quadro, hanno per l’appunto lo scopo di permettere alle autorità giudiziarie dell’esecuzione di assicurarsi, nel caso concreto, che la consegna dell’interessato non lo esponga a possibili lesioni dei suoi diritti fondamentali. Solo nel caso in cui, in esito all’interlocuzione, non risulti possibile ottenere una tale assicurazione, all’autorità giudiziaria di esecuzione sarà consentito astenersi dal dar corso al mandato di arresto europeo, rifiutando dunque la consegna al di là dei casi espressamente autorizzati dagli articoli 3, 4 e 4-bis della decisione quadro.
Le citate sentenze della Corte di giustizia hanno così introdotto nel diritto dell’Unione meccanismi che consentono di assicurare la tutela dei diritti fondamentali delle persone interessate da un mandato di arresto europeo, nel quadro di un sistema di regole comuni vincolanti per tutti gli Stati membri.
8.2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha sostenuto che la Corte d’appello di Milano avrebbe già potuto, sulla base di tali sentenze della Corte di giustizia, attivare la necessaria interlocuzione con le autorità giudiziarie dello Stato di emissione, allo scopo di accertarsi se all’interessato potesse essere garantito in quello Stato, durante il processo, un trattamento idoneo a evitare gravi danni alla sua salute, e – nell’ipotesi in cui l’interlocuzione abbia esito negativo – astenersi dal dar corso alla consegna.
Questa Corte non è persuasa da tale argomento.
Le citate pronunce della Corte di giustizia, infatti, riguardano tutte pericoli di violazione dei diritti fondamentali dell’interessato connessi a carenze sistemiche e generalizzate dello Stato di emissione, o comunque a situazioni che coinvolgono determinati gruppi di persone o interi centri di detenzione. Le questioni sollevate dalla Corte d’appello di Milano, che questa Corte è chiamata a decidere, concernono invece la diversa ipotesi in cui le condizioni patologiche, di carattere cronico e di durata indeterminabile, della singola persona richiesta siano suscettibili di aggravarsi in modo significativo nel caso di consegna, in particolare laddove lo Stato di emissione ne dovesse disporre la custodia in carcere.
Occorre dunque chiedersi se anche a questa ipotesi debbano estendersi, per analogia, i principi già enunciati dalla Corte di giustizia nelle sentenze citate, con particolare riferimento all’obbligo di interlocuzione diretta tra le autorità giudiziarie dello Stato di emissione e quelle dello Stato richiesto, nonché alla possibilità, per queste ultime, di porre fine alla procedura di consegna, qualora la sussistenza di un rischio di violazione dei diritti fondamentali dell’interessato non possa essere esclusa entro un termine ragionevole.
Le segnalate esigenze di uniformità ed effettività nell’applicazione del mandato di arresto europeo nello spazio giuridico dell’Unione impongono che la risposta a tale quesito sia riservata alla Corte di giustizia, nella sua funzione di interprete eminente del diritto dell’Unione (art. 19, paragrafo 1, TUE).
9. – Peraltro, «in un quadro di costruttiva e leale cooperazione tra i diversi sistemi di garanzia» (ordinanze n. 182 del 2020 e n. 117 del 2019; sentenza n. 269 del 2017), questa Corte ritiene opportuno segnalare gli argomenti che depongono in favore dell’estensione al caso oggi in esame dei principi sanciti dalla Corte di giustizia nelle sentenze appena ricordate.
9.1.– Nell’ordinamento giuridico italiano, l’art. 32, primo comma, Cost. tutela la salute come «fondamentale diritto dell’individuo», oltre che come interesse della collettività; e non v’è dubbio, nella giurisprudenza costituzionale, che tale diritto appartenga altresì al novero dei «diritti inviolabili dell’uomo» riconosciuti dall’art. 2 Cost. Dal diritto in parola discendono, a carico dei poteri pubblici, non solo il dovere di astenersi da condotte lesive, ma anche l’obbligo positivo di assicurare i trattamenti sanitari indispensabili per la tutela della salute della persona. Nell’ordinamento italiano, tale diritto è riconosciuto nella sua pienezza anche alle persone detenute, tanto se condannate in via definitiva (da ultimo, sentenza n. 245 del 2020), quanto se in stato di custodia cautelare.
Proprio per tutelare tale diritto, il diritto processuale penale italiano esclude, in linea di principio, che possa essere disposta o mantenuta la custodia cautelare in carcere di persona affetta da una «malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in casi di detenzione in carcere» (art. 275, comma 4-bis, cod. proc. pen.). Tale principio trova poi ulteriore e più specifica declinazione nella disciplina relativa agli imputati tossicodipendenti o alcooldipendenti che abbiano in corso programmi terapeutici stabilita dall’art. 89 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), la quale pure prevede, in linea di principio, la sostituzione della custodia cautelare in carcere con la meno afflittiva misura degli arresti domiciliari per chi abbia in corso, ovvero intenda sottoporsi a, un programma di recupero.
9.2.– Non v’è dubbio, inoltre, che la salute costituisca un diritto fondamentale della persona anche dal punto di vista del diritto dell’Unione.
Se l’art. 3 CDFUE appare tutelare la salute principalmente nella sua dimensione di diritto (negativo) a non subire lesioni della propria integrità fisica, l’art. 35 CDFUE sancisce il diritto di ottenere cure mediche e impegna gli Stati membri a garantire un «livello elevato di protezione della salute umana». Tali diritti non possono non essere riconosciuti nella loro pienezza anche nei confronti di chi sia accusato di avere commesso un reato, come nel caso oggetto del giudizio principale.
Inoltre, laddove la consegna dell’interessato allo Stato di emissione di un mandato di arresto europeo dovesse esporre l’interessato medesimo a un serio rischio di gravi conseguenze pregiudizievoli per la sua salute, si profilerebbe altresì una lesione dell’art. 4 CDFUE, che sancisce il diritto della persona – non bilanciabile con alcun altro controinteresse, stante la sua natura assoluta (sentenza Aranyosi, paragrafo 85) – a non subire trattamenti inumani o degradanti, in termini coincidenti con quelli derivanti dall’art. 3 CEDU. In proposito, merita rilevare che secondo la Corte EDU l’estradizione di una persona afflitta da gravi patologie mentali in uno Stato nel quale sarà verosimilmente detenuta in custodia cautelare, senza accesso a terapie appropriate in relazione alle sue condizioni, costituirebbe una violazione dell’art. 3 CEDU (sentenza 16 aprile 2013, Aswat contro Regno Unito; si vedano altresì – per l’affermazione che integrerebbe una violazione dell’art. 3 CEDU l’espulsione di un ricorrente afflitto da gravi patologie, in mancanza di assicurazioni adeguate da parte dello Stato di origini sulla disponibilità in loco delle terapie necessarie – Corte EDU, sentenza 1° ottobre 2019, Savran contro Danimarca, in relazione a una persona afflitta da problemi psichiatrici, nonché Corte EDU, grande camera, sentenza 13 dicembre 2016, Paposhvili contro Belgio, concernente invece una persona afflitta da gravi patologie di carattere fisico).
Il medesimo principio è stato, d’altronde, affermato dalla stessa Corte di giustizia in una sentenza concernente la disciplina europea dell’asilo, ove si è escluso, sulla base dell’art. 4 CDFUE, che possa essere trasferito nello Stato di ingresso un soggetto richiedente protezione internazionale affetto, tra l’altro, da «tendenze suicide periodiche», laddove il trasferimento comporti «un rischio reale e acclarato che l’interessato subisca trattamenti inumani o degradanti» derivanti non già da eventuali carenze sistemiche dello Stato membro competente per l’esame della richiesta di asilo, ma dalla stessa condizione individuale di sofferenza del richiedente asilo, suscettibile di essere «esacerbata da un trattamento risultante da condizioni di detenzione» (sentenza 16 febbraio 2017, in causa C-578/16 PPU, C. K. e a. contro Republika Slovenija, paragrafi 37 e 68).
