Con la sentenza in commento, la Cassazione afferma un nuovo di principio di diritto in tema di quantificazione del danno derivante dalla risoluzione del contratto per inadempimento del compratore.
La vicenda tra origine dalla richiesta di una società di accertare l'inadempimento contrattuale del Comune di Venezia, con conseguente dichiarazione della risoluzione del contratto per colpa del convenuto e condanna del medesimo al risarcimento del danno. A sostegno della sua tesi, la società riferiva di essere stata acquirente di un immobile...
Svolgimento del processo
1. La Corte d'appello di V., con la sentenza n. 1095 del 2016, pubblicata il 16 maggio 2016, ha rigettato l'appello proposto da C. e D. s.r.l., ed accolto l'appello incidentale proposto dal Comune di V. avverso la sentenza del Tribunale di V. n. 1463 del 2013.
1.1. Il giudizio di primo grado era stato introdotto con citazione del 24 dicembre 2009 dalla società C. e D. dinanzi al Tribunale di V., perché fosse accertato l'inadempimento contrattuale del Comune di V., con conseguente dichiarazione della risoluzione del contratto per colpa del Comune e condanna dello stesso al risarcimento del danno.
In premessa la società aveva riferito di essersi resa acquirente del compendio immobiliare denominato ex Pilsen, di proprietà del Comune con rogito del 22 dicembre 2008, che prevedeva la riserva di proprietà del venditore fino al pagamento integrale del prezzo, pattuito in complessivi euro 42.480.000, da corrispondere in parte alla data del 22 dicembre 2009 (euro 24.775.300) e, per la restante parte, nei successivi dieci anni, in rate annuali di euro 1.748.000.
In assunto della società, il Comune si era reso inadempiente ritardando l'approvazione del progetto di ristrutturazione dell'immobile, necessario a che la società ottenesse il finanziamento dell'operazione dalle banche, oltre ad aver violato altre garanzie contrattuali, con conseguente danno quantificato in euro 5.336.732,052.
1.2. Il Comune, che aveva resistito deducendo che il contratto era stato risolto in applicazione della clausola risolutiva espressa, collegata al mancato pagamento da parte della prima tranche del prezzo, aveva domandato in via riconvenzionale la condanna della società al risarcimento del danno pari al minor importo ricavato dalla successiva vendita del compendio immobiliare.
1.3. Il Tribunale di V., con la sentenza non definitiva n. 2702 del 2010, aveva dichiarato risolto il contratto e ordinato la restituzione del bene al Comune.
Con la successiva sentenza n. 1463 del 2013, il Tribunale aveva accertato l'inadempimento della società acquirente per mancato pagamento della prima tranche del prezzo, condannato la stessa società a pagare al Comune euro 12 milioni, pari alla differenza tra il prezzo pattuito e quello realizzato con la successiva vendita dell'immobile, disposto la restituzione alla società della somma versata a titolo di deposito cauzionale, e dichiarato compensate le spese di lite.
2. La Corte d'appello ha confermato il rigetto della domanda della società C. e D., e, in accoglimento dell'appello incidentale, ha riconosciuto a favore del Comune la maggior somma di euro 16.255.300,00 a titolo risarcitorio.
3. Per la cassazione della sentenza C. e D. srl ha proposto ricorso affidato a nove motivi, ai quali resiste, con controricorso, il Comune di V.
Entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimità dell'udienza.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato limitatamente al profilo risarcitorio, come di seguito specificato.
1.1. Con il primo motivo è denunciata violazione dell'art. 1375 cod. civ. e si contesta l'affermazione della Corte d'appello secondo cui, in assenza di espressa previsione contrattuale, il venditore Comune di V. non era tenuto a porre in essere in tempi rapidi l'attività amministrativa necessaria a consentire alla società acquirente di ottenere il finanziamento dell'operazione.
Secondo la ricorrente, la Corte di merito non avrebbe tenuto conto del fatto che operazione era stata concertata tra le parti, le quali erano a conoscenza di tutti gli aspetti rilevanti, a partire dalle difformità urbanistiche dell'immobile e dalla necessità che il Comune si attivasse per superarle, sicché in assenza dell'attività del Comune, l'intera operazione avrebbe perso di significato.
