Oggi l'istituto ha valenza solidaristica, consentendo al maggiorenne interdetto di manifestare il suo consenso all'adozione anche mediante il suo rappresentante legale.
La Corte d'Appello di Bologna confermava la decisione del Tribunale e rigettava la richiesta dell'odierno ricorrente di adottare la sorella interdetta. Quest'ultima, trovandosi in stato di interdizione giudiziale, sarebbe stata impossibilitata ad esprimere il suo consenso in tal senso, il quale rappresenta il presupposto necessario e personalissimo ai fini dell'adozione,...
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 22 agosto 2019, n. 23, la Corte di appello di Bologna confermò la sentenza del Tribunale di Modena reiettiva della richiesta avanzata da T.Z. per l'adozione della sorella interdetta M.L.Z..
1.1. Quella corte opinò che: i) quest’ultima, trovandosi in stato di interdizione giudiziale, fosse impossibilitata ad esprimere il consenso, previsto dall'art. 296 cod. civ., costituente un presupposto necessario e personalissimo dell’adozione; ii) il legale rappresentante dell'interdetto, proprio in ragione della natura personalissima del diritto, non potesse ritenersi ammesso a prestare il consenso in luogo dell'interdetto medesimo; iii) la normativa vigente in materia escludesse qualunque giuridica rilevanza allo scopo dell’adozione; iv) non fossero invocabili, nella specie, i principi affermati dalla Corte costituzionale in tema di assenso ex art. 297 cod. civ..
2. Avverso questa sentenza, T.Z. ha promosso ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, ulteriormente illustrati da memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ.. Sono rimaste solo intimate O.P. e P. Z., rispettivamente tutore e protutore di M.L.Z..
3. Con ordinanza interlocutoria del 19 aprile/16 luglio 2021, n. 20376, questa Corte ha rinviato la causa a nuovo ruolo disponendo l’integrazione del contraddittorio nei confronti del Procuratore Generale della Repubblica preso la Corte di appello di Bologna. Effettuato tale adempimento, la causa è stata nuovamente fissata in adunanza camerale ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, ex 380-bis.1, cod. proc. civ., in vista della quale il ricorrente ha depositato una ulteriore memoria.
Motivi della decisione
1. I formulati motivi denunciano, rispettivamente: I) «Violazione e falsa applicazione degli artt. 296 e 311 c.c. in relazione all'articolo 360, comma 1, n. 3, c.p.c.». Si assume che: i) l’art. 296 cod. civ. deve essere letto in coordinazione con l'art. 311 cod. civ., rubricato "Manifestazione del consenso" che, con specifico riferimento all'adottando, stabilisce che detto consenso possa essere manifestato anche per il tramite del legale rappresentante ("Il consenso dell'adottante e dell'adottando o del legale rappresentante di questo deve essere manifestato personalmente...."); ii) l’art. 311 cod. civ. è inserito nel capo I, titolo VIII, del libro I del codice civile e che le disposizioni contenute in detto capo non si applicano alle persone minori di età, essendo destinate a disciplinare l'istituto dell'adozione di maggiorenni. Pertanto, il legislatore non può che essersi riferito al legale rappresentante di persona interdetta e/o, comunque, incapace; iii) una tale interpretazione consente di salvaguardare il significato e l'applicazione della norma, mantenuta non per mera dimenticanza del legislatore, il quale ha disciplinato la materia nel tempo con numerosi interventi modificativi/abrogativi; iv) non ha rilevanza, nel senso attribuito dalla corte di merito, l'intervenuta soppressione della disposizione che, nel progetto preliminare del codice civile, prevedeva la possibile prestazione del consenso all'adozione da parte del legale rappresentante dell'adottante e/o dell'adottando interdetti giudizialmente. Da un lato, infatti, l’assunto si pone in contrasto con l'evoluzione nel modo di intendere e di concepire l'istituto della interdizione, nell'ottica prioritaria della protezione della persona e della sua dignità, nonché dello scopo di tutela di interessi non solo patrimoniali, sicché, non essendo previsto un espresso divieto, non si giustifica un’interpretazione dell'art. 311 cod. civ. non rispettosa del dato letterale. Dall’altro, la soppressione di quella disposizione nel progetto preliminare si spiega perché, ove fosse stata mantenuta, avrebbe accomunato sotto una stessa disciplina adottante e adottato interdetti; v) ove il legislatore avesse inteso negare all'interdetto il diritto di essere adottato, lo avrebbe detto espressamente, come per altri atti cd. personalissimi (cfr. artt. 85, 183, 591 cod. civ.), e che, dall’assenza di un espresso divieto e dal mantenimento dell'inciso di cui all'art. 311 cod. civ. con riferimento alla sola persona dell'adottando, è desumibile la volontà del legislatore di considerare ostativo alla adozione lo stato di interdizione solo per la persona dell'adottante; II) «Violazione degli artt. 357 e 414 c.c. e degli artt. 2 e 3 Cost., in relazione all'articolo 360, comma 1, n. 3, c.p.c.». Rimarcandosi che la ratio dell'istituto dell'interdizione è quella di proteggere la persona incapace e che l’interpretazione della Corte di merito censurata si risolve nel negare all'incapace l'esercizio dei diritti cd. personalissimi, viene invocato il recente orientamento espresso, in tema di separazione dei coniugi, da Cass. n. 14669/2018, secondo cui «Già con la sentenza n. 5652/89, questa Corte aveva infatti rilevato che l'incapacità di provvedere ai propri interessi, richiesta dall'art. 414 c.c., ai fini dell'interdizione dell'infermo di mente, deve essere riferita anche agli interessi non patrimoniali suscettibili di subire un pregiudizio; d'altro canto, ritenere che l'interdetto per infermità non possa farsi sostituire da chi è tenuto a rappresentarlo nel porre in essere un atto personalissimo equivarrebbe a sostenere che egli ha perso, in concreto, il relativo diritto, non avendone più l'esercizio. Deve allora concludersi, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 357 e 414 c.c., che all'interdetto è consentito, per il tramite del rappresentante legale, il compimento di tali atti (a meno che, come nel caso dell'art. 85 c.c., non gli siano espressamente vietati), ben potendo l'esercizio del corrispondente diritto rendersi necessario per assicurare la sua adeguata protezione». Ad avviso del ricorrente, fra le situazioni giuridiche soggettive realizzatrici della personalità dell'individuo si colloca anche il diritto di essere adottati, evidenziandosi che: i) l’adozione risponde ad una esigenza di protezione, particolarmente importante per l'interdetto per infermità di mente; ii) non esiste una disposizione che vieti espressamente all'interdetto la possibilità di esprimere il consenso alla