Secondo le SS.UU Civili, tale condotta costituisce una violazione del dovere di verità, in quanto la qualifica professionale dell'incolpato non giustifica la tesi dell'errore nell'uso dell'espressione.
Il CNF, in parziale riforma del provvedimento del CDD di Roma, rideterminava la sanzione disciplinare comminata ad un avvocato, irrogando la sospensione dell'attività professionale per la durata di quattro mesi e confermando per la parte restante la decisione. Il legale era stato ritenuto responsabile della violazione del dovere di verità,...
Svolgimento del processo
1 - Il Consiglio Nazionale Forense, con sentenza n. 61 del 2021, in parziale riforma del provvedimento del Consiglio Distrettuale di Disciplina dell'ordine degli Avvocati di Roma, rideterminò la sanzione disciplinare applicata nei confronti dell'avv. S.F. in quella della sospensione dall'esercizio della professione forense per quattro mesi, confermando nel resto la decisione dell'organo disciplinare che aveva ritenuto il predetto responsabile dei fatti di cui alla contestazione (violazione degli artt. 6 e 14 del codice disciplinare previgente per avere dichiarato, contrariamente al vero, nell'atto di citazione della causa promossa da N.M., G. e C., definitasi con sentenza del Tribunale di Roma n. 2385/15, che i predetti attori erano stati assolti con sentenza 16857/2011 nel procedimento penale in cui erano imputati e che nel relativo dibattimento il teste Gi. aveva ritrattato la propria versione scagionandoli, oltre ad avere perseverato in tale condotta anche con l'atto di appello del 27/1/2016). Nella sentenza si precisava che il procedimento era nato dall'esposto presentato dalla società Monaco s.p.a. nei confronti dell'avv. S., con il quale era stato rappresentato che il 22 dicembre 2008 alcuni dipendenti della società, recatisi, a seguito di provvedimento dell'autorità giudiziaria, presso il terreno della Monaco s.p.a. occupato sine titulo da N.M., G. e C. per eseguire l'immissione in possesso, non avevano potuto procedere per il comportamento degli occupanti, i quali avevano indirizzato nei loro confronti la frase "se volete passare un Natale tranquillo allontanatevi". Gli occupanti erano sottoposti a procedimento penale per il reato di violenza privata ma, a seguito di richiesta di derubricazione del capo d'imputazione in minacce formulata dal Pubblico Ministero di udienza, cui era seguita l'adesione del difensore S., il processo era stato definito con il proscioglimento degli imputati per difetto di querela. Successivamente, con atto di citazione del 29 febbraio 2012, su mandato di N.M., G. e C., l'avv. S. aveva chiesto la condanna di Monaco s.p.a. al risarcimento dei danni, quantificati in Euro 1.000.000, per il turbamento psicologico derivato dall'essere stati sottoposti ingiustamente a procedimento penale e poi assolti.
2 - Il Consiglio Nazionale Forense, per ciò che in questa sede interessa, osservava che l'avvocato era ben consapevole della portata giuridica della sentenza del Tribunale penale, stante l'adesione prestata alla derubricazione del reato, e che con la sua condotta aveva violato sia il dovere di lealtà e correttezza (artt. 9 e 50 del codice deontologico), sia il dovere di verità, pure previsto dall'art. 50, in cui viene sancito il dovere dell'avvocato di non rendere false dichiarazioni sull'esistenza o inesistenza di fatti di cui abbia diretta conoscenza.
3 - Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione dall'avvocato sulla base di tre motivi.
4 - L'intimato Consiglio Nazionale Forense non ha svolto attività difensiva in questa sede.
