Il Tribunale confermava il decreto con cui si disponeva il sequestro preventivo finalizzato alla confisca delle somme attive esistenti sui rapporti finanziari e/o bancari dell'imputato, in quanto si riteneva che le stesse costituissero il profitto del reato di concorso in traffico di influenze illecite. Nello specifico, secondo l'imputazione provvisoria il...
Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Roma ha confermato il decreto con cui è stato disposto nei confronti di G.D.R. il sequestro preventivo finalizzato alla confisca dei "saldi attivi esistenti sui rapporti finanziari e/o bancari fino a concorrenza dell'importo di euro 212.000"; la somma indicata costituirebbe il prezzo del reato di concorso in traffico di influenze illecite. Secondo l'imputazione provvisoria, M.B., sfruttando le sue relazioni personali con D.A., Commissario Nazionale per l'emergenza Covid, si sarebbe fatto dare o promettere da T.A.V., che avrebbe agito in concorso con G.D. e S.S.A.J.E., la somma di euro 11.948.852,00 quale remunerazione indebita di una mediazione illecita - perché occulta, svolta al di fuori di un ruolo professionale/istituzionale e fondata sulle relazioni personali con lo stesso A. - relativa alle commesse di fornitura di dispositivi di protezione personale (mascherine), ordinate dal Commissario straordinario a tre società cinesi al prezzo di 1.251.500.00 euro; dette società sarebbero state individuate dallo stesso T.A.V. , "titolare della società S. s.r.l." e da S.S.A.J.E., titolare di fatto di un'altra società (G. s.r.l.), i quali avrebbero ricevuto provvigioni rispettivamente di euro 59.705.882,00, transitati sul conto della società S. e di euro 5.800.000,00 transitati sui conti societari della G.. Una parte della somma percepita da B. sarebbe confluita su un conto corrente della società M.I. s.r.l. di cui sarebbe stata legale rappresentante D.G., compagna dello stesso B..
2. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'indagata articolando tre motivi.
2.1. Con il primo si deduce violazione di legge quanto alla ritenuta sussistenza del fumus del reato contestato. Il tema attiene alla illiceità della mediazione, che, si argomenta, il Tribunale avrebbe fatto discendere dal rapporto tra B. ed il Commissario A., confidenziale e preesistente anche alla nomina del secondo a Commissario, dall'assenza di un titolo ufficiale da parte del mediatore e della mancanza di forma scritta del contratto, senza tuttavia considerare che il contratto di mediazione è un contratto a forma libera e che ciò che assume rilievo è l'effettiva realizzazione dell'accordo "indipendentemente dalla pubblicizzazione o meno dello stesso". Diversamente dalle considerazioni del Tribunale, il reato previsto dall'art. 346 bis cod. pen. non coinciderebbe con il mero "traffico di influenza", essendo invece necessario che il contrato sia illecito; la illiceità dipenderebbe non dalla circostanza che il mediatore conosca o meno il pubblico agente, quanto, piuttosto, "dalla natura intrinsecamente illecita della mediazione". La mediazione, secondo la ricorrente, è illecita se: a) "si svolge" con il fine manifestato al privato - ma solo millantato- di corrompere il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio; b) il privato, che si avvale del mediatore, sia vittima di un inganno, atteso che, diversamente, rivestirebbe la veste di corruttore, c) l'iniziativa della condotta criminosa sia del mediatore e non del pubblico agente che, anzi, assume il ruolo di vittima inconsapevole del traffico di influenza del mediatore. Nel caso di specie, si precisa, con la richiesta di riesame fu evidenziato: a) come l'iniziativa fosse stata assunta dal Commissario Straordinario che chiese, in un momento di emergenza, a B. di interessarsi per la fornitura di mascherine e che, successivamente, quando apprese della concreta possibilità della fornitura, si limitò ad indirizzare lo stesso B. alla dott.ssa S.F. della struttura commissariale; b) non vi fosse stata nessuna attività ingannatoria nei confronti del pubblico ufficiale e neppure nei riguardi del privato fornitore cinese.