9.3.– D’altro canto, l’esigenza di tutelare i diritti fondamentali della persona richiesta deve essere conciliata con l’interesse a perseguire i sospetti autori di reato, ad accertarne la responsabilità e, se giudicati colpevoli, ad assicurare nei loro confronti l’esecuzione della pena. Tale interesse non può, anzi, considerarsi come appartenente al solo Stato di emissione del mandato d’arresto europeo, dal momento che la decisione quadro 2002/584/GAI presuppone un impegno comune degli Stati membri a «lottare contro l’impunità di una persona ricercata che si trovi in un territorio diverso da quello nel quale si suppone abbia commesso un reato» (Corte di giustizia, sentenza L e P, paragrafo 62, e ulteriori precedenti ivi citati).
In proposito, conviene anche rammentare che, in un recente caso in cui uno Stato membro aveva negato l’esecuzione di un mandato di arresto europeo emesso da altro Stato membro in relazione a un processo penale per omicidio, la Corte EDU – ritenuto ingiustificato tale rifiuto – ha ravvisato la violazione, da parte dello Stato di esecuzione, dei propri obblighi procedurali, discendenti dall’art. 2 CEDU, di assicurare che le persone sospettate di aver commesso un omicidio siano processate e, ove ritenute colpevoli, condannate nello Stato ove il reato è stato commesso (Corte EDU, sentenza 9 luglio 2019, Romeo Castaño contro Belgio).
La pur imprescindibile tutela del diritto fondamentale alla salute della persona richiesta non può, insomma, condurre a soluzioni che comportino la sistematica impunità di gravi reati.
9.4.– D’altra parte, neppure sarebbe ipotizzabile lasciare allo Stato di emissione la sola opzione di procedere in absentia nei confronti dell’interessato, come il giudice rimettente pare suggerire. Da un lato, infatti, non tutti gli Stati membri permettono la celebrazione di processi in absentia; dall’altro, anche ove giuridicamente possibile, una tale soluzione finirebbe per pregiudicare l’interessato stesso, che sarebbe privato della possibilità di difendersi efficacemente in un processo potenzialmente destinato a concludersi con una condanna esecutiva nei propri confronti.
9.5.– Pare invece a questa Corte che, in analogia a quanto stabilito dalla Corte di giustizia nelle sentenze poc’anzi citate (punto 8.1.), una diretta interlocuzione tra le autorità giudiziarie dello Stato di emissione e quello dell’esecuzione potrebbe consentire di individuare soluzioni che permettano, nel caso concreto, di sottoporre a processo l’interessato nello Stato di emissione garantendogli la pienezza dei diritti di difesa e al contempo evitino di esporlo al pericolo di grave danno alla salute, ad esempio attraverso la sua collocazione in idonea struttura nello Stato di emissione durante il processo. Soltanto laddove, all’esito di tale interlocuzione, non si rinvengano soluzioni idonee entro un termine ragionevole, dovrebbe essere consentito all’autorità giudiziaria di esecuzione di rifiutare la consegna.
10.– Tutto ciò premesso, questa Corte ritiene di sospendere il giudizio in corso e di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), il quesito se l’art. 1, paragrafo 3, della decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato di arresto europeo, letto alla luce degli artt. 3, 4 e 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea (CDFUE), debba essere interpretato nel senso che l’autorità giudiziaria di esecuzione, ove ritenga che la consegna di una persona afflitta da gravi patologie di carattere cronico e potenzialmente irreversibili possa esporla al pericolo di subire un grave pregiudizio alla sua salute, debba richiedere all’autorità giudiziaria emittente le informazioni che consentano di escludere la sussistenza di questo rischio, e sia tenuta a rifiutare la consegna allorché non ottenga assicurazioni in tal senso entro un termine ragionevole.
Considerato, infine, che la causa in esame – pur essendo originata da un procedimento concernente una persona attualmente non sottoposta ad alcuna misura cautelare – solleva questioni interpretative relative ad aspetti centrali del funzionamento del mandato d’arresto europeo, e che l’interpretazione richiesta è idonea a produrre conseguenze generali, tanto per le autorità chiamate a cooperare nell’ambito del mandato d’arresto europeo, quanto per i diritti delle persone ricercate, si richiede che il presente rinvio pregiudiziale sia deciso con procedimento accelerato, ai sensi dell’art. 105 del regolamento di procedura della Corte di giustizia.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dispone di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE):
se l’art. 1, paragrafo 3, della decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato di arresto europeo, letto alla luce degli artt. 3, 4 e 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea (CDFUE), debba essere interpretato nel senso che l’autorità giudiziaria di esecuzione, ove ritenga che la consegna di una persona afflitta da gravi patologie di carattere cronico e potenzialmente irreversibili possa esporla al pericolo di subire un grave pregiudizio alla sua salute, debba richiedere all’autorità giudiziaria emittente le informazioni che consentano di escludere la sussistenza di questo rischio, e sia tenuta a rifiutare la consegna allorché non ottenga assicurazioni in tal senso entro un termine ragionevole;
2) chiede che la questione pregiudiziale sia decisa con procedimento accelerato;
3) sospende il presente giudizio sino alla definizione della suddetta questione pregiudiziale;
4) ordina la trasmissione di copia della presente ordinanza, unitamente agli atti del giudizio, alla cancelleria della Corte di giustizia dell’Unione europea.
Corte Costituzionale, ordinanza (ud. 21 ottobre 2021) 18 novembre 2021, n. 217
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza del 27 ottobre 2020, la Corte d’appello di Bologna, sezione prima penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), come introdotto dall’art. 6, comma 5, lettera b), della legge 4 ottobre 2019, n. 117 (Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2018).
La disposizione è censurata «nella parte in cui non prevede il rifiuto facoltativo della consegna del cittadino di uno Stato non membro dell’Unione europea che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la Corte di appello disponga che la pena o la misura di sicurezza irrogata nei suoi confronti dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro dell’Unione europea sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno».
Il giudice rimettente ritiene che tale omessa previsione contrasti con gli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio del 13 giugno 2002 relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra gli Stati membri, all’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e all’art. 17, paragrafo 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (PIDCP), nonché con gli artt. 2, 3, e 27, terzo comma Cost.
1.1.– Il giudizio principale concerne l’esecuzione di un mandato di arresto europeo ai fini all’esecuzione della pena, emesso il 13 febbraio 2012 dalla Pretura di Bra¿ov (Romania) nei confronti di O. G., cittadino moldavo ma stabilmente radicato in Italia dal punto di vista familiare e lavorativo. Secondo quanto riferito dal giudice rimettente, O. G. è stato condannato in via definitiva, in Romania, alla pena di cinque anni di reclusione per i delitti di evasione fiscale e appropriazione indebita delle somme dovute per il pagamento delle imposte sui redditi e dell’IVA, commessi in qualità di amministratore di una società a responsabilità limitata tra settembre 2003 e aprile 2004.
Con una prima sentenza depositata il 7 luglio 2020, la Corte d’appello di Bologna ha disposto la consegna di O. G. all’autorità giudiziaria di emissione.
Su ricorso dell’interessato, il 16 settembre 2020 la Corte di cassazione ha annullato con rinvio tale sentenza, invitando la Corte d’appello di Bologna a valutare l’opportunità di sollevare questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005 sotto vari profili, richiamando altresì la propria ordinanza del 4 febbraio 2020, n. 10371, con la quale la stessa Corte di cassazione aveva già sottoposto a questa Corte numerose questioni di legittimità costituzionale della medesima disciplina.
Con l’ordinanza che ha dato origine al presente giudizio la Corte d’appello di Bologna, rilevato che la difesa dell’interessato «ha adeguatamente fornito la prova di [un suo] stabile radicamento familiare e lavorativo sul territorio nazionale», ha sollevato le questioni di legittimità costituzionale sopra enunciate per i motivi di seguito riassunti.
1.2.– Il giudice a quo osserva anzitutto che l’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, il quale enumera i motivi di non esecuzione facoltativa del mandato d’arresto europeo, consente allo Stato di esecuzione del mandato di rifiutare la consegna, finalizzata all’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà irrogate dallo Stato di emissione, della persona che sia cittadino, ovvero, pur senza esserlo, «dimori» o «risieda» nello Stato richiesto, impegnandosi a eseguire esso stesso la pena o misura di sicurezza irrogate, conformemente al suo diritto interno. Tale possibilità mirerebbe a garantire un’effettiva funzione risocializzante della pena, rendendo possibile il mantenimento dei legami familiari e sociali del condannato, per favorirne un corretto reinserimento al termine dell’esecuzione. La risocializzazione dovrebbe essere garantita a ogni condannato, senza distinzioni fondate sulla cittadinanza.
