In tema di proposizione di ricorso avverso le ordinanze emesse dal Tribunale nella fase monitoria del procedimento per tutela possessoria, la Corte Suprema, con ordinanza n. 35828 del 6 dicembre 2021, ha avuto l'occasione di ribadire il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il ricorso straordinario per cassazione...
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
Ritenuto che:
- il Tribunale di Vicenza, in parziale accoglimento del reclamo proposto dal D. B. (proprietaria del fondo mappale n. 146 sul quale insisteva la nuova costruzione) e G. R. (usufruttuaria del medesimo fondo) avverso l'ordinanza del 18.07.2016 pronunciata nell'ambito del ricorso per tutela possessoria introdotto da R. R., S. D. ed A. D., proprietarie del fondo mappale (omissis) confinante, con la quale erano state condannate a demolire il nuovo corpo di fabbrica entro quattro mesi, ordinava che l'obbligo di arretrare il nuovo corpo di fabbrica fosse adempiuto nel termine di cinque mesi dalla notificazione dell'ordinanza reclamata, fino a dieci metri dalla facciata dell'edificio posto sul mappale n. 145 alla quale il nuovo corpo di fabbrica aderiva;
- per la cassazione dell'ordinanza del Tribunale di Vicenza ricorrono G. R. e D. B. sulla base di quattro motivi;
- resistono con controricorso le intimate R. R., A. D. e S. D. ;
- in prossimità dell'adunanza camerale entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
Atteso che:
- preliminarmente va esaminata l'eccezione di inammissibilità del ricorso dedotta dalle controricorrenti con riferimento al mezzo di impugnazione. Essa è fondata.
Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. è proponibile avverso provvedimenti giurisdizionali emessi in forma di ordinanza o di decreto solo quando essi siano definitivi e abbiano carattere decisorio, cioè siano in grado di incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale.
È inammissibile - pertanto - l'impugnazione con tale mezzo dell'ordinanza adottata dal tribunale in sede di reclamo avverso provvedimenti di natura cautelare o possessoria, trattandosi di decisione a carattere strumentale e interinale, operante per il limitato tempo del giudizi o di merito e sino all'adozione delle determinazioni definitive all'esito di esso, come tale inidonea a conseguire efficacia di giudicato, sia dal punto di vista formale che da quello sostanziale.
In particolare, è perciò inammissibile il ricorso straordinario per cassazione avverso l'ordinanza resa, nella specie, in sede di reclamo nel procedimento possessorio di cui all'articolo 703 c.p.c., come modificato dal d.l. n. 35 del 14 marzo 2005, convertito in legge n. 80 del 14 maggio 2005, che ha sostituito, alla struttura necessariamente bifasica del procedimento possessorio, una struttura solo eventualmente bifasica (Cass. 22 gennaio 2018 n. 1501; Cass. 8 settembre 2017 n. 20954; Cass. 28 giugno 2017 n. 16259; Cass. 23 marzo 2017 n. 7565; Cass. 10 giugno 2014 n. 13044; Cass. 17 febbraio 2014 n. 3629; Cass., Sez. Un., 20 novembre 2013 n. 26037).
L'attuale articolo 703, comma 4, c.p.c., infatti, rimette all'iniziativa di una delle parti, entro il termine perentorio di sessanta giorni decorrente dalla comunicazione del provvedimento che conclude la fase sommaria diretta all'emissione del provvedimento interinale, la prosecuzione del giudizio per il c.d. merito possessorio con le forme della cognizione piena.
Nel nuovo sistema, pertanto, la tutela possessoria può arrestarsi alla fase sommaria e all'ordinanza che la conclude, ovvero giungere fino alla sentenza di merito, a sua volta soggetta agli ordinari mezzi d'impugnazione.
Ne consegue che l'ordinanza emessa in sede di reclamo, ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., è sempre priva dei requisiti di definitività e decisorietà indispensabili affinché possa essere oggetto di ricorso per cassazione.
Ciò poiché, qualora una delle parti abbia introdotto l'eventuale fase a cognizione piena, tale ordinanza rimane assorbita nella sentenza emessa all'esito dell'eventuale fase di cognizione piena instaurata con la richiesta di prosecuzione del giudizio ex art. 703, comma 4, c.p.c.
Peraltro, nell'ipotesi in cui, invece, la prosecuzione del giudizio non sia stata domandata nel termine perentorio dell'art. 703, comma 4, c.p.c., può prospettarsi o che l'ordinanza acquisisca una stabilità puramente endoprocessuale ed un'efficacia soltanto esecutiva, come succede con le misure cautelari, che la rende inidonea al giudicato e, dunque, non decisoria, oppure che si verifichi un'estinzione del giudizio possessorio in ragione della mancata prosecuzione di esso ai sensi dell'art. 703 c.p.c., comma 4, con conseguente preclusione esterna pro iudicato dovuta all'acquiescenza dimostrata dalla parte interessata (come, ad esempio, nel caso del decreto ingiuntivo o dell'ordinanza ingiuntiva incidentale ex art. 186-ter c.p.c.).