2. Con il secondo motivo è denunciata violazione degli artt. 1228, 1453, 2697 cod. civ., e si censura l'affermazione della Corte d'appello secondo cui, per imputare al Comune di avere tenuto un comportamento contrario al dovere di buona fede nella fase esecutiva del contratto, l'attrice avrebbe dovuto dimostrare l'inerzia colpevole della pubblica amministrazione. In questo modo, la Corte d'appello aveva fatto applicazione della giurisprudenza in tema di responsabilità extracontrattuale da provvedimento illegittimo, che non era all'evidenza pertinente.
3. Con il terzo motivo è denunciata, in primis, nullità della sentenza ex art. 360, n. 4, e 115 cod. proc. civ. perché la Corte d'appello non ha tenuto conto della "non contestazione" del fatto che il rilascio del permesso di costruire era necessario ai fini della concessione del finanziamento dell'operazione e, quindi, del pagamento della prima tranche del prezzo.
Con il motivo 3-bis è denunciato, in via subordinata, omesso esame del fatto decisivo che il finanziamento per il pagamento della prima tranche del prezzo è stato concesso solo dopo che la società attrice aveva ottenuto il permesso di costruire.
Con il motivo 3-ter è denunciata violazione degli artt. 1453 e 1455 cod. civ., e si lamenta che la Corte d'appello aveva ritenuto dimostrato l'adempimento del Comune - nel senso del completamento dell'iter finalizzato al rilascio del permesso di soggiorno in tempo utile a consentire alla società di pagare la prima tranche di prezzo - argomentando dalla circostanza che il finanziamento era stato erogato rapidamente.
4. Con il quarto motivo è denunciato omesso esame del fatto decisivo che le trattative formali con gli istituti di credito iniziarono solo dopo il 10 settembre 2009, perché solo allora la società ottenne rassicurazioni da esponenti del Comune sulla soluzione della questione urbanistica e sull'adozione dell'accertamento definitivo dello stato di alterazione dei manufatti, prodromico alla richiesta del permesso di costruire.
5. Con il quinto motivo è denunciata violazione degli artt. 1173 e 1375 cod. civ. e si contesta la ritenuta pretestuosità dell'iniziativa giudiziaria intrapresa dalla società, che, secondo la Corte d'appello, avrebbe dovuto rinegoziare i termini del contratto.
6. Con il sesto motivo è denunciata violazione dell'art. 1526 cod. civ. e si censura la statuizione sul risarcimento del danno, che sarebbe erronea in quanto nella vendita con riserva della proprietà il venditore ha diritto al risarcimento solo nei limiti dell'anomalo deterioramento del bene.
7. Con il settimo motivo, svolto in via subordinata, è denunciata nullità della sentenza per violazione dell'art. 112 cod. proc. civ., e si lamenta che la Corte territoriale avrebbe omesso di pronunciare sul quarto motivo di appello, con il quale la società aveva contestato l'applicazione del criterio dell'incremento patrimoniale netto.
8. Con l'ottavo motivo, che denuncia in ulteriore subordine la violazione degli artt. 1453 e 1223 cod. civ., la società ricorrente lamenta l'errore in cui sarebbero incorsi i giudici di merito nella liquidazione del danno, per avere utilizzato alla base del calcolo dell'utile patrimoniale netto il prezzo ricavato dal Comune nella successiva vendita dell'immobile a terzi, senza valutarne la corrispondenza al valore di mercato del bene.
9. Con il nono motivo è denunciata violazione dell'art. 1227 cod. civ. e si contesta l'affermazione della Corte d'appello, secondo cui era irrilevante, ai fini della valutazione del concorso del creditore alla produzione del danno, il rifiuto opposto dal Comune alle proposte transattive fatte dalla società.
10. I primi cinque motivi, che attingono sotto vari profili la valutazione del comportamento del Comune, sono privi di fondamento ove non inammissibili.
