Pronunciandosi su una richiesta di protezione sussidiaria avanzata da un cittadino gambiano denunciato per il reato di violenza sessuale, la Cassazione precisa i confini del “danno grave” affermando un nuovo principio di diritto.
Con la sentenza n. 3336 del 3 febbraio 2022, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso affermando il seguente principio di diritto: «La fattispecie applicativa di cui all'
Svolgimento del processo
1.La Corte d'Appello di Torino, confermando la pronuncia di primo grado, ha rigettato la domanda di protezione sussidiaria ed umanitaria proposta da D.L., cittadino gambiano, il quale aveva dichiarato di aver costretto ad un rapporto sessuale una ragazza quindicenne e, per la paura di essere incolpato, si era deciso ad emigrare senza spiegare ai familiari le ragioni della partenza. La Corte territoriale ha rilevato che la vicenda narrata, di natura strettamente privata, risultava del tutto estranea a qualsiasi forma di protezione richiesta, non soltanto al rifugio politico ma anche alla protezione sussidiaria ed umanitaria; ha evidenziato che, in relazione alla protezione sussidiaria, l'appellante non aveva mai dichiarato di aver ricevuto minacce o atti persecutori né di aver avuto alcun problema nel suo paese, salvo quello relativo alla denuncia ed al mandato di cattura per il reato di violenza sessuale nei confronti della ragazza quindicenne e che il "danno grave" non poteva ricondursi al rischio della sanzione penale ancorché molto severa (carcere a vita) dal momento che tale rischio (di essere sottoposto ad azione giudiziaria ed essere condannato) non risultava assumere alcuna connotazione negativa, in relazione al principio di proporzionalità e parità di trattamento; ha evidenziato che la Costituzione del Gambia prevede una giustizia indipendente ed il governo, in discontinuità con il passato, era intervenuto per garantire il rispetto dell'indipendenza della magistratura, essendosi anche verificato un forte ricambio nei vertici della magistratura e della polizia ed essendosi realizzato anche un avvicendamento nel Commissario alle prigioni; ha inoltre osservato che il nuovo presidente si era impegnato per fronteggiare l'emigrazione irregolare e la disoccupazione giovanile; ha rilevato che le informazioni erano state tratte da fonti COI del dicembre 2017, mentre quelle allegate dalla parte appellante, sulla situazione della giustizia e delle carceri, erano comunque meno recenti (2014) e si riferivano ad un periodo antecedente i mutamenti politici illustrati; ha infine osservato che la domanda di protezione umanitaria dovesse essere rigettata perché non erano state allegate serie controindicazioni al rientro fondate su rischio di esposizione a forme di discriminazione o tortura o trattamenti inumani e degradanti né risultava dalle allegazioni di parte un particolare inserimento sociale o lavorativo. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il cittadino straniero, affidato a tre motivi. Non ha svolto difese il Ministero intimato. Con ordinanza interlocutoria depositata in data 12.10.2020, la causa è stata rimessa alla discussione in pubblica udienza, ritenendo che la censura relativa all'esposizione al trattamento penale della reclusione a vita ed alla sua riconducibilità ad una delle ipotesi di protezione sussidiaria (art. 14, lettera b, d.lgs. n. 251/2007), in quanto nuova e di spessore nomofilattico, richiedesse la fissazione della pubblica udienza.
Motivi della decisione
1. Nel primo motivo di ricorso è stata dedotta la violazione degli artt. 2, 5, 6 e 7 del d.lgs n. 251 del 2007 e dell'art. 10 Cost., per avere la Corte d'appello mal interpretato la fonte Amnesty 2017/2018 nella quale, pur dandosi atto di una maggiore indipendenza della magistratura, si evidenziava che le condizioni delle carceri non erano in linea con gli standards internazionali in tema di igiene, l'assistenza legale gratuita era limitata e perdurava una grave violazione dei diritti umani risultando ancora sparizioni forzate, torture, maltrattamenti e la sostanziale impunità delle forze dell'ordine e dell'esercito per le violenze perpetrate.
2. Nel secondo motivo è stata dedotta la violazione dell'art. 14 d.lgs n.251 del 2007 per non essere stata considerata l'esposizione del ricorrente al rischio di essere sottoposto a sanzioni penali sproporzionate e discriminatorie da scontare in luoghi di detenzione inumani e degradanti, essendo previsto per il reato di violenza sessuale - della commissione del quale lo stesso ricorrente era stato denunciato e per il quale il ricorrente risultava soggetto a mandato di cattura - la pena dell'ergastolo.