Il medesimo obiettivo di risocializzazione del condannato ispirerebbe del resto anche l’art. 5, punto 3, della decisione quadro, che consente di subordinare l’esecuzione del mandato rilasciato ai fini dell’esercizio dell’azione penale, emesso nei confronti del «cittadino o residente dello Stato membro di esecuzione», alla condizione che la persona, dopo essere stata ascoltata, sia rinviata nello Stato di esecuzione per scontarvi la pena o la misura di sicurezza eventualmente irrogate nello Stato emittente.
Secondo il giudice rimettente, l’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, che traspone nell’ordinamento italiano l’art. 4, punto 6, della decisione quadro, ne ha indebitamente ristretto l’ambito applicativo, in quanto la facoltà di rifiutare la consegna, in caso di mandato di arresto finalizzato all’esecuzione della pena o della misura di sicurezza, è limitata ai soli cittadini italiani o di altri Stati membri dell’Unione europea, ad esclusione dei cittadini di paesi terzi. Questi ultimi non potrebbero scontare in Italia la pena inflitta nello Stato emittente, pur se dimostrino di avere instaurato saldi legami di natura economica, professionale o affettiva in territorio italiano.
In conseguenza di tale limitazione, la disposizione censurata si porrebbe al di fuori della lettera e della ratio ispiratrice dell’art. 4, punto 6, dell’indicata decisione quadro, così violando gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. Secondo il rimettente, infatti, rientra nella discrezionalità degli Stati membri decidere se attuare o meno i motivi di non esecuzione facoltativa del mandato d’arresto. Qualora però decidano di trasporli nei rispettivi ordinamenti interni, essi sarebbero tenuti ad attenersi al contenuto della decisione quadro, che non distingue tra persone cittadine dello Stato di esecuzione, o persone ivi residenti o dimoranti.
Inoltre, imponendo la consegna anche di persone stabilmente radicate in Italia ai fini dell’esecuzione di una pena detentiva all’estero, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con la finalità rieducativa della pena, sancita dall’art. 27, terzo comma, Cost., nonché con il diritto alla vita familiare dell’interessato, tutelato dall’art. 2 Cost. e dall’art. 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 8 CEDU e 17, paragrafo 1, PIDCP, nonché dagli artt. 11 e ancora 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 CDFUE.
Sarebbe, infine, irragionevole – e pertanto lesiva dell’art. 3 Cost. – la diversità di trattamento tra il cittadino di uno Stato terzo, stabilmente radicato in Italia e destinatario di un mandato di arresto rilasciato per l’esecuzione di una pena o una misura di sicurezza privative della libertà – che, ai sensi dell’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, non può beneficiare del rifiuto della consegna e scontare in Italia la pena irrogata nello Stato emittente – e il cittadino di uno Stato terzo, parimenti radicato in Italia ma destinatario di una mandato d’arresto rilasciato ai fini dell’esercizio dell’azione penale – che invece potrebbe scontare in Italia la pena irrogata dallo Stato emittente all’esito del processo.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate.
2.1.– L’interveniente rammenta anzitutto che, con l’ordinanza n. 60 del 2021, questa Corte ha disposto la restituzione degli atti del giudizio di legittimità costituzionale promosso dalla Corte di cassazione con ordinanza n. 10371 del 2020, per una nuova valutazione della non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità dell’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, alla luce delle modifiche recate alla disciplina censurata dal decreto legislativo 2 febbraio 2021, n. 10 (Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, in attuazione delle delega di cui all’art. 6 della legge 4 ottobre 2019, n. 117).
2.2.– Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, le questioni sollevate dalla Corte d’appello di Bologna sarebbero comunque inammissibili.
Il giudice a quo non avrebbe adeguatamente argomentato in ordine al dedotto stabile radicamento in Italia di O. G., essendosi limitato a riferire che l’interessato aveva fornito prove adeguate in tal senso.
Sarebbe anche insufficiente la motivazione del giudice rimettente circa il contrasto dell’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005 con i parametri costituzionali evocati. Detti parametri sarebbero peraltro richiamati in modo impreciso, atteso che il dispositivo dell’ordinanza di rimessione fa riferimento agli artt. 3, 11, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., laddove la motivazione evoca gli artt. 2, 11, e 117, primo comma, Cost.
Le questioni sarebbero infine inammissibili perché il giudice a quo non avrebbe tentato di interpretare la disposizione censurata in modo conforme alla Costituzione.
2.3.– A parere dell’Avvocatura generale dello Stato le questioni sarebbero, in ogni caso, non fondate.
2.3.1.– Come risulta dai lavori preparatori della decisione quadro 2002/584/GAI, quest’ultima avrebbe delineato un meccanismo semplificato di arresto e consegna delle persone ricercate, fondato sulla possibilità di perseguire e condannare il cittadino dell’Unione europea nel luogo dove ha commesso un reato, indipendentemente dalla sua nazionalità, ma consentendo l’esecuzione della pena detentiva nello Stato membro in cui egli abbia maggiori possibilità di reinserimento sociale.
Il possesso dello status di cittadino dell’Unione fonderebbe la possibilità, prevista dal censurato art. 18-bis, lettera r) (recte: comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005, di rifiutare la consegna ai fini dell’esecuzione della pena della persona stabilmente residente o dimorante in Italia, sicché tale motivo di rifiuto si applicherebbe ai soli cittadini italiani e di altri Stati membri dell’Unione (è citata Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 5-6 novembre 2019, n. 45190).
L’esclusione dei cittadini di paesi terzi dalla possibilità di invocare il motivo di rifiuto in questione non lederebbe l’art. 3 Cost., atteso che la possibilità di dare rilievo al radicamento sul territorio nazionale del cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea si connette strettamente al fascio di diritti e libertà discendenti dalla cittadinanza dell’Unione.
2.3.2.– Le disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI sarebbero inoltre da interpretare in ossequio al principio generale del riconoscimento reciproco delle decisioni, enunciato all’art. 1, paragrafo 2, che impone di considerare il rifiuto di esecuzione del mandato d’arresto europeo come un’eccezione alla generale regola di esecuzione del mandato stesso (è citata Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 13 dicembre 2018, in causa C-514/17, Sut, paragrafo 28). Gli Stati membri non potrebbero dunque estendere le ipotesi di rifiuto dell’esecuzione del mandato d’arresto oltre quelle delineate dalla decisione quadro, di cui l’ordinanza di rimessione non coglierebbe la ratio.
2.3.3.– Quanto alla dedotta violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., non sarebbe condivisibile l’interpretazione offerta dal giudice a quo dell’ambito applicativo dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro. Questa disposizione, pur volta a favorire il reinserimento sociale della persona ricercata, non può limitare la portata del principio del reciproco riconoscimento (sono richiamate Corte di giustizia, sentenze 13 dicembre 2018, in causa C-514/17, Sut, e 6 ottobre 2009, in causa C-123/08, Wolzenburg). Il censurato art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, consentendo di rifiutare la consegna del cittadino italiano o di altro Stato membro dell’Unione, ma non del cittadino di Stato terzo, avrebbe correttamente trasposto l’art. 4, punto 6, della decisione quadro.
Del resto, la formulazione di tale previsione sarebbe il frutto del controllo operato da questa Corte, con la sentenza n. 227 del 2010, circa il corretto ed esaustivo recepimento, sul punto, del diritto dell’Unione europea da parte del legislatore italiano.
La stessa Corte di giustizia avrebbe ribadito – sia pure in relazione all’Accordo relativo alla procedura di consegna tra gli Stati membri dell’Unione europea da un lato, e l’Islanda e la Norvegia dall’altro – che il divieto di discriminazione in base alla nazionalità di cui all’art. 18 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) non si applica alle differenze di trattamento tra cittadini degli Stati membri e di paesi terzi, e che l’art. 21 TFUE, il quale accorda il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, non concerne i cittadini di Paesi terzi (Corte di giustizia, sentenza 2 aprile 2020, in causa C-897/19, Ruska Federacija).