2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione dell'art. 324, comma 7, cod. proc. pen. nella parte in cui è richiamato l'art. 309, comma 10, cod. proc. pen.; si assume che la misura cautelare reale sarebbe divenuta inefficace per la mancata trasmissione degli atti su cui essa è fondata, cioè, nella specie, la notitia criminis da cui sarebbe stato originato il procedimento, mai posta a disposizione dell'indagata.
2.3. Con il terzo motivo si deduce "la distorsione funzionale del sequestro preventivo utilizzato come sequestro per equivalente" (così il ricorso). L'indagata avrebbe subito il sequestro non delle somme di denaro "ritenute provento del reato", quanto, piuttosto di quelle che dovrebbe restituire nel caso in cui fosse condannata.
Motivi della decisione
1.Il ricorso è fondato quanto al primo motivo.
2. È infondato, ai limiti della inammissibilità, il secondo motivo di ricorso, che ha carattere pregiudiziale. La Corte di cassazione ha già chiarito che in tema di riesame di provvedimenti di sequestro, anche dopo l'entrata in vigore della legge n. 47 del 2015, che ha novellato l'art. 324, comma 7, cod. proc. pen., non è applicabile il termine perentorio di cinque giorni per la trasmissione degli atti al tribunale, previsto dall'art. 309, comma 5, cod. proc. pen., con conseguente perdita di efficacia della misura cautelare impugnata in caso di trasmissione tardiva, bensì il diverso termine indicato dall'art. 324, comma 3, cod. proc. pen., che ha natura meramente ordinatoria (Sez. 6, n. 47883 del 25/09/209 Yzeiray, Rv. 277566; sul tema, Sez. U., n. 26268 del 28/03/2013, C., Rv. 255581). Nulla di specifico è stato dedotto, nemmeno se l'atto indicato sia stato presentato al Giudice per le indagini preliminari ai sensi dell'art. 291 cod. proc. pen.
3. È invece fondato il secondo motivo di ricorso.
3.1. Il tema attiene alla sussistenza in questa fase del procedimento del fumus del delitto di traffico di influenze illecite, cioè del reato per il quale la misura cautelare è stata disposta. La questione, che prescinde da eventuali sviluppi investigativi, è se fosse configurabile il fumus del reato per il quale si procede al momento in cui la misura è stata disposta ovvero al momento in cui il Tribunale ha emesso l'ordinanza impugnata.
3.2. In materia di misure cautelari reali va registrata la graduale tendenza della giurisprudenza della Corte di cassazione a valutare con maggiore rigore i presupposti che giustificano l'adozione del sequestro preventivo: si richiede che il giudice verifichi la sussistenza del fumus commissi de/icti attraverso un accertamento concreto, basato sulla indicazione di elementi dimostrativi, sia pure sul piano indiziario, della sussistenza del reato ipotizzato. Si coglie la consapevolezza di come la tesi consolidata, autorevolmente sostenuta - secondo cui, ai fini della verifica del requisito del fumus, sarebbe sufficiente accertare l'astratta configurabilità del reato ipotizzato (Sez. U, n. 4 del 25/03/1993, G., Rv. 193118)- abbia condotto ad una erosione in senso verticale ed orizzontale del contenuto della motivazione del relativo provvedimento dispositivo del vincolo cautelare; l'impegno argomentativo del giudice è comunemente inteso, per un verso, arretrato al di sotto del limite della verifica della fondatezza prognostica dell'ipotesi di reato prospettata, e, dall'altro, limitato alla tipicità del fatto materiale prospettato nella sua descrizione da parte del Pubblico Ministero, non essendo richiesta una ricostruzione in concreto delle modalità con cui la ipotizzata condotta criminosa si sia manifestata, cioè, una valutazione fattuale della ipotesi tipica enunciata. Si tratta di una impostazione, in realtà, già in passato precisata dalla Corte di cassazione che, evidentemente consapevole del rischio di svuotamento della funzione di garanzia della motivazione, ha in più occasioni affermato la necessità di individuare il presupposto del sequestro preventivo nella concretezza degli indizi di reato, pur escludendo la tesi estrema che richiederebbe la presenza dei gravi indizi di colpevolezza (Sez. U, n. 23 del 20/11/1996, B., Rv. 206657; cfr. Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, dep. 2004, M.). Le misure cautelari - civili e penali- hanno tutte una funzione strumentale, quella cioè di evitare fatti tali da pregiudicare l'efficacia del provvedimento definitivo; i provvedimenti cautelari sono cioè funzionali ad assicurare la fruttuosità pratica di un ulteriore provvedimento, quello finale di merito. Il sequestro preventivo, salvo rarissimi casi (art. 240, comma 2, n. 2 cod. pen.), è una misura di coercizione reale connessa e strumentale allo svolgimento del procedimento penale ed all'accertamento del reato per cui si procede, nel senso che suo scopo è quello di evitare che il trascorrere del tempo possa pregiudicare irrimediabilmente l'effettività della giurisdizione espressa con la sentenza di condanna e con la confisca (Sez. U., n. 12878 del 29/01/2003, D.L.). Un reato, tuttavia, deve essere configurabile ed il giudice deve poter esercitare un controllo effettivo che, pur coordinato e proporzionale con lo stato del procedimento e delle indagini, non sia meramente formale, apparente, appiattito alla mera prospettazione astratta, ipotetica ed esplorativa della esistenza di un reato da parte della Pubblica Accusa. Si tratta di una esigenza funzionale alla ineludibile necessità di un'interpretazione della norma che tenga conto del requisito della proporzionalità della misura adottata rispetto alla finalità perseguita, in un corretto bilanciamento dei diversi interessi coinvolti. È diffuso nella giurisprudenza di legittimità il principio per cui anche la funzione "cautelare" del sequestro, strumentale rispetto al successivo provvedimento di merito, non è sganciata dai principi di adeguatezza e proporzionalità. Il principio di proporzione, certamente ancorato alla disciplina delle cautele personali nel procedimento penale ed alla tutela dei diritti inviolabili, ha nel sistema una portata più ampia; esso travalica il perimetro della libertà individuale per divenire termine necessario di raffronto tra la compressione dei diritti quesiti e la giustificazione della loro limitazione. In ambito sovranazionale, il principio in esame è ormai affermato tanto dalle fonti dell'Unione (cfr. par. 3 e 4 dell'art. 5 TUE, art. 49 par. 3 e art. 52 par. 1 della Carta dei diritti fondamentali; sul punto, cfr., Sez. 3, n. 42178 del 29/09/2009, S., Rv. 245172), che dal sistema della CEDU. La Corte costituzionale ha chiarito in più occasioni, ed anche di recente, come il generale controllo di ragionevolezza, a sua volta effettuato attraverso il bilanciamento tra gli interessi in conflitto, comprenda il canone modale della proporzionalità (Corte cast., sentenza n. 85 del 2013, ma anche n. 20 del 2017, in cui la Corte, in tema di "riservatezza", ha ritenuto fondamentale che le disposizioni limitative della libertà di comunicazione rispettino la riserva assoluta di legge e di giurisdizione, nonché i princìpi di ragionevolezza e di proporzionalità alla luce dei parametri della idoneità, necessità e proporzionalità in senso stretto). In tal senso è condivisibile quanto affermato in dottrina, e cioè che il rango conferito dall'ordinamento interno alle fonti sovranazionali consente di affermare che, qualunque sia la natura secondo cui sono costruite - sostanziale o processuale - le tutele dei diritti, si deve tenere conto del cd. test di proporzionalità. Il principio in esame è capace di fungere da guida per lo sviluppo futuro della materia, in diversi ambiti. Si può affermare che, anche nei casi in cui non entri espressamente in gioco il tema dei diritti fondamentali, il principio di proporzionalità rappresenti un utile termine di paragone per lo sviluppo di soluzioni ermeneutiche e, ancor prima, di nuovi modelli di ragionamento giuridico. Si comprende, dunque, il senso dell'affermazione giurisprudenziale secondo cui ciò che deve essere in concreto verificato, nell'ambito degli elementi di fatto indicati dall'Accusa, è la loro congruità ai fini della legittimità del