La tesi prospettata con il primo motivo è che, pur in assenza di un obbligo contrattualmente previsto, il dovere di correttezza che grava sulla PA contraente iure privatorum avrebbe imposto al Comune un comportamento che preservasse gli interessi della controparte. In questa prospettiva, la sentenza d'appello conterrebbe una lettura semplicistica dei fatti, peraltro pacifici nel contenuto e nella scansione temporale.
La tesi non può essere accolta.
10.1. Anche ammettendo che l'operazione sottesa al contratto sia stata concertata e che ogni aspetto della stessa fosse noto alle parti, rimane vero quanto evidenziato dalla Corte d'appello e cioè che il contratto, a fronte della previsione della scadenza fissata per il pagamento della prima tranche del prezzo, rafforzata dalla clausola risolutiva espressa, non contiene alcun riferimento al comportamento del Comune. Non è soltanto l'assenza di riferimenti all'attività del Comune - che potrebbe trovare spiegazione nella considerazione che l'attività amministrativa non poteva essere "vincolata" con esplicita previsione contrattuale - ma l'intero assetto che le parti hanno dato all'operazione al momento della conclusione del contratto, che non può essere integrato in via interpretativa.
10.2. A fronte della regolamentazione di interessi trasfusa nel contratto, neppure è utilmente richiamabile la giurisprudenza ormai cospicua in tema di obblighi di protezione e tutela dell'affidamento nel rapporto tra privato e pubblica amministrazione, secondo lo schema della responsabilità relazionale o da "contatto sociale qualificato", che costituisce fatto idoneo a produrre obbligazioni e dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi dell'art. 1174 cod. civ., bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 e 1375 cod. civ. (per tutte, Cass. 28/04/2020, n. 8326 con ampi richiami all'evoluzione della tutela risarcitoria nei confronti della Pubblica amministrazione).
La responsabilità di tipo contrattuale in assenza di contratto è stata affermata sul rilievo che «l'elemento qualificante di quella che può ormai denominarsi culpa in contrahendo solo di nome, non è più la colpa, bensì la violazione della buona fede che, sulla base dell'affidamento, fa sorgere obblighi di protezione reciproca tra le parti» (Cass. \ 12/07/2016, n. 14188).
Nella fattispecie in esame le parti sono addivenute alla conclusione del contratto, e quindi il tema dell'affidamento nella fase del contatto sociale qualificato è superato dalla regolamentazione di interessi liberamente pattuita, con la conseguenza che la violazione degli obblighi di protezione da parte del Comune sarebbe in astratto predicabile all'interno del contratto. Come già rilevato dalla Corte d'appello, non vi sono elementi per ritenere che il termine fissato per il pagamento della prima tranche del prezzo presupposto dell'avvenuto sia stato individuato sul completamento dell'iter amministrativo, necessario al finanziamento dell'operazione.
Tale collegamento è affermato dalla ricorrente sulla base dell'argomento secondo cui senza il finanziamento essa ricorrente non sarebbe stata in grado di onorare il pagamento. Si tratta di argomento astrattamente plausibile ma non coerente con il contenuto del contratto, e perciò inidoneo ad incrinare la ricostruzione fatta propria dalla Corte d'appello, altrettanto plausibile e quindi sotto tale profilo neppure censurabile (ex multis, Cass. 12/07/2007, n. 15604; Cass. 22/02/2007, n. 4178), che ha escluso il collegamento affermato dalla ricorrente e, di conseguenza, l'obbligo del Comune di tenere il comportamento preteso al fine di preservare il reciproco interesse all'esatto adempimento delle rispettive prestazioni, pregiudicando gli effetti economici e giuridici del contratto.
10.3. La violazione del dovere di buona fede da parte del Comune neppure può essere affermata con riferimento all'invocazione della clausola risolutiva espressa.
Lo svolgimento dei fatti, come riferito dalle parti, dimostra che è stata la società ad agire in giudizio in prevenzione, e pertanto il comportamento processuale del Comune, che si è avvalso della clausola, va esente da censure.
11. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile in quanto attinge un tema estraneo alla ratio decidendi della sentenza impugnata.
Come correttamente rilevato dal PG, la decisione si regge sul rilievo che il Comune non avesse assunto obbligazioni in ordine ai tempi di definizione dell'attività amministrativa, risultando in tal modo superata la questione dell'inerzia colpevole del Comune medesimo. Ne segue che l'affermazione della Corte d'appello oggetto di censura risulta priva di portata decisoria e pertanto neppure deve essere esaminata.
12. Anche il terzo motivo, declinato in tre censure diverse in parte collegate dal vincolo di subordinazione, è privo di fondamento ove non inammissibile.
12.1. Non sussiste la denunciata violazione del principio di non contestazione.
Il fatto asseritamente non contestato risiederebbe, infatti, nella deduzione difensiva della società secondo cui, in assenza del completamento dell'iter amministrativo le banche non avrebbero erogato il finanziamento; sennonché, come evidenziato nel controricorso, si tratta di deduzione successiva alla genesi del rapporto negoziale, che non potrebbe far sorgere in capo al Comune un obbligo che, secondo la ricostruzione fatta dalla Corte d'appello, non era stato assunto contrattualmente e non poteva ritenersi presupposto.
12.2. Sono inammissibili i motivi dedotti sub 3-bis e 3-ter.
La circostanza che le banche deliberarono di concedere il finanziamento alla società solo dopo l'approvazione del progetto di ristrutturazione del complesso edilizio non dimostra che il Comune si fosse obbligato a definire l'iter amministrativo in tempo utile da consentire l'erogazione del finanziamento e, per il tramite di questo, assicurare la provvista per il pagamento della prima tranche del prezzo. Come rilevato dal controricorrente, la tesi difensiva della società è solo in apparenza logica, mentre inverte i termini della questione confondendo il post hoc con il propter hoc.
Manca dunque la decisività del fatto di cui si lamenta l'omesso esame (ex multis, Cass. Sez. U 07/04/2014, n. 8053).
12.3. L'argomento svolto dalla Corte d'appello per escludere l'inerzia colpevole del Comune è privo di portata decisoria, e quindi la censura svolta dalla ricorrente è inammissibile.
Dopo avere escluso l'inadempimento del Comune in quanto del tutto estraneo al rapporto tra la società e i suoi finanziatori (a pag. 24 della sentenza si ribadisce che il tema della tempistica della procedura di finanziamento era indifferente al Comune), la Corte di merito ha rilevato che l'iter amministrativo era stato concluso il 17 dicembre 2009, vale a dire in epoca antecedente alla data in cui la società avrebbe dovuto pagare la prima tranche del prezzo (22 dicembre 2009), mentre primi contatti seri con le banche, per ammissione della stessa società, risalivano soltanto ad epoca successiva al 10 settembre 2009. La ritenuta singolarità della condotta complessiva della società, così stigmatizzata, costituisce all'evidenza argomento ad abundantiam.
13. Il quarto motivo di ricorso, che attinge il tema della "tardiva" attivazione della società presso le banche, è anch'esso inammissibile per carenza di decisività.
Il fatto che la società si fosse risolta a prendere i primi seri contatti con le banche soltanto dopo avere ottenuto da esponenti del Comune rassicurazioni sulla soluzione delle questioni e sull'adozione degli atti prodromici alla richiesta del permesso di costruire è evenienza ininfluente ai fini della valutazione del comportamento del Comune, mentre contribuisce a delineare la singolarità del comportamento della società, in termini di assunzione del rischio.
14. Rilievo analogo vale per il quinto motivo di ricorso, essendo prive di portata decisoria le affermazioni della Corte d'appello circa la pretestuosità dell'iniziativa giudiziaria intrapresa dalla società, che più utilmente avrebbe dovuto cercare un accordo con il Comune, per la proroga del termine di pagamento della prima tranche del prezzo.
