Il marito acquistava un bene nello svolgimento della propria attività di impresa, rivendendolo con fatturazione soggetta ad IVA. La Cassazione afferma un nuovo principio di diritto chiarendo se la tassazione derivante dal bene alienato deve gravare sul singolo o su entrambi i coniugi.
Con l'ordinanza n. 2619 del 28 gennaio 2022, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso presentato dall'Agenzia delle Entrate e afferma il seguente principio di diritto: «In tema di IRPEF, qualora un bene sia acquistato da un coniuge in regime di comunione legale, ma rientri nell'attività d'impresa esercitata separatamente,...
Svolgimento del processo
L'Agenzia delle entrate notificò a C.A. l'avviso d'accertamento con il quale, rilevando che nella dichiarazione dei redditi relativa all'anno 2006 (Unico/07) era stata omessa la plusvalenza di € 574.789,00, derivante dalla cessione a titolo oneroso di un'area edificabile, ne rideterminò il reddito, con maggiori imposte, pari ad€ 132.201,00, oltre interessi e sanzioni. L'area edificabile era stata acquistata il 18 novembre 1998 al prezzo di € 129.114,22 da N.G., quale titolare della ditta individuale "I. N.G. di G.N.", coniuge della C., e rivenduto dalla medesima impresa con atto del 28 dicembre 2006 al prezzo di € 1.300.000,00. I coniugi N. - C., con atto del 21 settembre 2006, erano transitati dal regime patrimoniale della comunione dei beni a quello della separazione. Secondo la prospettazione dell'ufficio finanziario il bene alienato era da intendersi compreso nella comunione de residuo, così che la tassazione, al netto dei costi detratti, doveva gravare su entrambi i coniugi per la metà. La contribuente, che contestava la pretesa dall'Amministrazione finanziaria, impugnò l'atto impositivo dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Sassari, che con sentenza 46/02/2013 rigettò tuttavia le sue ragioni. La Commissione tributaria regionale della Sardegna, sez. staccata di Sassari, accolse invece l'appello della contribuente, annullando l'atto impositivo con la sentenza n. 24/10/2010, ora al vaglio della Corte. Il giudice regionale, dopo aver evidenziato che il terreno alienato era stato acquistato dal coniuge della ricorrente nello svolgimento della propria attività di impresa edile, nella cui contabilità ordinaria era stato registrato, per poi essere rivenduto con fatturazione soggetta ad IVA, ha ritenuto che alla fattispecie trovasse applicazione l'art. 4, lett. a), ultima parte, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917. Ha pertanto concluso che la tassazione gravasse per l'intero sul coniuge della ricorrente, nell'ambito della cui impresa, condotta in via esclusiva, erano state concluse le operazioni di acquisto e di vendita dell'area edificabile. L'Agenzia delle entrate ha censurato la decisione con due motivi, cui ha resistito la C. con controricorso. Nell'adunanza camerale del 28 ottobre 2021 la causa è stata trattata e decisa. Risultano depositate memorie ai sensi dell'art. 380 bis.1 cod. proc. civ.
Motivi della decisione
In via preliminare deve rigettarsi l'eccezione sollevata dalla controricorrente, che denuncia la tardività del ricorso per cassazione. L'eccezione è infondata. Dalla documentazione allegata emerge che la sentenza, pubblicata il 26 settembre 2014, non notificata e il cui termine ultimo per l'impugnazione va individuato nel 26 marzo 2015, fu impugnata con ricorso portato all'ufficio notifiche presso la Corte d'appello di Cagliari - sez. distaccata di Sassari, quanto meno il 25 marzo 2015, ed ivi registrato con cronologico 2131. Ne discende che l'impugnazione della sentenza è stata tempestiva, essendo del tutto irrilevante che la contribuente abbia ricevuto l'atto presso il domicilio eletto in data 2 aprile 2015. Esaminando il merito, l'Agenzia delle entrate ha denunciato: con il primo motivo la nullità della sentenza per violazione degli artt. 36, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., per non aver chiarito quale norma fosse applicabile al caso di specie, e cioè l'art. 177 cod. civ. richiamato nell'avviso di accertamento, oppure l'art. 178 cod. civ., a cui nella sostanza l'Amministrazione finanziaria sostiene di aver fatto riferimento. Con esso la ricorrente denuncia che la sentenza sia affetta da motivazione fittizia, apparente, che non soddisfa i requisiti richiesti dall'art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., perché a suo dire, nell'esporre le ragioni di diritto della decisione, la commissione regionale aveva ritenuto che l'Ufficio avesse posto a fondamento del recupero di imponibile la violazione dell'art. 177 del cod. civ., senza dare tuttavia di ciò una spiegazione, pur essendo controverso se, al fine del decidere, la condotta contestata alla contribuente dovesse ricondursi alla violazione della suddetta norma oppure nell'alveo dell'art. 178 cod. civ. Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato. Il giudice d'appello, dopo essersi abbondantemente diffuso sulle questioni controverse, tra cui la riconducibilità dell'avviso di accertamento all'art. 177 cod. civ., formalmente richiamato nell'atto impositivo, oppure all'art. 178 cod. civ., cui l'Amministrazione finanziaria riteneva aver fatto sostanzialmente ricorso, ha rilevato che «l'ufficio ha effettuato un accertamento di una plusvalenza in capo al ricorrente con esplicito riferimento all'art. 177 del c.c.». Ha quindi evidenziato che la fattispecie oggetto di lite non poteva rientrare in una delle ipotesi richiamate dalla lett. d) di quella norma ("le aziende gestite da entrambe i coniugi e costituite dopo il matrimonio") perché si trattava di una azienda individuale nella titolarità esclusiva del coniuge della ricorrente. Nel prosieguo del ragionamento, dopo aver affermato che al caso di specie dovesse trovare applicazione l'art. 4, lett. a), ultima parte del d.P.R. n. 917 del 1986, ha osservato che «pertanto la plusvalenza realizzata andava tassata totalmente ed esclusivamente in capo alla...impresa [del coniuge], a nulla rilevando i richiami effettuati dall'ufficio in sede di controdeduzioni ad articoli del codice civile diversi da quello richiamato nell'avviso di accertamento impugnato». Dal tenore della motivazione, a differenza di quanto preteso con il motivo di ricorso, non risponde affatto al vero che il giudice d'appello non abbia tenuto conto della tensione processuale insorta sulla norma civilistica applicabile in concreto, l'art. 177 cod. civ. o l'art. 178 cod. civ. Al contrario, dalla lettura della pronuncia risulta evidente che il giudice d'appello ha tenuto conto della questione, e ciò sia nella ampia esposizione in fatto, laddove sono state riportate le rispettive posizioni difensive, sia nella breve ma pertinente esposizione in diritto, laddove è stato spiegato che, trovando il caso di specie corretta regolamentazione nell'art. 4 lett. a) cit., era del tutto marginale quanto inutile richiamare le norme civilistiche, ancorché diverse (leggi art. 178 cod. civ.) da quelle formalmente richiamate (leggi art. 177 cod. civ.) nell'atto impositivo. La motivazione dunque è tutt'altro che apparente, perché con essa la commissione ha semplicemente e chiaramente ritenuto di superare quel contrasto valorizzando esclusivamente la norma del TUIR. Se poi la ricorrente abbia inteso criticare l'opzione interpretativa assunta dalla commissione regionale per la premessa delle argomentazioni utilizzate a fondamento della decisione (l'aver cioè constatato che l'Amministrazione finanziaria nell'avviso di accertamento aveva richiamato l'art. 177 cit.), la critica, atteso il successivo giudizio e le conclusioni raggiunte, è priva di interesse, e comunque doveva essere operata denunciando un errore interpretativo, quale errore di diritto. In un caso o nell'altro il motivo, ricondotto invece nell'alveo del vizio processuale, sarebbe inammissibile. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 178 cod. civ., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per non aver fatto corretta applicazione della norma, sostenendo che invece l'ufficio avesse fatto ricorso all'art. 177 cod. civ. Questo motivo è infondato. La ricorrente denuncia l'errore di diritto in cui sarebbe incorsa la commissione regionale nel ritenere che l'ufficio aveva ricondotto l'attività accertativa alla violazione dell'art. 177 cod. civ., formalmente menzionato nell'atto impositivo, laddove invece dal contenuto dell'atto impositivo doveva evincersi che nella sostanza l'Amministrazione finanziaria aveva fondato la contestazione dell'omessa dichiarazione della plusvalenza sulla violazione dell'art. 178 cod. civ., il quale, per i beni destinati all'esercizio di impresa, riconosce la comunione di essi tra i coniugi, ove sussistenti al momento dello scioglimento di questa, ossia in forza della cd. comunione de residuo. Il motivo non coglie nel segno perché, come già chiarito, il senso letterale e logico della decisione del giudice d'appello non si fonda sulla supposta distinzione tra il contenuto delle due norme del codice civile, ma sulla considerazione di un'altra norma, l'art. 4, lett. a), seconda parte, del d.P.R. n. 917 del 1973, norma che il collegio regionale ha ritenuto regolatrice degli aspetti fiscali dell'operazione di acquisto e di alienazione di un bene riconducibile all'attività separata di ciascun coniuge, qual'è l'attività d'impresa esercitata in via esclusiva. E le conclusioni raggiunte dalla Commissione regionale sono peraltro corrette, atteso che, da quanto si evince dal medesimo ricorso, è incontestato che: 1) l'impresa, la "I.N.G. di G.N.", con la quale il coniuge della contribuente esercitava l'attività edilizia, era nella sua esclusiva titolarità; 2) l'acquisto del terreno era stato registrato nella contabilità ordinaria dell'impresa; 3) l'operazione di vendita era stata assoggettata ad Iva; 4) da nessun atto risulta che con la cessione di quel terreno l'attività d'impresa fosse cessata, e pertanto non risulta neppure che i proventi di quella cessione non fossero stati impiegati nell'impresa medesima. Ebbene, se la comunione de residuo, al momento dello scioglimento del regime patrimoniale di comunione legale, regola i rapporti tra coniugi sotto il profilo civilistico, ai fini fiscali l'operazione di cessione di un bene riconducibile alla attività separata di uno dei coniugi va regolato ai sensi dell'art. 4, lett. a), del d.P.R. n. 917 del 1973, che espressamente prevede che i proventi della suddetta attività siano "in ogni caso" imputati per l'intero ammontare al coniuge che conduce quella attività separata. Si tratta di una regola introdotta dal legislatore ai sensi dell'art. 26 del ci. I. 2 marzo 1989, n. 69, convertito in I. 27 aprile 1989, n. 154, che ha così integrato l'art. 4, lett. a) cit. Nello specifico i primi due commi dell'art. 26 cit. così recitano «1. Nell'articolo 4, comma 1, lettera a), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: "I proventi dell'attività separata di ciascun coniuge sono a lui imputati in ogni caso per l'intero ammontare". 