La duplice alternativa, posta da Cass. n. 1501/2018 cit. e da Cass.
n. 3629/2014 cit., non incide comunque sulla negazione del requisito di decisorietà dell'ordinanza emessa in sede di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. e ex art. 703, comma 3, c.p.c., per ciò anche della sua ricorribilità per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., giacché, seguendo la prima opzione, essa potrebbe essere posta nuovamente in discussione nell'ambito di un autonomo giudizio dichiarativo, mentre, a seguire la seconda, essa sarebbe coperta dalla preclusione pro iudicato.
Né a diversa conclusione incide il rilievo che il Tribunale, in sede di reclamo, abbia regolato le spese del procedimento possessorio, non essendo il relativo capo di pronuncia investito da uno specifico motivo di ricorso.
Conclusivamente, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Ricorrono, inoltre, i presupposti di cui all'art. 96, ult. comma c.p.c., come peraltro richiesto dalle controricorrenti in sede di memoria.
Questa Corte ha recentemente riesaminato la questione relativa alla sanzionatoria della condanna per lite temeraria prevista dalla norma teste richiamata, in relazione sia alla necessità di contenere il fenomeno dell'abuso del processo sia alla evoluzione della fattispecie dei "danni punitivi" che ha progressivamente fatto ingresso nel nostro ordinamento.
Al riguardo, è stato affermato che "la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c. e con queste cumulabile, volta al contenimento dell'abuso dello strumento processuale; la sua appliazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di "abuso del processo", quale aver agito o resistito pretestuosamente Cass. n. 27623 del 2017) e cioè nell'evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione.
Tale pronuncia è stata preceduta da un altro fondamentale arresto volto a valorizzare la sanzione prevista dalla norma, secondo il quale "nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile, sicché non è ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto, di origine statunitense, dei "risarcimenti punitivi" (Cass., Sez. Un., n. 16601 del 2017): nella motivazione della sentenza richiamata, l'art. 96 u.co cpc è stato inserito nell'elenco delle fattispecie rinvenibili, nel nostro sistema, con funzione di deterrenza.
In relazione a ciò, va ribadito, a mero titolo esemplificativo, che ai fini della condanna ex art. 96, terzo comma, c.p.c. può costituire abuso del diritto all'impugnazione la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, o completamente privo di autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia, oppure fondato sulla deduzione del vizio di cui all'art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c., ove sia applicabile, ratione temporis, l'art. 348-ter ult. comma c.p.c. che ne esclude la invocabilità.
In tali ipotesi, il ricorso per cassazione integra un ingiustificato sviamento del sistema giurisdizionale, essendo non già finalizzato alla tutela dei diritti ed alla risposta alle istanze di giustizia, ma destinato soltanto ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, a ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti ed il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione.
Nel caso in esame, lo stesso ricorso è inammissibile per essere stato proposto in una materia in cui è pacificamente escluso - a prescindere dalle censure in esso contenute pure inammissibili - e nonostante ciò le ricorrenti non hanno preso neanche posizione nella memoria illustrativa, per cui deve ritenersi gravemente erroneo e non più compatibile con un quadro ordinamentale che, da una parte, deve universalmente garantire l'accesso alla giustizia ed alla tutela dei diritti ( cfr. art. 6 CEDU ) e, dall'altra, deve tener conto del principio costituzionalizzato della ragionevole durata del processo ( art. 111 Cost.) e della necessità di creare strumenti dissuasivi rispetto ad azioni meramente dilatorie e defatigatorie: in tale contesto è sanzionabile l'abuso dello strumento giudiziario (Cass. n. 10177 del 2015), proprio al fine di evitare la dispersione delle risorse per la giurisdizione (cfr Cass., Sez. Un., 12310/2015 in motivazione) e consentire l'accesso alla tutela giudiziaria dei soggetti meritevoli e de ì diritti violati, per il quale, nella giustizia civile, il primo filtro valutativo - rispetto alle azioni ed ai rimedi da promuovere - è affidato alla prudenza del ceto forense coniugata con il principio di responsabilità delle parti.
Deve pertanto concludersi per la condanna delle ricorrenti, d'ufficio, al pagamento in favore della controparte, in aggiunta alle spese di lite, di una somma equitativamente determinata in complessive euro 3.000,00, pari ad euro 1.000,00 per ciascuna controricorrente, in termini di proporzionalità (cfr. Cass., Sez. Un., 16601/2017 sopra richiamata), al compenso liquidabile in relazione al valore della causa.
Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è stato rigettato, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico f) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater - / della sussistenza dell'obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso;
condanna le ricorrenti in solido alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione in favore delle controricorrenti che liquida in complessivi euro 4.700,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie e agli accessori come per legge; condanna altresì le ricorrenti, ex art. 96 ult. comma c.p.c., al pagamento di euro 3000,00 in favore delle controparti.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.