2.3.4.– Quanto alla dedotta lesione del principio rieducativo, l’Avvocatura generale dello Stato osserva che il reinserimento della persona condannata non costituisce lo scopo specificamente perseguito dalla decisione quadro 2002/584/GAI. Tale finalità sarebbe invece perseguita dalla decisione quadro 2008/909/GAI del Consiglio, del 27 novembre 2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea. Neppure quest’ultima, peraltro, conterrebbe previsioni generalizzate, volte a far eseguire le pene detentive o le misure privative della libertà personale irrogate a cittadini di paesi terzi, nello Stato membro ove essi risiedono o dimorano abitualmente.
Del resto, mentre la capacità rieducativa della pena, che sia attuata in territorio italiano, potrebbe presumersi in relazione al cittadino italiano, essa dovrebbe essere dimostrata per il cittadino straniero, anche in considerazione del carattere non automatico della sua permanenza in Italia dopo l’esecuzione della pena.
2.3.5.– Non integrerebbe un’irragionevole disparità di trattamento la differenza tra la disciplina posta dal censurato art. 18-bis, comma 1, lettera c) della legge n. 69 del 2005 (che permette di rifiutare la consegna finalizzata all’esecuzione di pene o misure di sicurezza con riferimento ai cittadini italiani e di altri Stati membri dell’Unione, ma non ai cittadini di paesi terzi) e quella recata dall’art. 19, comma 1, lettera c), della medesima legge (che invece consente, in relazione sia ai cittadini italiani e di altri Stati membri, sia quelli di paesi terzi residenti o dimoranti in Italia, di subordinare la consegna finalizzata all’esercizio dell’azione penale, alla condizione che la pena o la misura di sicurezza eventualmente irrogate nello Stato di emissione siano scontate in Italia).
Sarebbe infatti diversa la finalità sottesa al mandato d’arresto processuale, e cioè quella di ridurre la celebrazione di procedimenti in absentia.
2.3.6.– Anche a prescindere da tale profilo, la nozione di residenza contemplata agli artt. 4, punto 6, e 5, punto 6 (recte: 5, punto 3), della decisione quadro 2002/584/GAI, e agli artt. 18-bis e 19, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005 dovrebbe essere interpretata in conformità alla sentenza n. 227 del 2010 di questa Corte e, dunque, in modo da includere solo il cittadino italiano o il cittadino di altro Stato membro dell’Unione legittimamente ed effettivamente residente nel territorio italiano, e non invece il cittadino di Paese terzo, sicché l’ambito applicativo di dette disposizioni verrebbe a coincidere.
Motivi della decisione
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Bologna, sezione prima penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005, come introdotto dall’art. 6, comma 5, lettera b), della legge n. 117 del 2019.
La disposizione è censurata «nella parte in cui non prevede il rifiuto facoltativo della consegna del cittadino di uno Stato non membro dell’Unione europea che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la Corte di appello disponga che la pena o la misura di sicurezza irrogata nei suoi confronti dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro dell’Unione europea sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno».
In sintesi, l’omessa previsione di tale motivo di rifiuto si porrebbe in contrasto:
– con gli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione in relazione all’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, che sarebbe stato erroneamente trasposto dal legislatore italiano, il quale avrebbe indebitamente limitato la possibilità – prevista in via generale da tale disposizione della decisione quadro – di rifiutare la consegna della persona che dimori o risieda in Italia alle sole ipotesi in cui tale persona sia cittadina italiana o di altro Stato membro, con esclusione dell’ipotesi in cui essa sia cittadina di un paese terzo;
– con l’art. 27, terzo comma, Cost., dal momento che l’impossibilità di scontare la pena in Italia frustrerebbe la funzione rieducativa della pena rispetto a condannati cittadini di paesi terzi che siano stabilmente radicati nel territorio italiano;
– con gli artt. 2 e, ancora, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 CEDU e 17, paragrafo 1, PIDCP, nonché, assieme all’art. 11 Cost., in relazione all’art. 7 CDFUE, poiché l’impossibilità di scontare la pena in Italia lederebbe il diritto alla vita familiare di condannati cittadini di paesi terzi che siano stabilmente radicati nel territorio italiano;
– con l’art. 3 Cost., stante l’irragionevole disparità di trattamento tra il cittadino di uno Stato terzo, stabilmente radicato in Italia e destinatario di un mandato di arresto rilasciato per l’esecuzione di una pena o una misura di sicurezza privative della libertà, il quale non può beneficiare del rifiuto della consegna e scontare in Italia la pena irrogata nello Stato emittente ai sensi del censurato art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, e il cittadino di uno Stato terzo, parimenti radicato in Italia ma destinatario di una mandato d’arresto rilasciato ai fini dell’esercizio dell’azione penale, che invece avrebbe il diritto di scontare in Italia la pena irrogata dallo Stato emittente all’esito del processo ai sensi dell’art. 19, comma 1, lettera c), della medesima legge.
2.– Preliminarmente all’esame di tali censure, occorre anzitutto precisare che l’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, è stato modificato, successivamente all’ordinanza di rimessione, dall’art. 15, comma 1, del decreto legislativo 2 febbraio 2021, n. 10 (Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra stati membri, in attuazione delle delega di cui all’articolo 6 della legge 4 ottobre 2019, n. 117).
2.1.– Nella versione in vigore al momento dell’ordinanza di rimessione, la disposizione censurata prevedeva la possibilità per la corte d’appello di rifiutare la consegna «se il mandato d’arresto europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, qualora la persona ricercata sia cittadino italiano o cittadino di altro Stato membro dell'Unione europea, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la corte di appello disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno».
2.2.– Nella versione modificata dal menzionato d.lgs. n. 10 del 2021 e attualmente in vigore, il nuovo comma 2 dell’art. 18-bis prevede: «[q]uando il mandato di arresto europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, la corte di appello può rifiutare la consegna della persona ricercata che sia cittadino italiano o cittadino di altro Stato membro dell’Unione europea legittimamente ed effettivamente residente o dimorante nel territorio italiano da almeno cinque anni, sempre che disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno».
2.3.– Dal confronto tra le due versioni dell’art. 18-bis emerge che la corte d’appello, ove disponga l’esecuzione della pena o della misura di sicurezza in Italia:
– poteva sotto il regime previgente, e tuttora può, rifiutare la consegna di un cittadino italiano;
– poteva, sotto il regime previgente, rifiutare la consegna di un cittadino di altro Stato membro alla semplice condizione che questi avesse «legittimamente ed effettivamente» residenza o dimora nel territorio italiano, mentre oggi può rifiutarne la consegna soltanto ove questi sia «legittimamente ed effettivamente residente o dimorante nel territorio italiano da almeno cinque anni»;
– non poteva sotto il regime previgente, e neppure oggi può, rifiutare la consegna di un cittadino di un paese terzo, residente o dimorante in Italia.
3.– Occorre, altresì, preliminarmente precisare che l’art. 17 del d.lgs. n. 10 del 2021 ha modificato anche l’art. 19 della legge n. 69 del 2005, che il giudice rimettente invoca quale tertium comparationis rispetto alla sua censura di violazione dell’art. 3 Cost.
3.1.– Nella versione in vigore al momento dell’ordinanza di rimessione, l’art. 19 della legge n. 69 del 2005 prevedeva: «L’esecuzione del mandato d’arresto europeo da parte dell’autorità giudiziaria italiana, nei casi sotto elencati, è subordinata alle seguenti condizioni: […] c) se la persona oggetto del mandato d’arresto europeo ai fini di un’azione penale è cittadino o residente dello Stato italiano, la consegna è subordinata alla condizione che la persona, dopo essere stata ascoltata, sia rinviata nello Stato membro di esecuzione per scontarvi la pena o la misura di sicurezza privative della libertà personale eventualmente pronunciate nei suoi confronti nello Stato membro di emissione».