provvedimento di sequestro; il Giudice non deve limitarsi a "prendere atto" della tesi accusatoria, senza svolgere alcuna altra attività, ma è tenuto ad assolvere un indispensabile ruolo di garanzia, tenendo nel debito conto le contestazioni difensive sull'esistenza della fattispecie dedotta ed esaminando sotto ogni aspetto l'integralità dei presupposti che legittimano il sequestro. Al giudice spetta il dovere d'accertare la sussistenza del c.d. "fumus commissi delicti", che, pur ricondotto nel campo dell'astrattezza, va sempre riferito ad un'ipotesi, ascrivibile alla "realtà effettuale" e non a quella "virtuale" (così, testualmente, Sez. U., B., cit.; sul tema anche Corte cost. n. 48 del 1994). Il fumus richiesto per l'adozione del sequestro preventivo è costituito dalla esistenza di indizi di reato, cioè dalla esistenza di elementi concreti che facciano apparire verosimile che un reato sia stato commesso. È necessaria una verifica puntuale e coerente delle risultanze processuali, in base alle quali vengono in concreto ritenuti esistenti il reato configurato e la conseguente possibilità di ricondurre alla figura astratta la fattispecie concreta (Sez. 6, n. 18183 del 23/11/2017, dep. 2018, P., Rv. 279927; Sez. 6, n. 49478 del 21/10/2015, M., Rv. 265433; Sez. 5, n. 49595 del 16/09/2014, A., Rv. 261677; SEz 3, n. 37851 del 04/06/2014, P., Rv. 260945; Sez. 5, n. 28515 del 21/05/2014, C., Rv. 260921).
3.3. Sulla base di tali principi è necessario verificare se in concreto nella specie in esame sussista il fumus del delitto previsto dall'art. 346 -bis cod. pen. Quanto al delitto di traffico di influenze illecite, è stato evidenziato come, a seguito della legge 9 gennaio 2019, n. 3, la base di tipicità del reato sia stata rimodellata estensivamente in una triplice direzione: - si è provveduto all'abrogazione del reato di millantato credito sulla scia delle previsioni sovranazionali che sollecitavano la punizione della compravendita di influenza; - si è eliminato l'inciso contenuto nel precedente testo dell'art. 346-bis «in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio»; - è venuta meno la natura necessariamente "patrimoniale" del vantaggio dato o promesso al mediatore, per cui ora la disposizione individua il corrispettivo ricevuto dal venditore di influenza con il generico termine "utilità"; - il raggio operativo dell'incriminazione è stato ampliato agli accordi finalizzati ad influenzare un pubblico ufficiale straniero o altro soggetto menzionato nell'art. 322-bis cod. pen. (traffico di influenze c.d. internazionale). Si è da più parti affermato in maniera condivisibile, quanto alla offensività ed alla lesione del bene giuridico, che l'art. 346-bis cod. pen. incrimina attualmente condotte prodromiche a più gravi fatti, secondo la tecnica della anticipazione della tutela; una tutela avanzata dei beni della legalità e della imparzialità della pubblica amministrazione rispetto ad un tipo criminoso obiettivamente non omogeneo. L'ampliamento della clausola di sussidiarietà dell'art. 346-bis cod. pen., oltre ad escludere il concorso tra il traffico di influenze e le più gravi ipotesi di corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio e di corruzione in atti giudiziari, assume rilievo anche in ordine ai delitti di cui agli artt. 318 e 322-bis cod. pen. Si sono fugate le incertezze riguardanti il rapporto tra il traffico di influenze e la corruzione per l'esercizio della funzione, laddove il pubblico ufficiale (o l'incaricato di pubblico servizio) accetti la promessa o la dazione del denaro o dell'utilità offertagli dall'intermediario per il compimento di un atto conforme ai suoi doveri d'ufficio ovvero per la vendita della sua funzione, di sé stesso, del suo essere pubblico agente. Nell'eventualità in cui la mediazione illecita vada a buon fine e si concluda l'accordo con il pubblico agente, le condotte descritte nell'art. 346-bis cod. pen. degraderanno a mero ante-factum non punibile, il cui disvalore risulterà assorbito in quello degli altri e più gravi delitti richiamati dalla clausola.