adozione per il tramite del legale rappresentante, tanto essendo espressamente contemplato e previsto, invece, all'art. 311 cod. civ.; III) «Violazione dell’art. 312 c.c. in relazione all'articolo 369, comma 2, n. 3, c.p.c.». Si censura la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato che «la normativa vigente in tema di adozione esclude qualunque giuridica rilevanza allo scopo dell'adozione»: trattasi di assunto che si pone in contrasto con l'art. 312 cod. civ., che indica nella convenienza per l'adottando uno dei presupposti che il tribunale deve accertare per far luogo alla adozione. Nella specie, le ragioni che rendono conveniente per M.L.Z. l'adozione da parte del fratello, odierno ricorrente sono: a) il rafforzamento del vincolo familiare già esistente, con garanzia di assistenza, anche economica, idonea ed adeguata alle sue necessità presenti e future, atteso che la comune madre, nominata sua tutrice con decreto del Tribunale di Modena, il 25 luglio 2000, ha compiuto novantacinque anni e versa in precarie condizioni di salute, necessitando di assistenza continua per l'impossibilità di deambulare; b) il rafforzamento dell’obbligo di alimenti, cui il ricorrente stesso sarebbe tenuto per legge anche con precedenza rispetto alla madre (ex art. 436 cod. civ.), ove la sorella assumesse lo status di figlia adottiva; c) la successione ex lege di M.L.Z., ove assumesse lo status predetto, non sarebbe equiparabile a quella conseguibile attraverso una disposizione testamentaria a suo favore, sia perché quest’ultima è sempre revocabile, sia in ragione dei benefici fiscali di cui la sorella godrebbe. Né potendo detti benefici connotare l’adozione come strumento di elusione fiscale, attesone lo scopo solidaristico ed il fatto che il risparmio fiscale si risolverebbe in maggiori risorse disponibili da destinare alla cura ed alla assistenza della persona meritevole di tutela.
2. Posta l’indubbia ammissibilità (cfr. Cass. n. 2426 del 2006) e tempestiva dell’odierno ricorso, i riportati motivi possono essere scrutinati congiuntamente perché chiaramente connessi.
2.1. Al loro esame, peraltro, vanno anteposte alcune considerazioni generali riguardanti il particolare istituto dell’adozione di persona maggiore di età, detta anche adozione ordinaria o civile, oggi disciplinata agli artt. 291 e ss. cod. civ., volto ad attribuire per via giudiziale (il rapporto può venire in essere soltanto in forza di un intervento costitutivo dell’autorità giudiziaria, pur se fondato sul presupposto consensualistico della necessaria sottostante intesa dei soggetti interessati) un nuovo status tra adottante e adottato (che, ad avviso di autorevole dottrina, si aggiunge al precedente status familiare, senza modificarlo), che, per alcuni profili, tende a ricalcare quello del rapporto genitoriale, con il quale presenta quantomeno diverse anche rilevanti affinità. La fisionomia di questo istituto, tuttavia, è mutata nel tempo e ha subito una vera e propria evoluzione (cfr., in motivazione, Cass. n. 7555 del 2020), anche attraverso numerosi interventi riformatori dovuti in larga parte all'evolversi della coscienza sociale in ambito lato sensu «familiare».
2.2.1. Invero, secondo l'insegnamento tradizionale, l’istituto dell’adozione rispose ad una funzione squisitamente privatistica consistente nel soddisfare l'interesse dell'adottante alla trasmissione del nome e del patrimonio, mediante la creazione di un vincolo di filiazione artificiale. In considerazione di tali finalità patrimoniali e successorie, l'istituto fu introdotto nel Code civil francese del 1804 e, per gli stessi fini, recepito dal codice civile unitario del 1865, dove fu riservato ai maggiori di diciotto anni (che, tuttavia, allora non erano ancora maggiorenni, poiché la maggiore età si raggiungeva a ventuno anni). Certo già in quel contesto non poteva ignorarsi la valenza personalistica dell'adozione, sia con riguardo all'interesse dell'adottante, rispetto al quale essa rappresentava "un'invenzione pietosa della legge destinata a colmare un vuoto che una sorte avara ed avversa lascia non di rado nella vita di un uomo", sia nei confronti dell'adottato, nascendo l'adozione come atto di generosità in virtù del quale si convertiva "in dovere un'affezione sino ad allora libera ed indipendente". Il carattere "affettivo" dell'adozione costituiva, però, mero movente psicologico, pressoché irrilevante sotto il profilo della disciplina. Alla luce del diritto positivo, invero, essa si configurava alla stregua di un atto di diritto privato volto alla sola devoluzione del nome e del patrimonio. In tali sensi, del resto, opinava anche la dottrina contemporanea al codice del 1865, la quale, valorizzando alcuni profili della disciplina allora vigente (in particolare, l'art. 208, per il quale «l'adozione si fa col consenso dell'adottante e dell'adottando», e l'art. 217, che faceva decorrere gli effetti dell'adozione dal giorno della prestazione del consenso medesimo e non dal successivo atto di omologazione da parte dell'autorità giudiziaria), attribuiva al consenso delle parti l’effetto costitutivo del rapporto adozionale. Proprio in conseguenza della sua natura privatistica, non si determinava l'inserimento dell'adottato nella famiglia dell'adottante, mentre restavano integri i rapporti del primo con la propria famiglia di origine. Stante il carattere patrimoniale dell'istituto, la legge prevedeva, inoltre, una serie di divieti e cautele a tutela degli interessi dei parenti dell'adottante. In tal senso doveva leggersi, principalmente, il divieto di adottare in presenza di propri figli legittimi o legittimati, logica conseguenza della finalità di supplire al difetto di discendenti propria dell'adozione e volto ad evitare che l'istituto si prestasse ad eludere le norme sulla successione necessaria, consentendo di attribuire ad un estraneo una quota maggiore rispetto a quella disponibile. Nella stessa direzione muovevano, poi, il limite minimo di età per adottare, che ancora il legislatore del 1942 fissava al cinquantesimo anno, essendo sensibilmente ridotta a tale data la capacità di procreare; nonché il divieto di adottare più persone, salvo che ciò avvenisse con il medesimo atto. Stante la natura negoziale attribuita all'istituto, si intendeva con tale ultima previsione precludere ad una delle parti la possibilità di modificare unilateralmente i contenuti del rapporto posto in essere. Confermava, infine, il carattere privatistico dell'istituto la norma che richiedeva l'assenso del coniuge e dei genitori legittimi o naturali dell'adottante e dell'adottando, e che, a parere della dottrina, configurava un atto personalissimo ed irrevocabile, esplicazione di un "potere familiare" volto alla tutela del prevalente interesse della famiglia.