3.2.– Nella versione modificata dal menzionato d.lgs. n. 10 del 2021 e attualmente in vigore, l’art. 19 della legge n. 69 del 2005 prevede: «L’esecuzione del mandato d’arresto europeo da parte dell’autorità giudiziaria italiana, nei casi sotto elencati, è subordinata alle seguenti condizioni: […] b) se il mandato di arresto europeo è stato emesso ai fini di un’azione penale nei confronti di cittadino italiano o di cittadino di altro Stato membro dell'Unione europea legittimamente ed effettivamente residente nel territorio italiano da almeno cinque anni, l’esecuzione del mandato è subordinata alla condizione che la persona, dopo essere stata sottoposta al processo, sia rinviata nello Stato italiano per scontarvi la pena o la misura di sicurezza privative della libertà personale eventualmente applicate nei suoi confronti nello Stato membro di emissione».
3.3.– Dal confronto tra le due versioni dell’art. 19 della legge n. 69 del 2005, per la parte che qui rileva, emerge che la corte d’appello italiana:
– doveva, sotto il regime previgente, subordinare sempre la consegna sia del cittadino italiano, sia della generalità delle persone residenti in Italia (senza distinguere tra cittadini di altri Stati membri e cittadini di paesi terzi, e senza alcun requisito relativo alla durata della residenza), alla condizione che la persona fosse rimandata in Italia, in caso di condanna, per l’esecuzione della pena;
– deve, oggi, subordinare la consegna a tale condizione soltanto nei confronti del cittadino italiano e del cittadino di altro Stato membro «legittimamente ed effettivamente residente nel territorio italiano da almeno cinque anni».
4.– La Corte d’appello rimettente deve fare applicazione della normativa precedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 10 del 2021. Infatti, l’art. 28, comma 1, di tale decreto legislativo dispone che le modifiche da esso apportate alla legge n. 69 del 2005 non si applicano ai procedimenti di esecuzione di mandati di arresto già in corso, come quello pendente innanzi al giudice rimettente, che continuano ad essere regolate dalle disposizioni anteriormente vigenti.
Sulla base di tali disposizioni, le questioni ora sottoposte a questa Corte sono certamente rilevanti nel giudizio principale: in mancanza di una dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005 nei termini auspicati dal giudice rimettente, quest’ultimo sarebbe senz’altro tenuto a disporre la consegna dell’interessato, dal momento che la legge indicata, nella versione applicabile nel giudizio principale, non prevedeva alcuno specifico motivo di rifiuto della consegna ai fini dell’esecuzione della pena di cittadini di paesi terzi che, come l’interessato nel giudizio principale, siano residenti o dimoranti nel territorio italiano.
5.– Nell’ordinanza n. 60 del 2021 questa Corte ha esaminato analoghe questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla Corte di cassazione prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 10 del 2021 nell’ambito di un procedimento principale al quale quelle modifiche parimenti non erano applicabili.
Questa Corte ha, in tale occasione, restituito gli atti al giudice rimettente, affinché potesse rivalutare le questioni prospettate alla luce delle modifiche legislative nel frattempo intervenute. Infatti, pur non essendo applicabili nel giudizio principale, esse hanno mutato significativamente il quadro sistematico nel quale le censure formulate dalla Corte di cassazione si collocavano, da un lato restringendo la facoltà di rifiutare la consegna del cittadino di altro Stato membro nell’ambito del mandato d’arresto finalizzato all’esecuzione della pena (ora possibile solo laddove tale cittadino europeo risieda legittimamente ed effettivamente da almeno cinque anni nel territorio italiano), e dall’altro imponendo l’esecuzione senza condizioni del mandato d’arresto finalizzato all’esercizio di un’azione penale nei confronti del cittadino di paese terzo – modifica, quest’ultima, che fa venir meno la disparità di trattamento tra le due forme di mandato di arresto che la Corte di cassazione aveva denunciato, nella propria ordinanza di rimessione, come contraria all’art. 3 Cost.
La restituzione degli atti al giudice rimettente è stata disposta anche in considerazione della circostanza, di cui dava atto la stessa ordinanza di rimessione, che l’interessato nel giudizio principale, cittadino di Stato terzo, risultava essere presente sul territorio italiano dal novembre 2016, e dunque da meno di cinque anni rispetto alla data della stessa ordinanza di rimessione: circostanza che ad avviso di questa Corte meritava di essere attentamente valutata dalla Corte di cassazione, anche ai fini del vaglio di rilevanza delle questioni nel giudizio principale, rispetto a una loro possibile riformulazione che tenesse conto delle modifiche normative nel frattempo intervenute, onde evitare di prospettare un trattamento più favorevole per i cittadini di paesi terzi rispetto a quello oggi riservato ai cittadini di altro Stato membro.
La Corte di cassazione ha nel frattempo deciso, nel giudizio principale in parola, di non riformulare le questioni di legittimità costituzionale, prendendo atto delle modifiche normative operate dal d.lgs. n. 10 del 2021 (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 1° ottobre 2021, n. 35953).
Il procedimento principale da cui è originato l’odierno giudizio di costituzionalità concerne, invece, un cittadino di paese terzo che – secondo quanto risulta dall’ordinanza di rimessione – ha, tramite la propria difesa, «adeguatamente fornito la prova di uno stabile radicamento familiare e lavorativo sul territorio nazionale»; radicamento che, sulla base di ciò che risulta dal fascicolo del procedimento principale, risalirebbe ad epoca ben precedente l’ultimo quinquennio, e sarebbe attestato dalla stabile convivenza con una donna residente in Italia, con la quale l’interessato risulta avere generato un figlio, oggi dodicenne.
Non compete a questa Corte la valutazione se tale radicamento possa essere ritenuto stabile ed effettivo, né se la permanenza dell’interessato sul territorio nazionale possa essere ritenuta legittima, tali valutazioni spettando soltanto al giudice del procedimento principale. Le circostanze di fatto esposte dal giudice rimettente consentono, tuttavia, di ipotizzare plausibilmente che, laddove questa Corte dovesse ritenere anche solo in parte fondate le questioni prospettate, la corte d’appello potrebbe decidere, nel giudizio principale, di negare la consegna dell’interessato all’autorità giudiziaria dell’esecuzione e di disporre l’esecuzione in Italia della pena inflittagli in Romania.
La considerazione che precede, unitamente alla necessità di pervenire al più presto a una complessiva chiarificazione, nell’ordinamento italiano e nell’intero spazio giuridico dell’Unione, circa i possibili legittimi motivi di rifiuto dell’esecuzione di mandati di arresto europei ai fini dell’esecuzione della pena relativi a cittadini di paesi terzi, rendono in questo caso non necessaria la restituzione degli atti al giudice rimettente.
6.– Riservata alla pronuncia definitiva la decisione tanto sulle eccezioni preliminari sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato, quanto sulla censura formulata in riferimento all’art. 3 Cost., questa Corte osserva che alla base delle restanti censure del rimettente è l’allegata violazione del diritto alla vita privata e familiare, che si produrrebbe in conseguenza dell’esecuzione di un mandato d’arresto europeo finalizzato all’esecuzione di una pena nei confronti del cittadino di un paese terzo che sia stabilmente radicato sul territorio italiano. Sotto questo profilo, le censure – che formalmente investono l’art. 18-bis nella versione, applicabile nel giudizio principale, antecedente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 10 del 2021 – potrebbero essere svolte in maniera identica rispetto all’attuale formulazione dell’art. 18-bis, che parimenti non prevede la possibilità di rifiutare la consegna del cittadino di Stato terzo stabilmente radicato sul territorio italiano.
6.1.– Tale omessa previsione si porrebbe in contrasto, secondo il giudice rimettente, con le norme costituzionali e sovranazionali (queste ultime rilevanti, nell’ordinamento costituzionale italiano, ai sensi degli artt. 117, primo comma, Cost. nonché, per ciò che concerne il diritto dell’Unione europea, 11 Cost.) che sanciscono il diritto alla vita privata e familiare: l’art. 2 Cost., che riconosce i diritti inviolabili della persona, tra cui si annovera il diritto in esame (sentenza n. 202 del 2013), e gli artt. 7 CDFUE, 8 CEDU e 17, paragrafo 1, PIDCP.