15. Il sesto motivo di ricorso è privo di fondamento.
Come affermato dalla Corte d'appello, nella vendita con riserva di proprietà, in caso di inadempimento del compratore, il venditore ha diritto al risarcimento del danno secondo le regole consuete, e non nei soli limiti dell'eventuale deterioramento del bene, come sostenuto dalla società ( che ha richiamato Cass. 14/03/2013, n. 6578 e Cass. 10/09/2010, n. 19287).
Come ribadito di recente da questa corte (Sez. U 28/01/2021, n. 2061, ampiamente ricognitiva pur se riferita specificamente alla disciplina del leasing), la ragione giustificativa della complessiva disciplina recata dall'art. 1526 cod. civ. in tema di vendita con riserva di proprietà, va ricercata nell'intento di ovviare, nella fase patologica del rapporto, agli abusi della prassi commerciale nei confronti della posizione del compratore e, al tempo stesso, a fornire equilibrata tutela pure al venditore, attraverso la previsione dell'equo compenso e del risarcimento del danno.
In questa prospettiva, assunta dalla costante giurisprudenza sul tema, l'equo compenso di cui all'art. 1526 cod. civ. comprende la remunerazione del godimento del bene,
il deprezzamento conseguente alla sua incommerciabilità come nuovo e il logoramento per l'uso (ove un consumo sia configurabile, ovviamente), ma non include il risarcimento del danno spettante al concedente-venditore, il quale deve trovare specifica considerazione (Cass., 24 giugno 2002, n. 9162, Cass., 2 marzo 2007, n. 4969, Cass., 8 gennaio 2010, n. 73, Cass., 24 gennaio 2020, n. 1581), secondo la sua ordinaria configurazione di danno emergente e di lucro cessante.
È dunque proprio in base alla disciplina della vendita con riserva della proprietà (applicata analogicamente al leasing traslativo), che il concedente, in caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, ha diritto al risarcimento del danno, oltre che ad un equo compenso per l'uso dei beni oggetto del contratto (ex multis, Cass. 08/10/2019, n. 25031; Cass. 12/06/2018, n. 15202; Cass. 20/09/2017, n. 21895).
Nella fattispecie in esame, dopo avere escluso il diritto del venditore all'equo compenso per l'uso del bene, e ordinato la restituzione dell'importo versato dalla società acquirente a titolo di deposito cauzionale, la Corte d'appello ha riconosciuto il diritto dello stesso venditore al risarcimento del danno, facendo applicazione dei principi richiamati.
16. Non sussiste l'omessa pronuncia sul quarto motivo di appello, denunciata in subordine con il settimo motivo di ricorso.
16.1. La sentenza impugnata ha rigettato chiaramente la tesi della società che, con il quarto motivo di appello, aveva censurato la quantificazione del danno nella differenza tra il prezzo pattuito dalle parti e quello ricavato dalla successiva vendita del compendio immobiliare a terzi (pagg. 25-26 della sentenza).
17. L'ottavo motivo di ricorso - con il quale la società contesta, in ulteriore subordine, l'erronea quantificazione del danno per violazione di legge - è, invece, fondato.
17.1. La Corte d'appello ha ritenuto che il danno subito dal Comune coincidesse con la differenza tra il prezzo pattuito nel contratto risolto per inadempimento della società acquirente (circa quarantadue milioni di euro), e l'importo ricavato dal Comune con la successiva vendita a terzi (circa ventisei milioni di euro), senza verificare se tale minore ricavo fosse riconducibile al mutato valore di mercato del compendio immobiliare, e senza tenere conto che una parte consistente del prezzo convenuto nel contratto risolto (circa diciassette milioni di euro) avrebbe sarebbe stata corrisposta a rate, nei successivi dieci anni.
Risulta, infatti omessa qualsiasi indagine finalizzata a verificare quale fosse il reale differenziale tra il prezzo originariamente fissato, anche tenuto conto della dilazione del pagamento di una parte di esso, e il ricavato della vendita a terzi, e la sentenza neppure dà conto del contesto fattuale nel quale tale vendita è avvenuta (con quali modalità, sulla base di quale valutazione del compendio etc.).