2.2.2. Fu il codice del 1942 ad abbandonare la prospettiva esclusivamente privatistica e ad imprimere una prima, fondamentale svolta in chiave personalistica all'istituto, consentendo l'adozione anche dei minori. Tale mutamento ebbe l'effetto di introdurre nell'istituto un valore nuovo: l'interesse del minore. Anche in virtù del dettato costituzionale, si finì, infatti, con il ritenere detto interesse prevalente rispetto a quello dell'adottante a procurarsi un discendente. Si aprì, così, la strada alle riforme apportate dalla legge 5 maggio 1967, n. 431, che, mentre introduceva l'adozione speciale, modificava la disciplina codicistica dell'adozione ordinaria al fine di piegarla all'assolvimento di una funzione esplicitamente assistenziale. Detti mutamenti determinarono, però, al contempo, un arretramento nella tutela delle ragioni, specie patrimoniali, della famiglia legittima. Così, se la riduzione del limite di età per l'adottante a trentacinque o, eccezionalmente, a trent'anni rispondeva essenzialmente allo scopo di dare all'adottato genitori giovani e nondimeno dotati del grado di maturità necessaria a compiere una scelta responsabile, di fatto essa fece venir meno l'originaria funzione dell'adozione, di sopperire alla mancanza di una propria discendenza, non potendosi più escludere una futura filiazione da parte dell'adottante. Lo stesso interesse patrimoniale dell'adottato venne subordinato alla preminente funzione assistenziale, allorché si consentì a che l'adozione fosse disposta nei confronti di più persone anche con atti successivi.
2.2.3. Un ulteriore affievolimento della tutela dei membri della famiglia dell'adottante si ebbe, poi, con la legge di riforma del diritto di famiglia del 1975, che rese possibile l'adozione civile anche in assenza dei prescritti assensi, ove il rifiuto fosse apparso ingiustificato o contrario all'interesse dell'adottando, ovvero l'assenso non avesse potuto essere prestato per incapacità o irreperibilità della persona. Un vero e proprio potere di veto rispetto alla decisione adottiva permaneva solo in capo ai genitori esercenti la potestà sull'adottando ed ai coniugi conviventi dell'adottato e dell'adottante. Peraltro, la dottrina osservava come un rifiuto ingiustificato da parte dei genitori avrebbe potuto essere superato mediante una pronuncia di decadenza dalla potestà ai sensi dell'art. 330 cod. civ., ovviamente ove si fosse ritenuto integrato uno dei fatti previsti dalla norma. Rispetto al coniuge convivente dell'adottante, invece, l'insuperabilità del rifiuto veniva interpretato come conseguenza della mutata funzione dell'adozione, che adesso faceva apparire come naturale l'instaurarsi della convivenza tra adottato minorenne ed adottante, e serviva di conseguenza a garantire da possibili turbamenti "l'armonia spirituale della famiglia" di quest'ultimo.
2.2.4. Le modifiche appena menzionate sono passate pressoché indenni attraverso la novella del 4 maggio 1983, n. 184. Allo scopo di risolvere le problematiche connesse alla coesistenza di due istituti, l'adozione speciale e quella ordinaria, entrambi applicabili ai minori, il legislatore ha, in questa occasione, confinato l'applicabilità dell'adozione codicistica ai soli maggiorenni. Si è in tal modo cercato di restituire all'istituto la funzione patrimoniale per la quale era stato concepito. Ciò ha condotto ad eliminare dal codice quelle disposizioni che avevano piegato l'adozione civile a finalità di carattere assistenziale, in primis la norma attributiva della potestà all'adottante (art. 301). La natura del vincolo instaurato con l'adottato torna, dunque, nelle intenzioni del legislatore del 1984, a connotarsi in chiave essenzialmente patrimoniale giacché, salva l'assunzione del cognome, esso si limita a far conseguire all'adottato i soli diritti successori ed alimentari. Secondo quel disegno riformatore, pertanto, l'adozione cd. ordinaria continua a rispondere, in primo luogo, alla già descritta funzione tradizionalmente accordatale; quantomeno, è proprio in vista di tale funzione che ne sono definiti presupposti, condizioni ed effetti nella disciplina delineata dagli artt. 291 e ss. cod. civ..