3.4. Anche dopo la novella del 2019, la materialità del fatto incriminato dall'art. 346- bis cod. pen. continua a descrivere due condotte tra loro alternative, che differiscono in ordine alla causa ed alla giustificazione della promessa/dazione del compratore di influenze. Nella prima ipotesi, l'erogazione indebita costituisce il corrispettivo della mediazione illecita presso il pubblico agente italiano, straniero o internazionale. Nella seconda, la corresponsione illecita è effettuata all'intermediario affinché questi, a sua volta, remuneri il soggetto pubblico in relazione all'esercizio delle sue funzioni o poteri. Tale quadro di riferimento si distingue ulteriormente, con varie possibili combinazioni, in ragione della duplicità delle condotte dell'intermediario, consistenti nello sfruttare ovvero vantare relazioni, esistenti o asserite, con il pubblico ufficiale. Si tratta di condotte (sfruttamento, vanteria) che possono riguardare: a) un rapporto tra mediatore e pubblico agente ed una capacità di influenza del primo che possono effettivamente esistere già al momento in cui la condotta è commessa e di cui il "compratore" può essere già a conoscenza; b) un rapporto che non esiste al momento in cui il "l'influenza" viene venduta ma che il "compratore" sa del potere del "venditore" di realizzalo, di concretizzarlo, di renderlo effettivo - grazie ad una capacità di influenza potenziale (dovuta ad es. al suo prestigio sociale o posizione professionale riconosciuta nell'ambiente di riferimento); c) un rapporto che esiste e che tuttavia è magnificato dal "mediatore", ampliato, fatto apparire più intenso di quanto lo sia in concreto; d) un rapporto che non solo non esiste al momento in cui la condotta è compiuta ma che il "venditore" sa che non potrà nemmeno realizzarsi in futuro e che il "compratore" ritiene invece esistente o realizzabile per effetto di una condotta decettiva del mediatore (un traffico di influenze impossibile/putativo). Il rapporto tra mediatore e pubblico agente e la capacità di influenza del primo sul secondo possono essere inesistenti, esistenti - anche solo in potenza- e, posto che siano esistenti, assumere diverse gradazioni e modulazioni a seguito delle asserzioni del "mediatore -venditore".
3.5. In tale contesto, la modalità comportamentale consistente nella dazione/promessa del privato committente al "trafficante di influenza" affinché questi provveda a remunerare il pubblico agente (c.d. mediazione gratuita) è quella di più agevole discernimento sul piano strutturale. L'accordo illecito nella specie assume, infatti, una finalità prospetticamente corruttiva e si colloca in uno stadio anticipato rispetto alle fattispecie previste dagli artt. 318 ss. cod. pen. L'ultima novella legislativa ha fortemente esteso il perimetro applicativo della fattispecie; mentre infatti nel testo previgente la remunerazione doveva essere condivisa dalle parti dell'accordo illecito in vista dell'ottenimento di un atto antidoveroso compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio ovvero omissione o ritardo di un atto dell'ufficio-, nel nuovo regime normativo, invece, tale proiezione finalistica realizza una aggravante, quella che è stata innestata nel comma 4, parte seconda, dell'art. 346-bis cod. pen. Si è osservato in dottrina che in tali casi l'utilitas promessa o erogata dal "cliente" costituisce il prezzo che l'intermediario dovrà versare al pubblico agente per ottenere uno specifico atto dell'ufficio, per "asservirlo" stabilmente o semplicemente per instaurare una relazione privilegiata pro futuro. In tali casi il carattere illecito della mediazione è più facilmente percepibile e configurabile, atteso il carattere intrinsecamente ed auto-evidente illecito del "contratto". Qualora il pagamento indebito programmato vada a buon fine, si realizzerà, come detto, un concorso trilaterale in corruzione tra gli aderenti al patto d'influenza e il pubblico ufficiale indebitamente remunerato.