5 - Il rappresentante della Procura Generale, con requisitoria scritta, ha concluso per il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
1 - Con il primo motivo il ricorrente deduce illegittimità della sentenza impugnata ex art. 360 c.p.c., n. 3 - illegittimità della sanzione disciplinare irrogata - violazione di legge - violazione degli artt. 9 e 50 in ordine alla supposta violazione dell'obbligo di verità. Rileva che il codice deontologico forense (art. 50 testo attuale, art. 14 testo previgente) prevede il dovere di verità inteso come dovere di non rendere false dichiarazioni sull'esistenza o inesistenza di fatti di cui l'avvocato abbia diretta conoscenza e suscettibili di essere assunti come presupposto di un provvedimento del magistrato. Ciò presuppone la consapevolezza in capo al legale circa la falsità della dichiarazione resa in ordine alla inesistenza - esistenza del fatto. Nella specie il delitto di violenza privata per il quale si era proceduto sulla base di denuncia della Monaco s.p.a. era risultato insussistente e l'errore dell'avvocato era stato solo quello di aver esperito l'azione per il risarcimento del danno patito dai suoi assistiti, rappresentando con il termine assoluzione e non proscioglimento la pronuncia su un reato meno grave che non era a fondamento dell'istanza risarcitoria avanzata, sicchè l'uso errato del termine non appare finalizzato nè idoneo a trarre in errore il giudice, che ben ha rappresentato la reale situazione nella sentenza di primo grado.
2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce l'illegittimità della sanzione impugnata, la violazione degli artt. 3 e 24 Cost., la violazione dell'art. 4 codice deontologico forense, l'insussistenza dell'elemento soggettivo dell'incolpazione. Osserva che l'art. 4 del codice deontologico forense richiede la coscienza e volontà dell'azione dell'incolpato, di cui non sussiste prova nella specie per avere il ricorrente chiarito di essere incorso in errore con riferimento alla ritenuta equivalenza tra assoluzione e proscioglimento circa la fattispecie derubricata. Manca, quindi, in capo al S. la volontà consapevole di commettere un illecito disciplinare.
3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce l'illegittimità della sanzione impugnata per violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dell'art. 50 del codice deontologico forense con riferimento al trattamento sanzionatorio. Osserva che l'evidente errore nel quale è incorso l'incolpato, che ha fatto riferimento ad una accezione di assoluzione comprendente il proscioglimento, depriva l'addebito della violazione del dovere di verità del connotato soggettivo del dolo, talchè la sanzione disciplinare non poteva eccedere i due mesi di sospensione dell'attività professionale.
4. I primi due motivi possono essere trattati congiuntamente per la loro intima connessione. Essi sono infondati per le ragioni già indicate dal Consiglio Nazionale Forense: la qualifica professionale dell'incolpato non consente di supportare la tesi dell'errore nell'uso dell'espressione assoluzione in luogo di proscioglimento, essendo il S., peraltro, ben consapevole della relativa differenza, per aver prestato adesione alla derubricazione del reato che ha comportato il proscioglimento per assenza della condizione di procedibilità. La circostanza, poi, che la situazione reale sia stata ben rappresentata dal giudice nella sentenza civile che ha rigettato la domanda risarcitoria, non sta a significare di per sè irrilevanza della condotta, poichè la sentenza è stata resa all'esito del contraddittorio e alla rappresentazione della realtà dei fatti ha contribuito l'attività della controparte.
5. Le argomentazioni svolte sono idonee a escludere anche la rilevanza del terzo motivo, poichè, non potendo elidersi la condotta relativa al dovere di verità, resta ferma la sanzione irrogata, essendo l'apprezzamento della gravità del fatto e della condotta addebitata all'incolpato, rilevante ai fini della scelta della sanzione opportuna ai sensi dell'art. 22 del codice deontologico forense, rimesso all'Ordine professionale e non consentendo il controllo di legittimità sull'applicazione di tale norma che la Corte di cassazione possa sostituirsi al Consiglio nazionale forense nel giudizio di adeguatezza della sanzione irrogata (Cass. n. 6967 del 17/03/2017).
6. Il ricorso, pertanto, in ragione della totale infondatezza, va rigettato.
7. Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, non avendo l'intimato Consiglio dell'ordine svolto attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.