2.2.5. Appare tuttavia innegabile che l'adozione de qua si è prestata ad essere utilizzata anche con ben altra finalità, almeno in tutti i casi in cui l'adottando, sebbene maggiore di età, fosse inserito di fatto in un consorzio familiare, in cui si avvertiva un'insistente esigenza di assicurare una piena legittimazione, sul piano giuridico, ad una realtà già in atto sul piano dei sentimenti e delle relazioni personali. Si pensi, ad esempio, alla idoneità dell’adozione predetta, ritenuta da parte della dottrina, a «dare veste giuridica al rapporto personale ed affettivo che spesso si costituisce tra coniuge e figlio dell'altro coniuge, vedovo o divorziato, o a quello creatosi a seguito di un affidamento (non temporaneo) che si è prolungato ma non può evidentemente proseguire oltre la maggiore età». È proprio alla contrapposizione fra le suesposte esigenze che appare riconducibile l'andamento altalenante degli interventi giurisprudenziali. Laddove all'adozione si è inteso attribuire il ruolo di costituire (ovvero di riconoscere l'esistenza di) una famiglia, giocoforza è stato il tentativo di assimilare lo strumento delineato nel codice alle forme di adozione dei minori; qualora, invece, l'adozione dei maggiori di età fosse confinata entro il ruolo tradizionalmente riconosciutole, non potrebbe che derivarne un'applicazione rigorosa e restrittiva delle norme codicistiche, giustificata dalla loro autosufficienza e sostanziale estraneità alle problematiche proprie delle situazioni di abbandono dei minori e dei rimedi di volta in volta apprestati dall'ordinamento in funzione di una loro adeguata protezione. Proprio in quest’ottica, del resto, va inquadrato il dibattito che, nel corso degli ultimi decenni, ha visto spesso contrapposte la Corte costituzionale, fedele alla concezione, per così dire, tradizionale dell'istituto dell'adozione di persone maggiori di età, e la Corte di cassazione, la quale, in diverse occasioni, ha sostenuto l'opportunità di un'applicazione meno rigida di tale strumento, evidenziandone piuttosto i punti di contatto che quelli di divergenza rispetto alle forme di adozione dei minori e spingendosi sino al punto di “forzare” vistosamente la lettera degli artt. 291 ss. cod. civ.. Se, dunque, la Consulta ha più volte ribadito la bontà del sistema dell'adozione dei maggiori di età - come risultante dai diversi interventi normativi che si sono sovrapposti alla disciplina dell'adozione originariamente delineata nel codice civile - facendo leva essenzialmente sulla funzione ad essa tipicamente assegnata, la Cassazione ha offerto delle interpretazioni coraggiosamente innovative, spinta dall'esigenza di sostenere l'aspirazione dei privati alla formazione di nuclei familiari stabili e dalla ferma volontà di salvaguardarne l'unità, assumendosi, con ciò, la responsabilità di sconfessare più o meno apertamente le posizioni più prudentemente mantenute dal Giudice delle leggi. Basti pensare alle pronunce attinenti alla derogabilità dei requisiti di età richiesti per procedere all'adozione.
2.2.6. In definitiva, come si legge nella recente Cass. n. 7667 del 2020, l'adozione di maggiorenni, nell'accezione e configurazione sociologica assunta dall'istituto negli ultimi decenni, «ha perso la sua originaria connotazione diretta ad assicurare all'adottante la continuità della sua casata e del suo patrimonio, per assumere la funzione di riconoscimento giuridico di una relazione sociale, affettiva ed identitaria, nonché di una storia personale, di adottante e adottando, con la finalità di strumento volto a consentire la formazione di famiglie tra soggetti che, seppur maggiorenni, sono tra loro legati da saldi vincoli personali, morali e civili. In sostanza, l'istituto ha perso la sua originaria natura di strumento volto a tutelare l'adottante per assumere una valenza solidaristica che, seppure distinta da quella inerente all'adozione di minori, non è immeritevole di tutela». In questi casi, pertanto, l’adozione vuole dare conto di una sopravvenuta modifica della complessiva situazione di vita dell’adottato maggiorenne e ricreare in termini di diritto una più estesa rete di relazioni familiari tra loro reciprocamente intessute.
2.2.7. Questo Collegio, dunque, intende proseguire in quell’indirizzo interpretativo meno rigido dell’istituto in questione di cui si è detto, nell’intento, appunto, di privilegiarne la “valenza solidaristica” soprattutto allorquando l’adottato maggiorenne sia inserito, o possa esserlo, di fatto, in un contesto anche familiare, in cui si avverta l’esigenza di assicurare una piena legittimazione, sul piano giuridico, magari anche rafforzando vincoli preesistenti, ad una realtà già in atto sul piano dei sentimenti e delle relazioni personali.
2.2.8. Una lettura dell’attuale disciplina dell’istituto suddetto nei termini appena prospettati è favorita, ancor più, dal rilievo che, con legge del 3 marzo del 2009, n. 18, entrata in vigore il successivo 15 marzo 2009, l’Italia ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con disabilità (adottata il 13 dicembre 2006. La Convenzione ed il suo Protocollo Opzionale sono stati aperti per la firma il 30 marzo 2007. Il 30 aprile del 2008, dopo aver ricevuto la ventesima ratificazione, si è aperto un termine di ulteriori trenta giorni per la effettiva entrata in vigore di entrambi i documenti, che si è verificata in data 3 maggio 2008), ed il 23 dicembre 2010 la medesima Convenzione è stata ratificata dalla Unione europea. Il suo art. 1, dopo aver precisato che il proprio obiettivo è promuovere, proteggere ed assicurare alle persone con disabilità il pieno godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali nel rispetto della dignità umana, chiarisce che la disciplina riguarda non soltanto le persone cd. inferme di mente, ma tutte quelle che presentano minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine «che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri». Si tratta di una disciplina che supera la logica della protezione tipicamente patrimoniale della persona, a favore di un modello sociale fondato sui diritti umani, che si pone in linea di evidente novità rispetto agli odierni ordinamenti giuridici. Una disciplina nella quale scompare ogni riferimento alla incapacità, per dare spazio alla disabilità, come condizione complessiva della persona, che non può limitare né deve incidere sulla sua capacità di agire. Scelta linguistica, questa, che, come acutamente opinato in dottrina «non è soltanto ossequio ad un perbenismo contemporaneo, ma cela una nuova filosofia nella protezione e cura delle persone». Di particolare interesse, si rivela pure l’art. 12, che - come meglio si dirà oltre - pone a tutti gli Stati l’obbligo di riconoscere che le persone con disabilità godono della piena capacità in tutti gli aspetti della vita e di assumere tutte le misure per assicurare e garantire che le persone con disabilità godano della piena capacità legale.
2.2.9. Ad oltre un decennio, ormai, dal momento in cui la menzionata Convenzione è stata ratificata dalla nostra Repubblica, occorre interrogarsi, allora, sulla persistente validità di soluzioni interpretative potenzialmente non coerenti e/o difformi rispetto ai princìpi espressi in questo strumento internazionale.