6.2.– Secondo il giudice rimettente, inoltre, la disciplina italiana si porrebbe in contrasto con lo stesso art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, del quale l’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005 costituisce specifica attuazione, e sarebbe pertanto anche per questa ragione incompatibile con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.
L’ordinanza di rimessione insiste, invero, su un argomento in sé non persuasivo, e cioè sull’assunto che, ove allorché lo Stato membro decida di prevedere nel proprio ordinamento il motivo facoltativo di rifiuto della consegna previsto dall’art. 4, punto 6, della decisione quadro, sarebbe tenuto a riprodurre integralmente la relativa previsione, senza poterne modificare i confini applicativi: e conseguentemente a estendere l’ipotesi del rifiuto a tutti coloro che risiedano o dimorino nel territorio nazionale, senza alcuna limitazione relativa allo Stato di cittadinanza dell’interessato o alla durata del soggiorno nello Stato dell’esecuzione. Un simile assunto è smentito dalla stessa giurisprudenza della Corte di giustizia, che ha già riconosciuto legittime talune limitazioni al corrispondente motivo di rifiuto apportate dalla legislazione degli Stati membri, come – con riferimento al cittadino di altro Stato membro – la condizione del soggiorno legale e continuativo per almeno cinque anni sul territorio dello Stato dell’esecuzione (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 6 ottobre 2009, in causa C-123/08, Wolzenburg, paragrafi 54-74).
Tuttavia, non è dubbio che l’art. 4, punto 6, della decisione quadro debba, esso stesso, essere interpretato in conformità ai principi e ai diritti fondamentali al cui rispetto è condizionata la validità di qualsiasi atto del diritto dell’Unione, come ribadito del resto dalla stessa decisione quadro nel considerando n. 12 e nell’art. 1, paragrafo 3. Pertanto, laddove la legge di esecuzione nazionale del mandato di arresto europeo abbia disciplinato il motivo facoltativo di consegna di cui all’art. 4, punto 6, della decisione quadro in maniera non conforme a tali principi e diritti fondamentali – come, appunto, il diritto al rispetto della vita privata e familiare dell’interessato –, una tale disciplina risulterà necessariamente in contrasto anche con lo stesso art. 4, punto 6 della decisione quadro, letto alla luce dell’art. 1, paragrafo 3, della medesima.
6.3.– Infine, la preoccupazione di tutelare i legami personali e familiari dello straniero già stabiliti sul territorio italiano sta alla base dell’ulteriore censura, concernente l’allegata violazione del principio della necessaria funzione rieducativa della pena, sancito nell’ordinamento italiano dall’art. 27, terzo comma, Cost. Tale allegazione si fonda, infatti, sulla considerazione che l’esecuzione della pena all’estero non potrebbe realizzare appieno una funzione rieducativa nei confronti di un condannato che abbia stabilito solidi legami sociali e familiari nel territorio italiano.
7.– Ciò che il giudice rimettente chiede, in sintesi, è se le esigenze di tutela del diritto fondamentale di un cittadino di un paese terzo a conservare i propri legami personali e familiari stabiliti sul territorio italiano impongano di riconoscere in capo all’autorità giudiziaria italiana la facoltà, non prevista dalla disposizione censurata, di rifiutare l’esecuzione di un mandato di arresto finalizzato all’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza, impegnandosi correlativamente ad eseguire tale pena o misura di sicurezza sul territorio italiano ai sensi dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro.
Ritiene questa Corte che tale interrogativo esiga una risposta, in primo luogo, sul piano del diritto dell’Unione. La Corte di giustizia ha già chiarito, in via generale, che le disposizioni della decisione quadro sul mandato d’arresto che non contengano alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri «devono di norma essere oggetto, nell’intera Unione, di un’interpretazione autonoma e uniforme» (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 17 luglio 2008, in causa C-66/08, Kozlowski, paragrafo 42). Poiché le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice rimettente hanno a oggetto in primo luogo l’interpretazione dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro, su un profilo che – come meglio si dirà più innanzi – non è ancora stato oggetto di chiarimenti da parte della Corte di giustizia, è necessario interrogare la Corte medesima circa l’uniforme interpretazione di tale disposizione nello spazio giuridico dell’Unione.
Dal momento, poi, che le questioni sollevate dal giudice rimettente concernono il rapporto tra il rifiuto della consegna ai sensi dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro e la tutela dei diritti fondamentali dell’interessato, l’intervento della Corte di giustizia appare necessario anche per una seconda ragione. Poiché la materia del mandato d’arresto europeo è interamente armonizzata dalla stessa decisione quadro, il livello di tutela dei diritti fondamentali suscettibili di porre limiti al dovere di mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie di altri Stati membri, su cui si basa l’intero meccanismo disegnato dalla decisione quadro, non può che essere quello risultante dalla Carta dei diritti fondamentali e dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea (TUE). In settori oggetto di integrale armonizzazione, è invece precluso agli Stati membri condizionarne l’attuazione al rispetto di standard puramente nazionali di tutela dei diritti fondamentali, laddove ciò possa compromettere il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione (Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, sentenze 26 febbraio 2013, in causa C-617/10, Fransson, paragrafo 29, e in causa C-399/11, Melloni, paragrafo 60).
È dunque necessario chiedere preliminarmente alla Corte di giustizia, nella sua funzione di interprete eminente del diritto dell’Unione (art. 19, paragrafo 1, TUE), se l’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, interpretato alla luce dell’art. 1, paragrafo 3 della medesima decisione quadro e dell’art. 7 CDFUE, osti a una disciplina, come quella italiana, che escluda in maniera assoluta e automatica dall’ambito di applicazione del motivo di rifiuto della consegna disciplinato da tale disposizione i cittadini di paesi terzi che dimorino o risiedano sul suo territorio, non consentendo all’autorità giudiziaria dell’esecuzione di rifiutare la consegna neppure quando tali persone abbiano stabili e radicati legami sociali e familiari con lo Stato dell’esecuzione; e in caso affermativo, sulla base di quali criteri e presupposti tali legami debbano essere considerati tanto significativi da imporre il rifiuto della consegna.
8.– In un quadro di costruttiva e leale cooperazione tra i diversi sistemi di garanzia (sentenza n. 269 del 2017; ordinanze n. 182 del 2020 e n. 117 del 2019, nonché, nella stessa materia del mandato di arresto europeo, l’ordinanza n. 216 del 2021), questa Corte osserva quanto segue.
8.1.– L’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI stabilisce un motivo di rifiuto espressamente definito quale «facoltativo», la cui trasposizione totale o anche solo parziale nel diritto nazionale è rimessa, in linea di principio, alla discrezionalità degli Stati membri. La Corte di giustizia ha sottolineato, in proposito, che «un legislatore nazionale il quale, in base alle possibilità accordategli dall’art. 4 di detta decisione quadro, opera la scelta di limitare le situazioni nelle quali la sua autorità giudiziaria di esecuzione può rifiutare di consegnare una persona ricercata non fa che rafforzare il sistema di consegna istituito da detta decisione quadro a favore di uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia. Infatti, limitando le situazioni nelle quali l’autorità giudiziaria di esecuzione può rifiutare di eseguire un mandato di arresto europeo, tale legislazione non fa che agevolare la consegna delle persone ricercate, conformemente al principio del reciproco riconoscimento sancito dall’art. 1, n. 2, della decisione quadro 2002/584, il quale costituisce il principio fondamentale istituito da quest’ultima» (sentenza Wolzenburg, paragrafi 58 e 59). Da ciò deriva, come già rammentato, che secondo la Corte di giustizia non può escludersi «che gli Stati membri, nell’attuazione di detta decisione quadro, limitino, nel senso indicato dal principio fondamentale enunciato al suo art. 1, n. 2, le situazioni in cui dovrebbe essere possibile rifiutare di consegnare una persona rientrante nella sfera di applicazione [dell’]art. 4, punto 6» (sentenza Wolzenburg, paragrafo 62).
