Con l'utilizzo di tale avverbio, il legislatore ha inteso riferirsi ad una volontà diretta all'ottenimento di un beneficio contra jus, dunque in assenza degli elementi sostanziali indispensabili per il suo riconoscimento.
Il Tribunale di Ragusa, nelle vesti di Giudice del riesame, rigettava il ricorso proposto dall'attuale ricorrente contro il provvedimento del GIP che aveva disposto il sequestro preventivo della sua carta di debito, sulla quale erano state riversate le somme a titolo di reddito di cittadinanza indebitamente percepite.
Contro tale decisione, la...
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Ragusa, in funzione di giudice del riesame dei provvedimenti cautelari reali, ha, con ordinanza del 7 maggio 2021, rigettato il ricorso presentato da G. C. avverso il provvedimento di sequestro preventivo emesso dal Gip del Tribunale di Ragusa a suo carico - indagata in ordine alla violazione dell'art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 4 del 2019, convertito con modificazioni con legge n. 26 del 2019, per avere omesso di fornire in occasione della presentazione della relativa istanza, le complete informazioni concernenti la sussistenza dei requisiti per il godimento del cosiddetto "reddito di cittadinanza" - ed avente ad oggetto la carta di debito sulla quale erano state riversate le relative rimesse finanziarie nonché le somme a tale titolo esistenti sulla predetta carta di debito.
Ha, infatti, rilevato il Tribunale del riesame che - essendo pacifico il fatto che la G. C., in occasione della presentazione della domanda relativa al riconoscimento del suo diritto al godimento del "reddito di cittadinanza", non aveva dichiarato il dato che il proprio padre, G. P., era detenuto in esecuzione di una sentenza i cui effetti privativi della libertà personale si sarebbero consumati solamente il 3 luglio 2027 - tale circostanza avrebbe integrato gli estremi, quanto meno a livello astratto, del reato a lei contestato, posto che, essendo la circostanza sottaciuta rilevante ai fini della verifica della sussistenza delle condizioni necessarie per accedere al predetto beneficio, secondo la previsione di cui all'art. 3, comma 13, del decreto-legge n. 4 del 2019, la omissione della sua comunicazione è sanzionata dal comma 1 del citato art. 4 del decreto-legge n. 4 del 2019, il quale prevede che, chiunque, al fine di conseguire "indebitamente" il reddito di cittadinanza ometta informazioni dovute, sia punito con la reclusione.
Ha interposto ricorso per cassazione la difesa della indagata, articolando a tal fine 2 motivi di ricorso; il primo concernente la violazione di legge in cui sarebbe incorso il Tribunale ibleo nel ritenere integrato il fumus deficti, sebbene non sia in discussione il fatto che la indagata avesse diritto al beneficio in questione, pur se si fosse tenuto conto, nel calcolo degli elementi necessari per il conseguimento del beneficio, del fatto che il padre di lei era detenuto; tale rilievo· sarebbe significativo, ad avviso della ricorrente, posto che la norma individua come condizione per la rilevanza penale della condotta il fatto che essa sia finalizzata alla indebita percezione del reddito di cittadinanza; ha altresì rilevato la ricorrente che neppure è pensabile che la sua condotta sia sussumibile nel paradigma del comma 2 del citato art. 7 del di n. 4 del 2019, posto che questo fa riferimento ai termini temporali indicati in talune disposizione legislative fra le quali, però, non vi è l'art. 3, comma 13, del citato decreto-legge che è la disposizione che sarebbe stata violata dalla G. C.
Con il secondo motivo la ricorrente ha lamentato il fatto che il sequestro sia stato eseguito su somme spettanti a terzi atteso che le stesse, ove indebitamente corrisposte, dovrebbero essere restituite all'INPS; troverebbe, pertanto, applicazione il comma terzo dell'art. 240 cod. pen., che vieta la confisca di beni appartenenti a soggetti terzi al reato, ai quali, in caso di confisca, le stesse non potrebbero essere restituite dal percettore a pena di duplicazione indebita dell'esborso a carico di questo.
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato e, pertanto, lo stesso deve essere rigettato.
Esaminando, prioritariamente, per evidenti ragioni di economià processuale, il secondo dei due motivi di impugnazione presentati dalla ricorrente, si osserva che lo stesso è palesemente privo di consistenza.