3. Nel terzo motivo è stata dedotta la violazione dell'art. 5, c.6 d.lgs. n. 286 del 1998 ed omesso esame di fatti decisivi in relazione al rigetto della domanda riguardante la protezione umanitaria, per non avere la Corte d'Appello tenuto conto della sproporzione della pena cui sarebbe esposto il ricorrente, delle condizioni carcerarie del Gambia, quali condizioni di vulnerabilità del ricorrente. Il ricorrente rileva inoltre che la protezione umanitaria ha natura residuale, richiedendo un giudizio comparativo tra il grado d'integrazione e la violazione dei diritti umani.
4. Il ricorso è infondato.
4.1 Il primo motivo è inammissibile.
4.1.1 Il ricorrente intende in verità sollecitare questa Corte – sotto l’egida applicativa del vizio di violazione di legge – ad una rilettura della questio facti, con particolare riferimento alle condizioni interne del Gambia (condizioni della giustizia e delle carceri), scrutinio che involge valutazioni prettamente di merito sulle quali la corte territoriale ha adeguatamente argomentato ed in relazione alle quali al giudice di legittimità è inibito un sindacato interno alla motivazione.
4.1.2 Sul punto è utile ricordare che - in tema di ricorso per cassazione - il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (così, Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019; cfr. anche Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017). Più precisamente è stato affermato sempre dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità che le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all'art. 36D0, comma 1, n. 3 c.p.c., descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: a) quello concernente la ricerca e l'interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello afferente l'applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell'attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell'assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista - pur rettamente individuata e interpretata - non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra nell'ambito applicativo dell'art. 360, comma 1, n. 3, l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità (cfr. Sez. 1, Ordinanza n. 640 del 14/01/2019). Le censure proposte dal ricorrente neanche colgono, poi, la vera ratio decidendi della motivazione impugnata che - in punto di diniego dello status di rifugiato - ha evidenziato la mancanza di atti persecutori in danno del richiedente. Ne consegue la declaratoria di inammissibilità del primo motivo.
4.2 Il secondo mezzo è invece infondato.
4.2.1 L’ordinanza interlocutoria sopra ricordata in premessa ha sottolineato come la censura relativa all'esposizione al trattamento penale della reclusione a vita ed alla sua riconducibilità ad una delle ipotesi di protezione sussidiaria (art. 14, lettera b, d.lgs. n. 251/2007), in quanto nuova e di spessore nomofilattico, richiedesse la fissazione della pubblica udienza. Nel motivo in esame il ricorrente ha infatti dedotto la violazione dell'art. 14 d.lgs, n.251 del 2007, per non essere stata considerata l'esposizione del ricorrente al rischio di essere sottoposto a sanzioni penali sproporzionate e discriminatorie da scontare in luoghi di detenzione inumani e degradanti, essendo previsto per il reato di violenza sessuale - della commissione del quale lo stesso ricorrente era stato denunciato - la pena dell'ergastolo.
4.2.2 Le doglianze proposte dal ricorrente non sono tuttavia condivisibili. Occorre in primo luogo evidenziare che la fattispecie applicativa di cui all’art. 14, lett. b, d.lgs. n. 251/2007, in tema di protezione sussidiaria, aggancia la definizione di danno grave alle modalità di esecuzione della pena ovvero del trattamento carcerario applicato (“tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine”) e non già (come invece previsto dalla lettera a della medesima norma in esame) alla tipologia di pena applicata ovvero applicabile (“condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte”), di modo che non è possibile predicare un’esegesi che qualifichi come “danno grave”, ai sensi dell’art. 14 d.lgs. n. 251/2007, l’applicazione di una pena ritenuta - in tesi - sproporzionata rispetto al delitto in relazione al quale è prospettata la sanzione penale (come avvenuto nel caso di specie ove il ricorrente ritiene la pena dell’ergastolo eccessiva e sproporzionata rispetto al delitto di violenza sessuale su minore). Del resto, laddove il legislatore ha voluto riconoscere la protezione sussidiaria in relazione alla tipologia di pena applicata ovvero applicabile lo ha espressamente previsto, posto che – come già sopra ricordato – è proprio l’art. 14, lett. a, d.lgs. n. 251/2007 che ha riconosciuto la tutela protettiva in parola al richiedente che rischia la condanna alla pena di morte ovvero l’esecuzione della pena capitale, e ciò al di là della valutazione del delitto in relazione al quale è prevista, nello stato di provenienza, l’applicazione della pena di morte.
4.2.3 Né peraltro è previsto dall’ordinamento positivo un sindacato giudiziale sul profilo della proporzionalità o meno della pena inflitta rispetto al delitto commesso ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria ex art. 14 d.lgs. n. 251/2007.