Tuttavia, è indubbio che, come parimenti già osservato, l’esecuzione di un mandato di arresto europeo non può mai comportare la violazione dei diritti fondamentali dell’interessato (art. 1, paragrafo 3, e considerando n. 12 della decisione quadro), né dei principi fondamentali del diritto dell’Unione riconosciuti dall’art. 6 TUE.
Occorre pertanto stabilire se, ed eventualmente a quali condizioni, il cittadino di un paese terzo che sia residente o dimorante nello Stato dell’esecuzione sia titolare di un diritto fondamentale a non essere allontanato dal territorio di quest’ultimo Stato ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza nello Stato di emissione.
8.2.– La questione ora delineata presenta, ad avviso di questa Corte, elementi di novità rispetto alla giurisprudenza della Corte di giustizia sinora formatasi in materia di mandato di arresto europeo.
8.2.1.– La già citata sentenza Kozlowski ha fornito una nozione «autonoma e uniforme» (paragrafo 42), valida per l’intero spazio giuridico dell’Unione, delle nozioni di persona che «risiede» e «dimora» nel territorio dello Stato dell’esecuzione, chiarendo che la prima nozione fa riferimento alla situazione in cui la persona abbia ivi stabilito la propria residenza effettiva, e che la seconda allude invece alla situazione «in cui tale persona abbia acquisito, a seguito di un soggiorno stabile di una certa durata in questo medesimo Stato, legami con quest’ultimo di intensità simile a quella dei legami che si instaurano in caso di residenza» (paragrafo 46). Inoltre, per quanto il caso oggetto del giudizio principale concernesse un cittadino di altro Stato membro rispetto a quello dell’esecuzione, le definizioni enunciate nella sentenza Kozlowski appaiono di per sé suscettibili di essere applicate anche ai cittadini di paesi terzi.
Tuttavia, la prospettiva della sentenza Kozlowski era opposta rispetto a quella che viene in considerazione nel procedimento odierno. In quel caso il giudice del rinvio chiedeva in sostanza se l’autorità giudiziaria dell’esecuzione fosse legittimata, ai sensi dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro, a rifiutare l’esecuzione di un mandato d’arresto emesso nei confronti di un cittadino straniero che non avesse ancora istituito legami significativi sul territorio dello Stato dell’esecuzione, o comunque vi si risiedesse illegalmente, fosse dedito in quel territorio alla commissione di reati, o fosse ivi detenuto in seguito a condanna penale; e la Corte di giustizia aveva in quell’occasione risposto escludendo che il termine «dimori» potesse essere interpretato in modo così ampio da autorizzare l’autorità giudiziaria dell’esecuzione a rifiutare la consegna, in deroga al principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie, «per il semplice fatto che la persona ricercata si trovi temporaneamente nel territorio dello Stato membro di esecuzione» (paragrafo 36).
La questione ora in discussione concerne, invece, una disciplina nazionale di trasposizione dell’art. 4, punto 6 della decisione quadro che esclude in maniera assoluta e automatica dal motivo di rifiuto previsto in tale disposizione i cittadini di paesi terzi che dimorano o risiedono nel suo territorio, non consentendo così all’autorità giudiziaria dell’esecuzione di rifiutarne la consegna nemmeno nel caso in cui essi abbiano già instaurato legami significativi e stabili sul territorio dello Stato dell’esecuzione.
8.2.2.– Tale questione non è stata affrontata nemmeno nella successiva, già citata, sentenza Wolzenburg, focalizzata sulla sola posizione del cittadino di altro Stato membro, al quale si applica il principio di non discriminazione in base alla nazionalità, all’epoca basato sull’art. 12, primo comma, del Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE), trasfuso oggi nell’art. 18 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
8.2.3.– La successiva sentenza Lopes da Silva Jorge, infine, è anch’essa incentrata sulla posizione del cittadino di altro Stato membro residente o dimorante nel territorio dello Stato di esecuzione, rispetto al quale la Corte di giustizia – valorizzando anche qui il principio di non discriminazione in base alla nazionalità – ha affermato che l’art. 4, punto 6, della decisione quadro non consente allo Stato dell’esecuzione di escluderlo in modo assoluto e automatico dall’ambito di applicazione della disposizione nazionale che traspone il relativo motivo di rifiuto, indipendentemente dalla valutazione dei suoi legami con il territorio di tale Stato (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 5 settembre 2012, in causa C-42/11, Lopes da Silva Jorge).
8.2.4.– Sulla base in particolare di quanto affermato nelle sentenze Kozlowski e Wolzenburg, e alla luce del principio di non discriminazione secondo la nazionalità di cui all’art. 18 TFUE, questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima, con la sentenza n. 227 del 2010, la disciplina italiana di trasposizione della decisione quadro sul mandato di arresto, nella versione allora vigente, nella parte in cui non prevedeva il rifiuto di consegna – oltre che del cittadino italiano – anche del cittadino di un altro Stato membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente avesse residenza o dimora nel territorio italiano, ai fini dell’esecuzione della pena detentiva in Italia.
L’effetto di tale pronuncia è stato, dunque, quello di equiparare il trattamento giuridico del cittadino italiano e quello del cittadino di altro Stato membro legittimamente ed effettivamente dimorante nel territorio italiano; mentre resta ancora non risolta, anche nella giurisprudenza di questa Corte, la questione se, ed eventualmente in che misura, il rifiuto della consegna debba estendersi anche al cittadino di paese terzo che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, stante la non invocabilità da parte di costui del principio di non discriminazione in base alla nazionalità (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 2 aprile 2020, in causa C-897/19 PPU, Ruska Federacija, paragrafo 40).
8.3.– Va peraltro osservato che, sin dalla sentenza Kozlowski, la Corte di giustizia ha costantemente sottolineato che «il motivo di non esecuzione facoltativa stabilito all’art. 4, punto 6, della decisione quadro mira segnatamente a permettere all’autorità giudiziaria dell’esecuzione di accordare una particolare importanza alla possibilità di accrescere le opportunità di reinserimento sociale della persona ricercata una volta scontata la pena cui essa è stata condannata» (sentenza Kozlowski, paragrafo 45; sentenza Wolzenburg, paragrafo 62, e sentenza Lopes Da Silva Jorge, paragrafo 32).
Al perseguimento di tale scopo è funzionale la successiva decisione quadro 2008/909/GAI del Consiglio, del 27 novembre 2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea, il cui considerando n. 9 recita: «L’esecuzione della pena nello Stato di esecuzione dovrebbe aumentare le possibilità di reinserimento sociale della persona condannata. Nell’accertarsi che l’esecuzione della pena da parte dello Stato di esecuzione abbia lo scopo di favorire il reinserimento sociale della persona condannata, l’autorità competente dello Stato di emissione dovrebbe tenere conto di elementi quali, per esempio, l’attaccamento della persona allo Stato di esecuzione e il fatto che questa consideri tale Stato il luogo in cui mantiene legami familiari, linguistici, culturali, sociali o economici e di altro tipo».
La decisione quadro 2008/909/GAI appena menzionata si applica non solo ai cittadini degli Stati membri dell’Unione, ma anche ai cittadini di paesi terzi. Anche a questi ultimi appare riferirsi, in particolare, il considerando n. 7, che individua lo Stato in cui l’esecuzione della pena appare più funzionale alle finalità di reinserimento sociale del condannato in quello nel quale il condannato «vive e soggiorna legalmente e ininterrottamente da almeno cinque anni e in cui manterrà un diritto di soggiorno permanente».
Il collegamento tra ratio della decisione quadro 2008/909 e motivi di rifiuto previsti dalla decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato di arresto che si fondano sul radicamento dell’interessato nel territorio dello Stato richiesto è stato recentemente sottolineato dalla stessa Corte di giustizia, secondo la quale «l’articolazione prevista dal legislatore dell’Unione tra la decisione quadro 2002/584 e la decisione quadro 2008/909 deve contribuire a conseguire l’obiettivo consistente nel favorire il reinserimento sociale della persona interessata. Del resto, un siffatto reinserimento è nell’interesse non solo della persona condannata, ma anche dell’Unione europea in generale (v., in tal senso, sentenze del 23 novembre 2010, Tsakouridis, C145/09, EU:C:2010:708, punto 50, nonché del 17 aprile 2018, B e Vomero, C316/16 e C424/16, EU:C:2018:256, punto 75)» (Corte di giustizia, sentenza 11 marzo 2020, in causa C-314/18, SF, paragrafo 51).