Con lo stesso, infatti, la ricorrente si duole del fatto che sia stato eseguito il sequestro (peraltro nelle indimostrato presupposto che si tratti di sequestro finalizzato alla confisca e non di sequestro cosiddetto impeditivo) sostenendo che lo stesso sarebbe andato ad attingere dei beni - cioè gli importi finanziari che le erano stati versati, indebitamente secondo la ipotesi accusatoria, dall'INPS a titolo di "reddi.to di cittadinanza" nonché la carta di debito, dotata di dispositivo elettronico, utilizzabile per il prelievo delle predette somme di danaro versate alla G. C. - che ella, laddove fosse emerso che i versamenti a lei fatti erano non dovuti, avrebbe comunque dovuto restituire all'INPS; in altre parole la G. C. ha lamentato la violazione dell'art. 240, comma terzo, cod. pen., in base al quale le disposizioni in materia di confisca non si applicano ove questa vada a colpire un bene che appartenga a persona estranea al reato.
La tesi difensiva fatta propria dalla ricorrente difesa è viziata in diritto.
Si osserva, infatti, che una volta versate al soggetto destinatario della rimessa finanziaria le somme di danaro in questione, questi ne acquisisce la piena titolarità, salva, ovviamente, la sussistenza di una autonoma obbligazione alla restituzione del tantundem eiusdem generis laddove emerga che il versamento sia stato eseguito in assenza di una valida causa so/vendi; il tutto in conformità ai principi ordinariamente applicabili alla ben nota figura civilistica della ripetizione di indebito, costituente fonte di obbligazione ai sensi del combinato disposto degli artt. 1173 e 2033 cod. civ.
Poiché analogo discorso deve intendersi applicabile, alla luce dell'art. 2037 cod. civ., anche alla carta di debito, cosa determinata che la G. C. sarebbe obbligata a restituire al soggetto che la ha emessa laddove emergesse che la consegna alla ricorrente non fosse giustificata, risulta evidente che la stessa impostazione giuridica che parte ricorrente ha attribuito alla fattispecie, sostenendo che il sequestro sia ricaduto su di un bene appartenente ad un terzo, non ha ragion d'essere, posto che cosa ben diversa, proprio dal punto di vista della dogmatica giuridica, è essere soggetto terzo titolare di una posizione soggettiva immediatamente pertinente un bene soggetto a confisca ed essere, invece, semplicemente soggetto creditore in un rapporto obbligatorio avente ad oggetto la restituzione del bene in questione; conseguenza di tale diversa qualità di posizioni giuridiche é che, mentre nel primo caso potrebbe entrare in giuoco la limitazione operativa alla misura di sicurezza, nel secondo caso una siffatta ipotesi è indubbiamente da scartare.
Per tale ragione il secondo motivo di ricorso proposto dalla G. C. è infondato.
Venendo, a questo punto, al primo motivo, si rileva quanto segue: la contestazione ella ricorrente attiene alla ritenuta insussistenza del fumus commissi delicti in quanto, ad avviso della medesima - sebbene la stessa non neghi di avere omesso di indicare, in occasione della presentazione della documentata domanda di accesso al "reddito di cittadinanza", la informazione che il padre fosse detenuto - ciononostante la stessa avrebbe potuto egualmente godere del beneficio in questione, considerato che il dato omesso non era ostativo al riconoscimento di quello ma avrebbe comportato solamente che di esso si sarebbe dovuto tenere conto ai fini del calcolo del superamento o meno dei limiti reddituali rilevanti per poter usufruire del beneficio; poiché, aggiunge la ricorrente, tali limiti non sarebbero stati comunque da lei superati e poiché la disposizione che si assume essere stata violata sanziona penalmente solamente il fatto di avere omesso informazioni dovute al fine di ottenere "indebitamente" il beneficio previsto dall'art. 3 del decreto legge n. 4 del 2019, mancando, di conseguenza, la indebita percezione del beneficio, la fattispecie non sarebbe riconducibile alla ipotesi delittuosa in provvisoria contestazione.
Rileva, a questo punto, il Collegio che effettivamente l'art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 4 del 2019 sanziona, con la reclusione da 2 a 6 anni la condotta di chi, "rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute" in quanto ciò avvenga "al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all'art. 3" dello stesso decreto-legge.
La piana interpretazione letterale delle parole utilizzate dal legislatore avalla, in effetti, la tesi della ricorrente secondo la quale la sussistenza del reato presuppone che la condotta dell'agente fosse volta al conseguimento di un beneficio, appunto il "reddito di cittadinanza", indebito, per tale intendendosi quello che, laddove questi non avesse reso dichiarazioni mendaci, prodotto documentazioni materialmente o ideologicamente false o, infine, avesse fornito tutte le informazioni dovute, non gli sarebbe stato riconosciuto.