4.2.4 È stato anche affermato in un pronunciamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che il danno grave - sub specie di tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante - è tale quando una condanna potrebbe violare l’art. 3 della Carta europea dei diritti dell’uomo se fosse “wholly unjustified or grossly disproportionate to the gravity of the crime” (European Court of Human Rights, case of Vinter and others v. The United Kingdom, 9 July 2013; cfr. Case of H. and E. v. The United Kingdom, 9 July 2012). La Corte ha in particolare evidenziato quanto segue: “90. La Corte passa ora alla seconda questione sollevata dalla Corte di Appello e dalla Camera dei Lords. Ritiene che, fermo restando il principio generale per il quale una pena non dovrebbe essere gravemente sproporzionata, per gli ergastoli è necessario distinguere tre tipi di condanne: (i) un ergastolo con possibilità di rilascio dopo aver scontato un periodo minimo; (ii) una condanna discrezionale all’ergastolo senza la possibilità di libertà condizionale; e (iii) una condanna obbligatoria all’ergastolo senza la possibilità di libertà condizionale. La Corte conclude pertanto che, in assenza di una tale grave sproporzione, sorgerà un problema di cui all’articolo 3 per una condanna obbligatoria all’ergastolo senza la possibilità di libertà condizionale allo stesso modo dell’ergastolo discrezionale, cioè quando si può dimostrare: (i) che la detenzione continuata del ricorrente non può più essere giustificata da ogni legittima base penale; e (ii) che la condanna è irriducibile de facto e de iure (K., sopra citata)”. Come è dato intendere dalla lettura della sentenza sopra richiamata, il danno grave è sempre determinato dalla modalità di esecuzione della pena (“tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante”), e cioè, per quanto concerne la pena dell’ergastolo, che quest’ultima non sia riducibile in alcun modo ovvero che non vi sia una “base penale” per la condanna, situazioni quest’ultime non ricorrenti, peraltro, nel caso di specie perché neanche allegate e dimostrate dal ricorrente. Ma anche il richiamo contenuto nella sentenza da ultimo citata alla clausola generale di proporzionalità della pena rispetto al crimine commesso deve essere rettamente intesa e coordinata con le altre disposizioni normative di matrice internazionale accolte nel nostro ordinamento positivo. Sotto il primo profilo, non può essere sottaciuto - come sopra accennato - che non è neanche demandabile al giudice nazionale un generale scrutinio sul profilo della legalità delle pene e della corrispondenza delle stesse, per come irrogabili dagli stati di provenienza dei richiedenti asilo, ad un generale principio di ragionevolezza e proporzionalità delle sanzioni previste per i singoli crimini (proprio perché ciò non è normativamente previsto). Ma anche a voler ritenere percorribile tale indirizzo interpretativo, il sindacato giudiziale dovrebbe concentrarsi solo sulle ipotesi di eclatante sproporzione tra la tipologia di delitto commesso dal richiedente asilo e quella della pena prevista ed irrogabile nel paese di provenienza. Situazione quest’ultima neanche prospettabile nel caso in esame ove la gravità del reato (violenza sessuale su minore) esclude in radice la possibilità di un giudizio di proporzionalità.
4.2.4 Sotto il secondo profilo di riflessione, va aggiunto che il disposto normativo di cui all’art. 14, lett. b, d.lgs. n. 251/2007, deve essere necessariamente coordinato, sul piano applicativo, con quanto disposto anche dall’art. 16, primo comma, lett. b, medesima fonte normativa, ove si esclude lo status della protezione sussidiaria allorquando sussistano fondati motivi per ritenere che lo straniero abbia commesso, al di fuori del territorio nazionale, prima di esservi ammesso in qualità di richiedente, un reato grave. Ne consegue che esistono “reati ostativi” (alla cui qualificazione concorre anche la legge italiana con il richiamo ai limiti edittali previsti sempre dall’art. 16, lett. b, d.lgs. n. 251/2007) al riconoscimento dell’invocata protezione internazionale che confermano la tesi interpretativa qui accolta secondo cui non è possibile ancorare alla valutazione della pena e alla possibile sproporzione della stessa rispetto al delitto commesso il riconoscimento o meno della protezione sussidiaria ex art. 14, lett. b, d.lgs. 251/2007.
4.2.5 Sul punto, è stato anche affermato dalla Corte di Giustizia (causa C-369/17, S.A. c. B. és M. H.), adita in rinvio pregiudiziale sul parametro di qualificazione della gravità come previsto dall’art. 17 della Direttiva Qualifiche, che «sebbene il criterio della pena prevista sulla base della legislazione penale dello Stato membro interessato sia di particolare importanza nel valutare la gravità del reato che giustifica l’esclusione dalla protezione sussidiaria ai sensi dell’articolo 17, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95, l’autorità competente dello Stato membro interessato può invocare la causa di esclusione prevista da tale disposizione solo dopo aver effettuato, per ciascun caso individuale, una valutazione dei fatti precisi di cui essa ha conoscenza, al fine di determinare se sussistano fondati motivi per ritenere che gli atti commessi dalla persona interessata, che per il resto soddisfa i criteri per ottenere lo status richiesto, rientrino in tale causa di esclusione” (v., per analogia, sentenze del 9 novembre 2010, B e D, C-57/09 e C-101/09, EU:C:2010:661, punto 87, e del 31 gennaio 2017, L., C-573/14, EU:C:2017:71, punto 72). Dunque – quanto a valutazione della gravità del reato ostativo – si richiede un giudizio individualizzante sulla ricorrenza della causa di esclusione della richiesta protezione che preclude, anche astrattamente, la possibilità che la valutazione sulla ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 14, lett. b, d.lgs. n. 251/2007 possa essere ancorata ad un “generale scrutinio di proporzionalità” della pena applicabile (ergastolo, nel caso in esame) rispetto al delitto commesso, giudizio demandabile, secondo l’ipotesi qui non accolta, al giudice nazionale.