3.6. Quanto alla c.d. mediazione onerosa, quella cioè in cui la prestazione del committente costituisce solo il corrispettivo per la mediazione illecita promessa dall'intermediario nei confronti del pubblico agente: l'utilità corrisposta dall'acquirente dell'influenza non è diretta, neppure in parte, a retribuire il pubblico agente, bensì costituisce il prezzo per l'intercessione promessa dal "faccendiere". In tali casi, la questione attiene alla individuazione delle condizioni in presenza delle quali può dirsi "illecita" una mediazione onerosa che - in assenza di pressioni estorsive o, più in generale, condizionamenti corruttivi - sia finalisticamente rivolta ad ottenere, un provvedimento ovvero un qualsiasi atto favorevole, anche discrezionale. Nel caso di mediazione onerosa, con la riforma del 2019, la punibilità viene fatta discendere dal mero accordo tra committente e intermediario, originato, sul piano dei motivi, dalla possibilità di sfruttare una relazione reale con il pubblico agente ovvero semplicemente indotta dalla ostentazione di relazioni in tutto o in parte ineffettive: un accordo che nella prospettiva dualistica del committente e del mediatore deve tuttavia essere diretto ad "influenzare" l'operato del "pubblico agente-bersaglio", al di là dell'effettivo esercizio di una ingerenza inquinante e del conseguimento del risultato desiderato. Alla luce delle considerazioni esposte è possibile innanzitutto definire ciò che non può considerarsi mediazione onerosa illecita, almeno finché perduri l'assenza di una regolamentazione legale dell'attività dei gruppi di pressione in grado di riempire di contenuto l'elemento di illiceità speciale in oggetto. Non può essere oggetto di incriminazione il contratto di per sè, sia esso di mediazione in senso stretto o di altro tipo, atteso che, se così fosse, la tensione della fattispecie rispetto ai principi fondanti di materialità del fatto, di tipicità, di frammentarietà, di offensività sarebbe evidente. Non può assumere rilievo il mero "uso" di una relazione personale - preesistente o potenziale- il fatto cioè che un privato contatti una persona in ragione del conseguimento di un dato obiettivo lecito perché consapevole della relazione, della possibilità di "contatto", tra il "mediatore" ed il pubblico agente, da cui dipende il conseguimento dell'obiettivo perseguito. Né, ancora, può assumere decisivo rilievo, ai fini della connotazione di illiceità, la mera circostanza che il contratto tra committente e venditore presenti difformità dal tipo legale, presenti cioè profili di illegittimità negoziale, tenuto conto peraltro che il riferimento alla mediazione, contenuto nell'art. 346 bis cod. pen., non deve essere inteso come esclusivamente riferito al contratto tipico di mediazione disciplinato dagli artt. 1754 e ss. cod. civ., ma, più in generale, a quel sistema di rapporti, che, pur non essendo riconducibili tecnicamente al contratto in questione, si caratterizzano nondimeno per la presenza di "procacciatori d'affari" ovvero per mere "relazioni informali" fondate su opacità diffuse, da scarsa trasparenza, da aderenze difficilmente classificabili. Il tema della validità negoziale della "mediazione" può al più assumere una valenza probatoria, di cui si dirà. In realtà, si è fatto correttamente notare, in assenza di una disciplina organica del lobbismo, volta a disciplinare le "modalità abusive" di "contatto" tra mediatore e pubblico agente e, quindi, in mancanza di riferimenti chiari volti a definire la "illiceità modale" della mediazione, il connotato di illiceità della mediazione onerosa deve essere correlata allo "scopo", alla finalità dell'attività d'influenza. La mediazione onerosa è illecita in ragione della proiezione "esterna" del rapporto dei contraenti, dell'obiettivo finale dell'influenza compravenduta, nel senso che la mediazione è illecita se è volta alla commissione di un illecito penale - di un reato. idoneo a produrre vantaggi al committente. Un reato oggetto del programma contrattuale che permea la finalità del committente e giustifica l'incarico al mediatore. Una mediazione espressione della intenzione di inquinare l'esercizio della funzione del pubblico agente, di condizionare, di alterare la comparazione degli interessi, di compromettere l'uso del potere discrezionale. Si tratta di un tema in cui il profilo giuridico interferisce con quello processuale di accertamento probatorio dei fatti. Un reato, quello inquinante la mediazione, che potrà essere individuato nei suoi contorni, nella sua essenza, nella sua configurazione strutturale con un quantum probatorio - dimostrativo della finalità perturbatrice della pubblica funzione- variabile in ragione dello stato del procedimento. Ciò che assumerà rilevante valenza è la ricostruzione dell'oggetto della "mediazione", della volontà del committente, dell'impegno, del programma obbligatorio, dell'opera che il mediatore si obbliga a porre in essere. Un accertamento che, sotto il profilo probatorio, deve essere compiuto caso per caso; potranno assumere rilievo le aspettative specifiche del committente, cioè il movente della condotta del privato compratore, il senso, la portata ed il tempo della pretesa di questi, la condotta in concreto che il mediatore assume di dover compiere con il pubblico agente, il rapporto di proporzione tra il prezzo della mediazione ed il risultato che si intende perseguire, i profili relativi alla illegittimità negoziale del contratto.