Conseguenza di tale interpretazione è che nel caso in cui, all'opposto, egli fosse stato comunque legittimato ad accedere al beneficio - non avendo, pertanto, alcuna efficacia causale ai fini della sua erogazione le dichiarazioni mendaci, i documenti falsi ovvero le informazioni non fornite - il reato stesso non sarebbe configurabile.
Non ignora questo Collegio che una siffatta tesi - cui, peraltro il Tribunale di Ragusa dichiara di non aderire, avendo questo precisato che "l'accertamento positivo della detta evenienza" (cioè che l'eventuale computo della posizione del padre della richiedente come detenuto e non come convivente avrebbe determinato il non godimento del beneficio in capo alla G. C.) "non appare necessario ai fini della astratta configurazione del reato contestato nella sua forma omissiva" - parrebbe osteggiata, come d'altra parte rilevato anche nella ordinanza impugnata, dalla giurisprudenza di questa Corte.
E', infatti, stato ritenuto da questa stessa Corte che il reato di cui all'art. 7 del decreto-legge n. 4 del 2019, convertito, con modificazioni, con legge n. 26 del 2019, è integrato dalle false indicazioni od omissioni di informazioni dovute, anche parziali, dei dati di fatto riportati nell'autodichiarazione finalizzata all'ottenimento del "reddito di cittadinanza", indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l'ammissione al beneficio in questione (Corte di cassazione, Sezione III penale, 10 febbraio 2020, n. 5289, nonché, sebbene la sentenza non sia stata oggetto di massimazione sul punto, anche: Corte di cassazione, Sezione III penale, 9 settembre 2021, n. 33431).
Nell'affermare il predetto principio la Corte ha richiamato i principi formatisi in applicazione della normativa in materia di ammissione al patrocinio giudiziario a spese dello Stato dei soggetti non abbienti (cfr. infatti: Corte di cassazione, Sezione IV penale, 10 aprile 2017, n. 18107; e le altre numerose sentenze richiamate dalla Corte in occasione della pronunzia della sentenza n. 5289 del 2020; ma si veda, anche, in senso sostanzialmente riduttivo della rigidità del principio di cui alle sentenze precedentemente richiamate: Corte di cassazione, Sezioni unite penali, 12 maggio 2020, n. 14723); si è, infatti, affermato che la regola sopra richiamata sarebbe espressione del generale principio antielusivo che si incardina sulla capacità contributiva del cittadino ai sensi dell'art. 53 della Costituzione, la cui ratio risponde al più generale principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione; per cui la punibilità del reato di condotta si rapporta, ben oltre il pericolo di profitto ingiusto, al dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalla quali riceve un beneficio economico.
Sulla base di tale rilievo la Corte ha ritenuto che le fattispecie incriminatrici previste dall'art. 7 del decreto-legge n. 4 del 2019 trovino applicazione indipendentemente dall'accertamento della effettiva sussistenza delle condizioni per l'ammissione al beneficio e in particolare, dall'accertamento del superamento delle soglie reddituali di legge; si è altresì osservato che, siffatto indirizzo neppure è posto in crisi dalla formulazione letterale della disposizione in questione, la quale, per le violazioni di cui al comma 1 (che più direttamente interessano la fattispecie ora in esame), si riferisce "al fine di ottenere indebitamente il beneficio", atteso che il riferimento deve essere inteso come diretto a qualificare i dati che sono in sé rilevanti ai fini del controllo, da parte della amministrazione erogante, della ricorrenza delle condizioni per il riconoscimento ed il mantenimento del beneficio.
Ciò, si precisa conclusivamente, in quanto il legislatore ha inteso creare un meccanismo di riequilibrio sociale il cui funzionamento presuppone necessariamente una leale cooperazione fra cittadino ed Amministrazione, che sia ispirata alla massima trasparenza.
Da ciò, pare intuirsi, che la sanzione penale costituirebbe la reazione da parte dell'ordinamento ad una forma di violazione del patto di leale cooperazione che sarebbe intercorso fra il cittadino e la Amministrazione in ordine alla possibile erogazione del beneficio di cui sopra.
Ritiene il Collegio di non potere aderire, sia pure ai limitati effetti che - come si vedrà - tale dissenso determina nel caso di specie, a siffatta impostazione.
Infatti, essa risulta essere dichiaratamente costruita sulla base dei principi che si sono formati sulla materia dell'ammissione al beneficio del patrocinio
giudiziario dei non abbienti a spese dello Stato secondo le regole dettate dal dPR n. 115 del 2002, in particolare in relazione alla fattispecie penale dettata dall'art. 95 del citato dPR n. 115.