3. In quest’ottica, dunque, vanno esaminati - congiuntamente, come si è già anticipato - i motivi di ricorso dello Z., i quali pongono essenzialmente la questione relativa al se sia possibile, o meno, l’adozione di una persona, maggiorenne, che si trovi in stato di interdizione giudiziale. Quesito al quale la corte distrettuale ha dato risposta negativa assumendo che: i) l’interdetto giudiziale è impossibilitato ad esprimere il consenso, previsto dall'art. 296 cod. civ., costituente un presupposto necessario e personalissimo dell’adozione; ii) rappresentante dell'interdetto, proprio in ragione della natura personalissima del diritto, non può ritenersi ammesso a prestare il consenso in luogo dell'interdetto medesimo; iii) la normativa vigente in materia esclude qualunque giuridica rilevanza allo scopo della adozione; iv) non sono invocabili, nella specie, i principi affermati dalla Corte costituzionale in tema di assenso ex art. 297 cod. civ..
3.1. Tanto premesso, i suddetti motivi si rivelano fondati nei limiti di cui appresso.
3.2. È opportuno muovere dalla considerazione che, come si è già detto, il legislatore del 1983 ha posto fine al "conflitto per interferenza" tra adozione ordinaria ed adozione speciale, separando decisamente le sorti dell'adozione dei minori da quella dei maggiorenni attraverso una distinzione che si realizza non solo sul piano sostanziale della disciplina ma anche su quello formale della collocazione topografica delle relative norme nel codice civile o nella legge speciale. L'adozione ordinaria non è scomparsa dall'ordinamento, ma ne è stato ristretto il campo di applicazione: le norme del codice, modificate solo nella parte in cui erano state adattate al perseguimento di finalità assistenziali nei confronti dei minori, vengono utilizzate, infatti, per dare vita ad una nuova figura di adozione, riservata agli adottandi maggiorenni. Il titolo VIII del primo libro del codice è ora «dell'adozione di persone maggiori di età». I due capi del titolo ne regolano, rispettivamente, l'efficacia e le forme, ed il legislatore (art. 60 della legge n. 184/1983) esclude che gli artt. 291 ss. cod. civ. possano applicarsi alle persone minori di età, salvo, ovviamente, quelle disposizioni richiamate nell'art. 55 della nuova legge in relazione all'adozione dei minori in casi particolari. L'adozione legittimante e l'adozione ordinaria - è stato precisato - costituiscono due forme di adozione completamente diverse ed «incomunicabili» tra loro, per cui «non è giuridicamente possibile una contaminatio tra i due tipi, cioè una sorta di incrocio di norme, sì da rendere applicabili ad un minore le disposizioni in tema di adozione ordinaria».
3.2.1. Occorre ricordare, poi, il quadro normativo rinvenibile nei testi oggi vigenti degli artt. 296 (come modificato dall’art. 67 della legge n. 184 del 1983) e 311 (come modificato dall’art. 3 della legge n. 431 del 1967), comma 1, cod. civ.. A tenore del primo, “Per l’adozione si richiede il consenso dell’adottante e dell’adottando”; giusta il secondo, “Il consenso dell’adottante e dell’adottato o del legale rappresentante di questo deve essere manifestato personalmente al presidente del tribunale nel cui circondario l’adottante ha la residenza”. 3.3. Il consenso dell'adottante e dell'adottando - come "requisito imposto dall'art. 296 cod. civ. ai fini dell'adozione - è stato l'oggetto di un prolungato dibattito insorto tra gli studiosi, divisi tra la considerazione della volontà delle parti come "presupposto" del provvedimento giudiziale costitutivo dello status di filiazione adottiva, e l'alternativa lettura incline a rinvenire, nella manifestazione della concorde volontà dell'adottante e dell'adottando, l'espressione di una determinante dimensione negoziale dell'adozione, di là dal successivo intervento del giudice. La questione, come è evidente, nel coinvolgere il tema del carattere negoziale dell'atto di adozione, risente nel riscontro della differente misura di apprezzamento del ruolo della volontà delle parti, in relazione all'effetto giuridico della costituzione del rapporto di filiazione. L'accentuazione dell'una o dell'altra opzione interpretativa - e quindi la ritenuta centralità dell'intervento statale o dell'elemento negoziale nella configurazione della fattispecie costitutiva dell'adozione - esibisce una prevalente preoccupazione di indole ideologica, ma non è priva di conseguenze sul territorio degli effetti pratici che ne derivano.
3.3.1. La prima delle riportate opinioni - fatta propria dalla corte bolognese nel provvedimento oggi impugnato - si rivela prevalente in dottrina. Essa, come si è accennato, riconosce nel consenso dell'adottante e dell'adottando un mero presupposto dell'adozione, un dato del procedimento, equivalente a due concorrenti domande della pronuncia dell'autorità giudiziaria, ormai privo di ogni residuo carattere negoziale, mentre attribuisce al provvedimento del giudice il valore di vero e proprio atto costitutivo di questa. Dall'ampiezza dei poteri discrezionali che la legge (art. 312 cod. civ.) riserva all'autorità giudiziaria - che potrebbe, nonostante il consenso delle parti, dichiarare non luogo a provvedere in caso di non convenienza per l'adottando - questa concezione trae argomento per sottolineare come il riconoscimento da parte dell'ordinamento degli effetti giuridici voluti dalle parti, considerato elemento distintivo del negozio, avviene non in via astratta e preventiva, ma in concreto, in base ad una valutazione del giudice il quale di volta in volta ne sancisce l'efficacia. Di qui la definizione dei consensi come «atti strumentali non negoziali», destinati ad operare non tanto «sul rapporto», quanto piuttosto su di una «situazione tecnica preparatoria».
3.3.2. Questa tesi (pure rinvenibile in Cass. n. 12556 del 2012) risulta oggi senz'altro preferibile, tenuto conto che l'art. 30 della legge n. 149/2001, nel sostituire l'art. 313 cod. civ., ha scelto per la pronuncia di adozione la forma della sentenza, che è atto giurisdizionale costitutivo dello status ed attributivo di diritti e di doveri, sicché non ha più senso configurare l'adozione come un mero atto di ricezione della volontà delle parti.