4. Il Tribunale non ha fatto corretta applicazione dei principi indicati. Nell'ambito di un'articolata motivazione il Tribunale: a) ha di fatto escluso ogni coinvolgimento illecito nei fatti di causa dal Commissario Nazionale per l'emergenza Covid; b) spiegato che l'acquisto di mascherine in quel peculiare momento di emergenza nazionale poteva essere concluso senza procedure di evidenza pubblica, atteso l'art. 122 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18 convertito nella legge 24 aprile 2020, n. 27, che consentiva al Commissario Straordinario di non essere "tenuto al rispetto dell'ordinaria disciplina in materia di appalti per l'approvvigionamento di farmaci e dispositivi medici" (così a pag. 5 dell'ordinanza impugnata). E tuttavia, si è ritenuto sussistente il fumus commissi delicti del delitto per cui si procede e, in particolare, l'illiceità della mediazione di B. in ragione: a) del rapporto di conoscenza personale di questi con D.A., pregresso anche rispetto alla nomina di questi di Commissario Nazionale per l’emergenza; b) del fatto che la mediazione sarebbe stata prestata "al di fuori di un ruolo istituzionale o professionale, non contrattualizzata"; c) dello "sfruttamento" della relazione personale con A. con il quale B. avrebbe avuto 1.282 contatti telefonici allo scopo di proporgli "l'acquisto senza procedure di evidenza pubblica" delle mascherine; d) della circostanza che B., ancora prima che A. si interessasse all'acquisto di mascherine per conto del Governo italiano", avesse "speso con T. la sua conoscenza ... sostenendo perfino di aver contribuito alla stesura del suo decreto di nomina a Commissario". Un ragionamento giuridico, quello del Tribunale, tutto costruito su un assunto costitutivo, e cioè che la "mediazione" di B. trovava la propria giustificazione causale nel pregresso e consolidato rapporto personale di questi con A.. Non è sostanzialmente in contestazione il fatto che T. - e gli altri soggetti coinvolti nella vicenda in esame - verosimilmente non si sarebbero "affidati" a B. se non avessero saputo del rapporto di questi con A. e dunque della possibilità di conseguire un vantaggio in ragione proprio della relazione personale del mediatore con il pubblico agente. Ma ciò, come detto, non rende tuttavia di per sé illecita il "contratto" tra il committente e il mediatore. Ciò che il Tribunale non ha spiegato in nessun modo è: a) quale fosse la finalità prospettica illecita di quella "mediazione", tenuto conto che nessuna irregolarità è stata nemmeno ipotizzata nella condotta del Commissario e neppure in ordine alla legittimità dei contratti stipulati con le società cinesi; b) quale fosse la finalità di inquinamento della pubblica funzione che i contraenti- T. e B.- si proponevano di realizzare; c) quale fosse il comportamento inquinante che B., nell'ottica della mediazione, avrebbe in astratto dovuto compiere; d) se l'iniziativa fu presa dal Commissario e perché, se così fosse, la mediazione sarebbe illecita.
5. Ne consegue che l'ordinanza impugnata deve essere annullata. Il Tribunale, facendo applicazione dei principi indicati, verificherà se ed in che termini sussista il fumus del reato ipotizzato e, in particolare, la illiceità della mediazione. Il terzo motivo è assorbito.
P.Q.M.
Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Roma competente ai sensi dell'art. 324, comma 5, cod. proc. pen.