Ritiene questo Collegio che il citato termine di riferimento argomentativo non appaia del tutto soddisfacente; infatti - a prescindere dalla possibile opportunità di una complessiva rivalutazione dei termini della materia alla luce della citata sentenza delle Sezioni unite penali di questa Corte, n. 14723 del 2020, laddove gi pone in evidenza la primaria rilevanza costituzionale degli interessi che la specifica normativa in tema di patrocinio a spese dello Stato è volta a garantire (non diversamente da quelle che, quanto meno nelle intenzioni del legislatore, sono le finalità delle erogazione del "reddito di cittadinanza", essendo questo, evidentemente, destinato a dare attuazione al precetto costituzionale che, in base al comma secondo dell'art. 3 della Carta fondamentale, assegna alla Repubblica il compito di provvedere per la rimozione degli ostacoli di ordine economico che limitano il pieno sviluppo della persona umana), essendo essi riconducibili, nella estrema sintesi che l'attuale collocazione non di primaria centralità, della questione giustifica, alle esigenze di "tutela del diritto inviolabile alla difesa per la persona sprovvista di mezzi economici" (Corte di cassazione, Sezioni unite penali, 12 maggio 2020, n. 14723) - si osserva che, in ogni caso il richiamato art. 95 del dPR n. 115 del 2002, nel prevedere le sanzioni penali in caso di falsità o omissività delle dichiarazioni sostitutive di certificazione ovvero nelle altre dichiarazioni cui la disposizione fa riferimento, mai richiama, come invece espressamente prevede la norma che ora è di più immediato interesse, il fatto che attraverso di esse si sia perseguito il fine di accedere "indebitamente" ad un beneficio.
Ritiene questo Collegio che con tale avverbio - presente, invece, nella normativa precettiva ora rilevante - si sia inteso fare riferimento non tanto ad una volontà di accesso al beneficio messa in atto non iure, cioè in assenza degli elementi formali che avrebbero consentito l'erogazione, quanto ad una volontà diretta ad un conseguimento di esso contra jus, cioè in assenza degli elementi sostanzia lì per il suo riconoscimento; cosa che il riferimento alla non dovutezza del beneficio, cioè alla mancanza degli elementi per la instaurazione del rapporto "obbligatorio" sostanziale a carico dello Stato, fa d'altra parte ritenere.
Un diverso argomentare porterebbe a ricondurre la comminatoria di una sanzione penale, cioè la più grave delle sanzioni che l'ordinamento consente, anche alla sola violazione di un obbligo priva di concreta offensività, posto che tale violazione potrebbe non avere condotto, se il beneficio non fosse stato "indebitamente" richiesta stante la sussistenza di tutte le condizioni sostanziali per la sua erogazione, ad alcun effettivo nocumento per l'ente erogatore.
Appare, pertanto, più in linea con i principi di ordine costituzionale in tema di necessaria offensività del reato il ritenere che con la espressione "al fine di ottenere indebitamente il beneficio..." il legislatore abbia inteso tipizzare in termini di concretezza il pericolo che potrebbe derivare dalla falsità owero dalla omissività delle dichiarazioni presentate per il conseguimento del "reddito di cittadinanza", nel senso che la loro rilevanza penale sarà sussistente nei soli casi in cui intenzione dell'agente era il conseguire, attraverso di esse, un beneficio diversamente non dovuto.
Tanto rilevato si osserva - in tal modo chiarendo un precedente riferimento alla non decisiva rilevanza ai fini della definizione del presente giudizio delle argomentazioni che precedono, ma alla sola concludenza di esse nel senso della affermazione della non manifesta infondatezza del ricorso presentato dalla G. C. - che nella fattispecie il Tribunale di Ragusa - che pur erroneamente, ad avviso di questo Collegio, ha ritenuto non necessaria una specifica indagine in ordine alla legittimità sostanziale dell'accesso della G. C. al beneficio del "reddito di cittadinanza", cioè in ordine alla sussistenza delle condizioni reddituali necessarie, pur tenuto conto del non dichiarato stato di detenzione penale in cui si trova il padre di costei, per godere del beneficio - ha tuttavia rilevato che - alla luce delle informazioni rese dalla Guardia di Finanza, la cui sufficienza ai fini del decidere appare, attesa la presente fase cautelare del giudizio, indiscussa dalla stessa ricorrente che, infatti, sul punto nulla ha osservato - ove si fosse tenuto conto, come doveroso, del dato omesso dalla indagata, portando questo ad una diversa base di calcolo del suo status economico, ella non si troverebbe nelle condizioni reddituali per accedere al beneficio invece a lei ("indebitamente" allo stato degli atti) erogato.
Il ricorso presentato dalla G. C. deve pertanto essere rigettato e la stessa va condannata al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.