3.4. Circa la disciplina normativa del consenso, l'autorità giudiziaria deve rilevare la consapevolezza e la libertà del volere: è questa la ragione della previsione per cui il consenso deve essere manifestato al presidente del tribunale personalmente dall'adottante e dall'adottando (art. 311 cod. civ.) e non attraverso un documento che farebbe fede soltanto della sua provenienza. È in ogni caso da escludere la necessità di una contestuale prestazione di tali consensi, i quali, anzi, sembrano offrire maggiore garanzia di libertà se manifestati in modo separato. E benché il consenso non tolleri (a pena di nullità) l'apposizione di termini o condizioni, si è ritenuto in dottrina, in considerazione del fatto che le volontà espresse rappresentano in ogni caso elementi soggetti ad esame giudiziale, che vadano comunque verbalizzati anche consensi manifestati con incertezze o riserve, nonché accompagnati dall'apposizione di condizioni o termini.
3.5. Per quanto, poi, di più specifico interesse al fine della risoluzione della odierna controversia, è doveroso evidenziare che la dottrina esclude in modo assoluto che possano adottare o essere adottati gli interdetti giudiziali. I negozi costitutivi di status, infatti, sono considerati personalissimi, in quanto le valutazioni che ne stanno alla base devono essere compiute direttamente dall'interessato e non possono essere demandate ad altri. Secondo alcuni opinioni, peraltro, nessun rilievo potrebbe attribuirsi al fatto che l’art. 311, comma 1, cod. civ. faccia ancora riferimento al consenso del legale rappresentante dell'adottando, atteso che quella formula normativa - da mettere in relazione con il precedente art. 296 cod. civ., che, nella parte ora abrogata, prevedeva la necessità del consenso del legale rappresentante dell'adottando minorenne - dovrebbe considerarsi tacitamente abrogata, essendo oggi l'adozione ordinaria riservata alle persone maggiori di età, sicché che la menzione del legale rappresentante sarebbe rimasta nel testo del menzionato art. 311, comma 1, cod. civ. soltanto per un difetto di coordinamento.
3.6. Ciò nondimeno, reputa il Collegio che, quanto alla persona dell'adottando, la rigorosa esclusione della capacità dell'interdetto giudiziale (come si è visto generalmente condivisa in dottrina, mentre non constano precedenti di questa Corte su questo specifico punto) può ritenersi suscettibile di un parziale ripensamento, proprio nell’intento di proseguire in quell’indirizzo interpretativo evolutivo e meno rigido dell’istituto in questione di cui si è detto, e, dunque, di privilegiarne la “valenza solidaristica”. Il tutto anche alla stregua della disciplina desumibile (cfr., soprattutto, gli artt. 1 e 12) dalla ricordata Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con disabilità adottata il 13 dicembre 2006, ratificata dall’Italia con legge del 3 marzo 2009, n. 18.
3.6.1. Basta riflettere, in proposito, sui casi in cui l'adozione già interviene a dotare di una veste formale la sostanza di rapporti familiari di fatto consolidatisi nel tempo, per compiere l’ulteriore passo volto a consentire l’utilizzo del medesimo strumento anche a fini di assistenza e di cura di un soggetto incapace, pure nei casi in cui l'adottando sia legato all’adottante da un vincolo di parentela, beninteso diverso dalla discendenza diretta.
3.6.2. Proprio per fattispecie come quelle da ultimo indicate, del resto, è tutt’altro che irragionevole rinvenire l'autentica e prevalente ragione di conservazione della norma del codice (art. 312 cod. civ.) che ancora attribuisce al giudice un controllo inteso a verificare l'effettiva convenienza dell'adozione per l'adottando, al fine di rimuovere l'ostacolo costituito dall'incapacità di questi di prestare personalmente il proprio consenso.
3.6.2.1. In tale prospettiva, peraltro, il mantenimento della previsione, tuttora rinvenibile nell’art. 311, comma 1, cod. civ., della possibile sostituzione dell’adottando con “il legale rappresentante" di quest’ultimo, lungi dal doversi ascrive ad un difetto di coordinamento o ad una “dimenticanza” del legislatore della riforma, da un lato, viene ad assumere la precisa funzione di escludere che detto sostituto possa essere il rappresentante "volontario" (per procura) dell'adottando; dall’altro, conferma l'adottabilità dell'incapace posta l'evidente non riferibilità della regola all'incapace per ragioni di età, posto che, come si è precedentemente rimarcato, il legislatore del 1983 ha posto fine al "conflitto per interferenza" tra adozione ordinaria ed adozione speciale, separando decisamente le sorti dell'adozione dei minori da quella dei maggiorenni attraverso una distinzione anche sul piano sostanziale della rispettiva disciplina.
3.6.3. Anche per quanto concerne l'adottando, dunque, ed alla luce di un’opzione ermeneutica evolutiva meno rigida dell’istituto dell’adozione delle persone maggiori di età, volta a privilegiarne la “valenza solidaristica”, l'interdizione giudiziale non deve costituire - per le medesime ragioni appena ricordate - un impedimento, di per sé, insormontabile alla pronuncia dell'adozione.
3.6.4. Va rimarcato, inoltre, che, già con la sentenza n. 5652/89, questa Corte rilevò che l'incapacità di provvedere ai propri interessi, richiesta dall'art. 414 cod. civ. ai fini dell'interdizione dell'infermo di mente, deve essere riferita anche agli interessi non patrimoniali suscettibili di subire un pregiudizio; d'altro canto, ritenere, come ha fatto la corte distrettuale, che l'interdetto giudiziale non possa farsi sostituire da chi è tenuto a rappresentarlo nel porre in essere un atto personalissimo (la manifestazione del consenso all’adozione) equivarrebbe a sostenere che egli ha perso, in concreto, il relativo diritto, non avendone più l'esercizio (in senso analogo, sebbene riferita alla richiesta di separazione giudiziale formulata da un interdetto giudiziale, cfr. Cass. n. 14669 del 2018).