La Corte di merito si è limitata a richiamare pronunce di legittimità in tema di risarcimento del danno (pag. 25 della sentenza) nelle quali si trova affermato che «il pregiudizio derivante dalla mancata acquisizione di un bene deve essere risarcito con la prestazione del suo equivalente in danaro, determinato con riferimento al momento in cui avviene la liquidazione» (Cass. 29/02/2016, n. 3940) e che «in caso di risoluzione per inadempimento del compratore, il danno va commisurato all'incremento patrimoniale netto che il venditore avrebbe conseguito mediante la realizzazione del contratto» (Cass. 28/03/2001, n. 4473).
Non si è avveduta, la stessa Corte, che entrambe le pronunce richiamate hanno confermato decisioni di merito nelle quali il danno era stato quantificato sulla base di verifiche tecniche (CTU), o previo accertamento di evenienze fattuali che avevano inciso sul valore del bene.
In particolare, per l'analogia con la presente vicenda, è utile riportare un passo della motivazione di Cassazione n. 4473 del 2001, nel quale si legge che «[ ...] la Corte di merito ha individuato il danno nell'accertata differenza tra il prezzo concordato per la prima cessione dell'azienda e quello realizzato con la seconda (differenza che ha attribuito al fatto che il cessionario ha tenuto l'azienda chiusa per un certo periodo di tempo tra il momento, in cui ne ha ricevuto la consegna, e quello, in cui l'ha ceduta per la seconda volta, attraverso un accertamento di fatto congruamente e correttamente motivato) e si è così adeguata alla giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale, in caso di risoluzione del contratto di vendita per inadempimento del compratore, il danno va commisurato all'incremento patrimoniale netto che il venditore avrebbe conseguito mediante la realizzazione del contratto». Come è agevole rilevare, nella fattispecie allora esaminata il giudice di merito aveva specificamente argomentato sulle ragioni che avevano determinato la perdita di valore dell'azienda, diversamente da quanto ha fatto la Corte di merito nel caso odierno.
Sussiste pertanto la denunciata violazione delle norme in tema di risarcimento del danno.
18. Privo di fondamento è, invece, il nono motivo di ricorso che attinge, sotto il profilo della violazione dell'art. 1227 cod. civ., la mancata adesione del Comune alle proposte transattive della società.
In disparte il rilievo che il motivo implica un'indagine di merito preclusa in sede di legittimità, e che i precedenti richiamati a sostegno della tesi della ricorrente concernono fattispecie non assimilabili a quella in esame, lo sviluppo diacronico della vicenda, come rappresentato dalla stessa ricorrente, milita in senso contrario.
Le proposte transattive erano state formulate nel periodo maggio-giugno 2010, mentre la vendita a terzi è avvenuta alla fine del 2010, sicché manca la contestualità che avrebbe potuto veicolare la valutazione circa l'arbitrarietà del
rifiuto del Comune a "rinegoziare" con la società. Come affermato dalla giurisprudenza richiamata dalla ricorrente (Cass. 10/12/2009, n. 25819), tale valutazione deve essere svolta necessariamente secondo un giudizio ex ante, e al momento del rifiuto la scelta del Comune non risultava arbitraria.
19. In conclusione, il ricorso è accolto con riferimento all'ottavo motivo, al cui accoglimento segue la cassazione della sentenza impugnata in parte qua, con rinvio al giudice designato in dispositivo per un nuovo esame della domanda risarcitoria alla luce del principio secondo cui, in caso di risoluzione del contratto per inadempimento del compratore, il venditore ha diritto al risarcimento del danno nella misura della differenza tra quanto avrebbe percepito se il compratore avesse adempiuto e quanto ricavato dalla successiva vendita, tenendo conto del valore di mercato del bene nonché delle modalità e dei tempi pattuiti per il pagamento del prezzo. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie l'ottavo motivo di ricorso, rigetta i motivi primo, terzo, sesto, settimo e nono, dichiara inammissibili i motivi secondo, terzo-bis, terzo-ter, quarto e quinto, cassa la sentenza impugnata limitatamente al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di V., in diversa composizione.