Il rifiuto della consegna previsto dall’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, così come la condizione apposta alla consegna ai sensi del successivo art. 5, punto 3, non sono d’altra parte in contrasto con il principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie né con la ratio, sottesa all’intero sistema del mandato d’arresto europeo, di «lottare contro l’impunità di una persona ricercata che si trovi in un territorio diverso da quello nel quale si suppone abbia commesso un reato» (Corte di giustizia, sentenza 17 dicembre 2020, in cause riunite C-354/20 PPU e C-412/20 PPU, L e P, paragrafo 62, e ulteriori precedenti ivi citati). Infatti, in entrambi i casi lo Stato dell’esecuzione si impegna a riconoscere ed eseguire esso stesso la pena inflitta dallo Stato di emissione, assicurandone così l’effettività e, assieme, la maggiore funzionalità rispetto alla sua finalità di risocializzazione del condannato, nell’interesse tanto di quest’ultimo, quanto dell’intera Unione.
8.4.– L’interesse del cittadino di un paese terzo legittimamente dimorante o residente in uno Stato membro a non essere sradicato dallo Stato medesimo riceve inoltre tutela, da parte del diritto dell’Unione, ben al di là della materia dell’esecuzione delle pene o delle misure di sicurezza; e l’intensità di tale tutela è, in linea di principio, direttamente proporzionale al grado di radicamento della persona nel territorio dello Stato di dimora o di residenza.
In particolare, la tutela è massima rispetto ai cittadini di paesi terzi che siano titolari di permesso ai sensi della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo. Infatti, essi possono essere allontanati soltanto in esito a una valutazione individualizzata, nella quale le autorità dello Stato membro sono tenute a bilanciare la pericolosità dell’interessato per l’ordine pubblico e la pubblica sicurezza con una pluralità di ulteriori circostanze espressive, tra l’altro, del grado del suo radicamento nel territorio dello Stato (art. 12, paragrafo 4, della direttiva).
Garanzie analoghe sono previste rispetto alle decisioni di allontanamento nei confronti di cittadini di paesi terzi titolari di permessi di soggiorno ai sensi della direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare (art. 17 della direttiva, ove si prevede che nell’adozione di una misura di allontanamento gli Stati membri siano tenuti a prendere «nella dovuta considerazione la natura e la solidità dei vincoli familiari della persona e la durata del suo soggiorno nello Stato membro»).
8.5.– Indicazioni non dissimili provengono dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa all’art. 8 CEDU, la quale segna il livello minimo di tutela che deve essere assicurato al corrispondente diritto di cui all’art. 7 della Carta, ai sensi dell’art. 52, paragrafo 3, CDFUE.
Anzitutto, la Corte EDU – nel quadro di una giurisprudenza che valorizza sempre più il reinserimento sociale del condannato tra le funzioni della pena (Corte europea dei diritti dell’uomo, grande camera, sentenza 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi, paragrafo 102; grande camera, sentenza 30 giugno 2015, Khoroshenko contro Russia, paragrafo 121; grande camera, 9 luglio 2013, Vinter contro Regno Unito, paragrafo 115) – ha ritenuto che l’esecuzione di una pena detentiva a grande distanza dalla residenza familiare del condannato può comportare la violazione dell’art. 8 CEDU, in ragione della conseguente difficoltà, per il detenuto e per i suoi familiari, di mantenere regolari e frequenti contatti, a loro volta importanti rispetto alle finalità risocializzanti della pena (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 7 marzo 2017, Polyakova e altri contro Russia, paragrafo 88). In quest’ultima pronuncia la Corte EDU ha evidenziato – tra l’altro – come tali principi trovino conferma nella Raccomandazione del Comitato dei ministri agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee (European Prison Rules), adottata l’11 gennaio 2006, il cui art. 17, paragrafo 1, in particolare, prevede che i detenuti debbano essere assegnati, per quanto possibile, a carceri vicine al loro domicilio o a luoghi di riabilitazione sociale.
In secondo luogo, la costante giurisprudenza della Corte EDU sottolinea la necessità che, nelle decisioni che comunque implicano l’allontanamento di uno straniero dal territorio di uno Stato, debba sempre essere compiuto un conveniente bilanciamento tra le ragioni poste a base di tale allontanamento – tra cui, segnatamente, la commissione di reati da parte dello straniero – e le confliggenti ragioni di tutela del diritto dell’interessato, fondato appunto sull’art. 8 CEDU, a non essere sradicato dal luogo in cui intrattenga la parte più significativa dei propri rapporti sociali, lavorativi, familiari, affettivi, in particolare allorché lo straniero sia coniugato o abbia figli nel territorio dello Stato dal quale dovrebbe essere allontanato, e a fortiori nell’ipotesi in cui sia nato o cresciuto nello Stato medesimo pur non avendone acquisito la cittadinanza (si vedano ad esempio, in materia di espulsione dello straniero, terza sezione, 24 novembre 2020, Unuane contro Regno Unito, paragrafo 72; prima sezione, sentenza 19 maggio 2016, Kolonja contro Grecia, paragrafo 48; grande camera, sentenza 23 giugno 2008, Maslov contro Austria, paragrafi 68-76; grande camera, sentenza 18 ottobre 2006, Üner contro Paesi Bassi, paragrafo 57; seconda sezione, 2 agosto 2001, Boultif contro Svizzera, paragrafo 48).
9.– Tutto ciò premesso, questa Corte ritiene di sospendere il giudizio in corso e di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), i seguenti quesiti:
a) se l’art. 4, punto 6, della direttiva 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra gli Stati membri, interpretato alla luce dell’art. 1, paragrafo 3, della medesima decisione quadro e dell’art. 7 CDFUE, osti a una normativa, come quella italiana, che – nel quadro di una procedura di mandato di arresto europeo finalizzato all’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza – precluda in maniera assoluta e automatica alle autorità giudiziarie di esecuzione di rifiutare la consegna di cittadini di paesi terzi che dimorino o risiedano sul suo territorio, indipendentemente dai legami che essi presentano con quest’ultimo;
b) in caso di risposta affermativa alla prima questione, sulla base di quali criteri e presupposti tali legami debbano essere considerati tanto significativi da imporre all’autorità giudiziaria dell’esecuzione di rifiutare la consegna.
Considerato, infine, che la causa in esame – pur essendo originata da un procedimento concernente una persona attualmente non sottoposta a misura detentiva – solleva questioni interpretative relative ad aspetti centrali del funzionamento del mandato d’arresto europeo, e che l’interpretazione richiesta è idonea a produrre conseguenze generali, tanto per le autorità chiamate a cooperare nell’ambito del mandato d’arresto europeo, quanto per i diritti delle persone ricercate, si richiede che il presente rinvio pregiudiziale sia deciso con procedimento accelerato, ai sensi dell’art. 105 del regolamento di procedura della Corte di giustizia.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dispone di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), le seguenti questioni pregiudiziali:
a) se l’art. 4, punto 6, della direttiva 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra gli Stati membri, interpretato alla luce dell’art. 1, paragrafo 3, della medesima decisione quadro e dell’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), osti a una normativa, come quella italiana, che – nel quadro di una procedura di mandato di arresto europeo finalizzato all’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza – precluda in maniera assoluta e automatica alle autorità giudiziarie di esecuzione di rifiutare la consegna di cittadini di paesi terzi che dimorino o risiedano sul suo territorio, indipendentemente dai legami che essi presentano con quest’ultimo;
b) in caso di risposta affermativa alla prima questione, sulla base di quali criteri e presupposti tali legami debbano essere considerati tanto significativi da imporre all’autorità giudiziaria dell’esecuzione di rifiutare la consegna;
2) chiede che la questione pregiudiziale sia decisa con procedimento accelerato;
3) sospende il presente giudizio sino alla definizione della suddetta questione pregiudiziale;
4) ordina la trasmissione di copia della presente ordinanza, unitamente agli atti del giudizio, alla cancelleria della Corte di giustizia dell’Unione europea.