4.2.6 Discorso diverso riguarda invece la valutazione in concreto rimessa ai giudici del merito, anche previo utilizzo dei poteri di accertamento ufficiosi di cui all'art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, se, per un verso, la contestata violazione di norme di legge penale, nel paese di provenienza, provenga o meno dagli organi a ciò istituzionalmente deputati e abbia avuto ad oggetto la legittima reazione dell'ordinamento all'infrazione commessa (non costituendo piuttosto una forma di persecuzione razziale, di genere o politico-religiosa) e, per altro verso, se il tipo di trattamento sanzionatorio previsto nel Paese di origine per il reato commesso dal richiedente non preveda torture o trattamenti inumani o degradanti nelle carceri (Sez. L, Ordinanza n. 26604 del 23/11/2020; Sez. 1, Ordinanza n. 1033 del 17/01/2020; Sez. 6-1, Ordinanza n. 25073 del 23/10/2017).
4.2.7 Ma qui l’accento si sposta – come già sopra tratteggiato – sulle modalità concrete di esecuzione della pena e di trattamento carcerario applicate ovvero sulla strumentalità della funzione punitiva penale verso altri scopi ritenuti illegittimi e non già sul diverso profilo (che invece viene in rilievo nella causa che ci occupa) della tipologia di pena applicata per il delitto commesso. L. 18 dicembre 2020, n. 173), conferma, anche nella versione ratione temporis applicabile, le conclusioni esegetiche sopra indicate, posto che anche in tal caso il non refoulement viene collegato al rischio per il richiedente di essere sottoposto a “tortura” e dunque ad eventuali trattamenti esecutivi della pena inaccettabili sotto il profilo giuridico ed umanitario. Non risultano pertanto condivisibili le conclusioni della Procura Generale che, nella discussione orale, ha puntato l’attenzione, nel caso in esame, sulle modalità di esecuzione della pena (“ergastolo senza speranza”) e sulla necessità di un approfondimento istruttorio sul punto, ex art. 8, 3 comma, d.lgs. n. 25/2008, proprio perché il ricorrente ha invece dedotto il diverso profilo della sproporzione della pena rispetto al delitto commesso e non già delle modalità giuridiche e fattuali di esecuzione della pena. Ne discende il rigetto del secondo motivo.
4.3 Il terzo motivo – articolato invece sul diniego della reclamata protezione umanitaria – è inammissibile perché le doglianze non censurano le rationes decidendi poste a sostegno del contestato rigetto della domanda, e cioè l’assenza di una condizione di soggettiva vulnerabilità e di un’adeguata integrazione sociale. Non può essere dimenticato, in termini generali, che il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall'ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti. Ne consegue che, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali "rationes decidendi" (cfr. Sez. U, Sentenza n. 7931 del 29/03/2013; Sez. 3, Sentenza n. 2108 del 14/02/2012; Sez. L, Sentenza n. 4293 del 04/03/2016; Sez. 6 - 5, Ordinanza n. 9752 del 18/04/2017; Sez. 5 - , Ordinanza n. 11493 del 11/05/2018; Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 16314 del 18/06/2019; Sez. 1, Ordinanza n.18119 del 31/08/2020). In relazione al secondo motivo di ricorso, deve essere affermato il seguente principio di diritto: “La fattispecie applicativa di cui all’art. 14, lett. b, d.lgs. n. 251/2007, in tema di protezione sussidiaria, aggancia la definizione di danno grave alle modalità di esecuzione della pena ovvero del trattamento carcerario applicato (“tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine”) e non già (come invece previsto dalla lettera a della medesima norma sopra richiamata) alla tipologia di pena applicata ovvero applicabile (“condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte”), di modo che non è possibile predicare un’esegesi che qualifichi come “danno grave”, ai sensi dell’art. 14 d.lgs. n. 251/2007, l’applicazione di una pena ritenuta - in tesi - sproporzionata rispetto al delitto in relazione al quale è prospettata la sanzione penale”. Nessuna statuizione è dovuta per la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità, stante la mancata difesa dell’amministrazione intimata.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.