3.6.5. Ne consegue, pertanto, che un'interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 296 e 311, comma 1, cod. civ. consente al soggetto maggiorenne, che si trovi in stato di interdizione giudiziale, di manifestare il proprio consenso all’adozione per il tramite del suo rappresentante legale, trattandosi di atto personalissimo che non gli è espressamente vietato (cfr. artt. 85, 183, 591 cod. civ.).
3.7. Questo convincimento trae ulteriore linfa dalla norma che è stata definita il «cuore pulsante» della citata Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con disabilità adottata il 13 dicembre 2006: vale a dire il suo art. 12, di cui giova riportare il testo, attese le considerevoli implicazioni concettuali che esso reca ed i problemi interpretativi che genera.
3.7.1. Sotto la rubrica «Uguale riconoscimento di fronte alla legge», quell’articolo stabilisce che: «1. Gli Stati Parti riaffermano che le persone con disabilita` hanno il diritto di essere riconosciute ovunque quali persone di fronte alla legge. 2. Gli Stati Parti dovranno riconoscere che le persone con disabilita` godono della capacita` legale su base di eguaglianza rispetto agli altri in tutti gli aspetti della vita. 3. Gli Stati Parti prenderanno appropriate misure per permettere l’accesso da parte delle persone con disabilita` al sostegno che esse dovessero richiedere nell’esercizio della propria capacita` legale. 4. Gli Stati Parti assicureranno che tutte le misure relative all’esercizio della capacita` legale forniscano appropriate ed efficaci salvaguardie per prevenire abusi in conformità della legislazione internazionale sui diritti umani. Tali garanzie assicureranno che le misure relative all’esercizio della capacita` legale rispettino i diritti, la volontà e le preferenze della persona, che siano scevre da ogni conflitto di interesse e da ogni influenza indebita, che siano proporzionate e adatte alle condizioni della persona, che siano applicate per il piu` breve tempo possibile e siano soggette a periodica revisione da parte di una autorità competente, indipendente ed imparziale o di un organo giudiziario. 5. Queste garanzie dovranno essere proporzionate al grado in cui le suddette misure toccano i diritti e gli interessi delle persone. 6. Sulla base di quanto previsto nel presente articolo, gli Stati Parti prenderanno tutte le misure appropriate ed efficaci per assicurare l’eguale diritto delle persone con disabilita` alla propria o ereditata proprietà`, al controllo dei propri affari finanziari e ad avere pari accesso a prestiti bancari, mutui e altre forme di credito finanziario, e assicureranno che le persone con disabilita` non vengano arbitrariamente private della loro proprietà`». Trattasi di norma che i primi commentatori hanno definito «il massimo standard di protezione dei diritti umani della persona con disabilità, con lo scopo di assicurare il diritto alla eguaglianza e alla non discriminazione in relazione al godimento e all’esercizio della sua capacità». Essa propone un radicale cambio del paradigma di protezione della persona e costituisce una assoluta novità anche nel diritto internazionale.
3.7.2. Il problema primario ivi posto investe proprio il concetto di capacità, dal momento che da esso dipende la sua stessa portata applicativa. Il tema è molto controverso e le scelte linguistiche non aiutano, considerando che il testo inglese discorre, espressamente, di «legal capacity», mentre il testo italiano, che costituisce una traduzione forse troppo letterale di quello, usa l’espressione «capacità legale». Considerando, poi, che la Convenzione pretende che gli Stati riconoscano alle persone, indipendentemente dalla loro disabilità, una piena capacità legale in tutti gli aspetti della propria vita, assumendo tutte le misure che possano garantire loro un sostegno nella assunzione delle decisioni, conformemente ai loro diritti, volontà, aspirazioni e preferenze, il tema acquista una rilevanza assolutamente centrale.
3.7.3. Intuibili ragioni di sintesi impediscono di dare conto, in questo sede, dell’ampio dibattito registratosi sul punto, potendosi qui assolutamente condividere l’opinione di chi ha ritenuto evidente che «il riferimento alla capacità legale deve intendersi non già limitato alla sola capacità giuridica, ma estendersi anche alla capacità di agire», diversamente non comprendendosi appieno l’importanza della Convenzione, che propone un nuovo modello di protezione della persona con disabilità totalmente nuovo e molto diverso da quelli tradizionalmente conosciuti.
3.7.4. La seconda questione relazionata con l’art. 12 della menzionata Convenzione fa riferimento al sistema di protezione della persona, che si basa sul cd. “sostegno”, detto nel testo inglese “suport”.
3.7.4.1. La parola “sostegno”, come pure si è osservato in dottrina, ha un significato ampio, che ingloba tutti i tipi di comportamento che possono andare dal mero accompagnamento per amicizia, all’aiuto tecnico nella emissione della dichiarazione, al consiglio, per giungere, infine, al sostegno nella assunzione di decisione. Non può esistere un unico sostegno, eguale per tutte le persone con disabilità, ma occorre che esso sia costruito specificamente su ciascuna persona, dal momento che ognuna può avere necessità differente dall’altra e che il sostegno può riguardare anche solo la sua sfera giuridica personale, o quella patrimoniale o entrambe. E’ chiaro, allora, che il concetto stesso di sostegno alla persona con disabilità è destinato a cambiare, imponendo anche di ripensare, in una materia che storicamente è molto distante da questo ambito, il tema dei rapporti di fatto, individuando, seppure in termini generali, i criteri in base ai quali è possibile determinare se e quando esista un sostegno di fatto. E ciò assume importanza perché consente di dare rilevanza a ipotesi che oggi risultano del tutto sottratte alla valutazione giuridica.