2. Ai fini dell'applicazione della disposizione recata dall'articolo 4, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 597, deve intendersi che i proventi dell'attività separata di ciascun coniuge sono a lui imputati in ogni caso per l'intero ammontare». La norma dunque non solo ha integrato con il primo comma il contenuto dell'art. 4, ma con il secondo comma ne ha esteso in via interpretativa il contenuto persino al precedente articolo art. 4 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, regolante ratione temporis la medesima fattispecie. Questa Corte, proprio in riferimento alla precedente norma, ha affermato che in tema di IRPEF, i proventi dell'attività separata di ciascun coniuge vanno imputati, per l'intero ammontare, al coniuge percipiente, ai sensi dell'art. 26 del D.L. n. 69 del 1989, n. 69, il cui comma secondo ha natura interpretativa - con efficacia, quindi, retroattiva - dell'art. 4, lett. a), del d.P.R. n. 597 del 1973, (applicabile nella fattispecie "ratione temporis"), senza che assuma alcun rilievo, al fine di derogare a tale trattamento fiscale, l'esistenza di una convenzione matrimoniale che estenda anche a detti proventi il regime della comunione legale (cfr. Cass., 24 febbraio 2005, n. 3866; cfr. anche 19 gennaio 2005, n. 1034). Trattasi dunque di una disciplina destinata a regolare, senza eccezioni, neppure se pattuite tra i coniugi con convenzioni matrimoniali, la imputabilità fiscale dell'operazione. Nel caso di specie la cessione di quell'area edificabile rientrava nell'alveo dell'attività d'impresa condotta separatamente dal coniuge della C., ed il maggior prezzo conseguito rispetto all'acquisto costituiva il provento di quella attività. D'altronde, come pure è stato rilevato dalla difesa della controricorrente, un assoggettamento a tassazione di entrambi i coniugi, dei quali solo uno conduce l'impresa, comporterebbe distorsioni non di poco conto, dovendosi prospettare, anche dal lato del cessionario, una singolare situazione, ossia l'assoggettamento ad iva per una parte del corrispettivo corrisposto, e all'imposta di registro per la restante metà. Senza considerare le conseguenze sul bilancio dell'impresa, dal quale (come pure nel caso di specie) risulti incontestatamente contabilizzato per l'intero il prezzo d'acquisto del terreno. A margine, è la stessa questione della alternatività tra l'art. 177 cod. civ. e l'art. 178 cod. civ. ad essere stata mal posta nella controversia, atteso che l'art. 178 cit. regola, tra i beni compresi nel regime della comunione de residuo, quelli relativi all'impresa esercitata in via esclusiva da uno dei coniugi, fattispecie che a ben vedere costituisce una specificazione di quella, generale, prevista dall'art. 177, primo comma, lett. c), cod. civ., dedicata alla comunione de residuo afferente tutti i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi che non siano stati consumati al momento dello scioglimento del suddetto regime di comunione legale. Anche il secondo motivo va pertanto rigettato, dovendo affermarsi il seguente principio di diritto: «in tema di IRPEF, qualora un bene sia acquistato da un coniuge in regime di comunione legale, ma rientri nell'attività d'impresa esercitata separatamente, la plusvalenza conseguita dal maggior prezzo di cessione è fiscalmente imputata per l'intero al coniuge esercente l'impresa, costituendo esso il provento della propria attività e trovando la fattispecie regolazione nell'art. 4, lett. a), secondo periodo, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (periodo aggiunto dall'art. 26 del D.L. 2 marzo 1989, n. 69, convertito nella legge 27 aprile 1989, n. 154), che stabilisce chiaramente che tra i redditi suddivisi tra i coniugi in regime di comunione legale non sono compresi quelli derivanti dall'attività separata di ciascuno di essi, che vanno imputati per intero al coniuge percipiente». In conclusione il ricorso va rigettato e all'esito del giudizio segue la soccombenza della ricorrente nelle spese di causa, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna l'Agenzia delle entrate alla rifusione in favore della controricorrente delle spese sostenute nel giudizio di legittimità, che si liquidano in € 5.600,00 per compensi, € 200,00 per esborsi, oltre spese generali forfettariamente determinate nella misura del 15% dei compensi, nonché accessori come per legge.