3.7.5. In definitiva, dunque, l’art. 12 della Convenzione de qua, lungi dall’essere una norma internazionale come tante, si rivela essere disposizione che, nella sua portata precettiva, impone (rectius: dovrebbe imporre) un cambio radicale. Come si è condivisibilmente sostenuto in dottrina, non si tratta di fare uno o altro aggiustamento di qualche precetto codicistico, né soltanto di abrogare qualche norma qui e là, o di superare la concezione fortemente patrimoniale di protezione della persona, ma si tratta di ripensare in modo sistematico tutta la disciplina della persona con disabilità, abbandonando, in primo luogo, l’uso della espressione “incapacità” e superando il rigido binomio capacità/incapacità, che ha storicamente costituito il paradigma di tutela della persona. In quest’ottica, pertanto, al fine di renderla compatibile con la Convenzione predetta, è doveroso, per quanto di specifico interesse in questa sede, un ripensamento della disciplina della interdizione, anche solo per rafforzare taluni princìpi che ivi già sono espressi, ma che sono fortemente indeboliti da alcune prassi, per un verso, stancamente ancorate ai vecchi modelli della interdizione e della inabilitazione e, per altro verso, basate sulla semplicità di soluzioni che offrono il formale conforto della ripetitività. In primo luogo, occorre affermare, di modo che risulti quanto mai chiaro e che costituisca il principio ispiratore nella interpretazione e applicazione di tutta la disciplina, che il sostegno deve sempre assicurare il pieno ed eguale godimento di tutti i diritti e le libertà fondamentali della persona con disabilità, per l’affermazione della sua dignità. Va superata, inoltre, la logica tipica della concezione medica della incapacità, dandosi atto che si tratta di una disciplina di protezione della persona con disabilità, nella chiara consapevolezza dell’ampia portata di questa espressione, come capace di considerare non soltanto le persone con una minorazione mentale, ma anche quelle con una minorazione fisica, intellettuale o sensoriale.
3.8. Parimenti non convince l’assunto della corte distrettuale secondo cui la normativa vigente in materia esclude qualunque giuridica rilevanza allo scopo della adozione.
3.8.1. Invero, l’art. 312 cod. civ., nel descrivere gli accertamenti che il tribunale deve compiere prima di decidere sull’adozione, deve verificare “se l’adozione conviene all’adottando”.
3.8.2. Il giudizio di convenienza assume, allora, un rilievo particolare, è "fulcro" dell'attività istruttoria, ed implica una valutazione di merito, in quanto è diretto ad accertare se l'adozione risulti moralmente vantaggiosa ed economicamente non pregiudizievole per l'adottando; da notare che l'art. 312 cod. civ. non richiede espressamente alcuna verifica della convenienza dell'adozione per l'adottante. Di qui la necessità delle informazioni che possono essere assunte, senza particolari vincoli o formalità, mediante organi di pubblica sicurezza, i servizi locali, o le autorità comunali, udite tutte le persone che potrebbero essere a conoscenza della situazione di fatto dell'adottante, dell'adottando e della loro famiglia.
3.8.2.1. Infatti, il giudice deve essere portato a conoscenza di ogni notizia per poter poi decidere circa la rispondenza dell'adozione all'interesse dell'adottando e la formulazione della norma lascia al tribunale la più ampia discrezionalità nella determinazione delle opportunità e del contenuto delle informazioni, nelle modalità di assunzione e nel compimento degli accertamenti, anche perché l'art. 313 cod. civ. inibisce espressamente il compimento di formalità di procedura. Può disporre liberamente di indagini peritali sulla consistenza del patrimonio o accertamenti medici sullo stato di salute dell'adottante e dell'adottando.
3.8.2.2. Pertanto, quest'ultimo tipo di controllo risponde ad una esigenza di ordine pubblicistico, resa esplicita dalle norme predette, che opportunamente lasciano al giudice un potere di valutazione che va al di là della mera ricognizione dei requisiti di tipo puramente formale, in quanto vi è il pericolo che siano commessi degli abusi in materia. Tale giudizio non deve essere circoscritto alla valutazione dei soli vantaggi economici, perché, come già si è accennato, le funzioni dell'istituto sono nella realtà profondamente cambiate, tanto che le finalità dell'adozione dei maggiorenni non sono più prevalentemente ereditarie, intendendo questo termine nella duplice accezione che evidenzia la realizzazione del fine di garantire una discendenza all'adottante, che ne sia privo, e, di riflesso, una posizione ereditaria all'adottando, cui è attribuita una condizione corrispondente a quella del figlio legittimo.
3.8.2.3. Il limite che si impone, per prevenire eventuali abusi, ha carattere generale e si può ricondurre, in sintesi, al dovere di non eludere gli obblighi dettati dalla normativa fiscale, di non violare le regole operanti in tema di status delle persone, o quelle poste dalla legislazione in materia di cittadinanza e di immigrazione, o di assistenza. A tal fine sono appunto da considerare essenziali le verifiche preliminari previste dalla legge, prima che sia emanata la sentenza che dispone l'adozione, intese ad impedire una vera e propria distorsione degli obiettivi (sia pure sensibilmente mutati) dell'istituto. E potrebbero comunque assumere rilievo in direzione negativa fattori di valutazione particolarmente gravi, tali dunque da sconsigliare la pronuncia dell'adozione pur in presenza dei dovuti consensi ed assensi.
4. In conclusione, la sentenza impugnata, non in linea con i principi e le argomentazioni tutte finora esposte, deve essere cassata, rinviandosi la causa alla Corte di appello di Bologna, in diversa composizione, per il nuovo esame da effettuarsi alla stregua del seguente principio di diritto:
“In tema di adozione di persone maggiori di eta`, l’indirizzo interpretativo, ormai consolidatosi, volto a privilegiare la “valenza solidaristica” della relativa disciplina, legittima un’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 296 e 311, comma 1, cod. civ. nel senso di consentire al soggetto maggiorenne, che si trovi in stato di interdizione giudiziale, di manifestare il proprio consenso all’adozione anche per il tramite del suo rappresentante legale, trattandosi di atto personalissimo che non gli è espressamente vietato e tenuto conto di quanto complessivamente sancito dagli artt. 1 e 12 della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con disabilità adottata il 13 dicembre 2006, ratificata dall’Italia con legge del 3 marzo 2009, n. 18”.
4.1. Al giudice di rinvio è rimessa pure la regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità.
5. Va, disposta, da ultimo, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 del d.lgs. n. 196/2003.
P.Q.M.
La Corte accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il ricorso proposto da T.Z., cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Bologna, in diversa composizione, per il nuovo esame, da effettuarsi alla stregua del principio enunciato al § 4. della motivazione, e per la regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità. Dispone, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 del d.lgs. n. 196/2003.