La Cassazione afferma un nuovo principio di diritto distinguendo le ipotesi in cui il risarcimento in questione è assoggettabile a tassazione da quelle in cui esso costituisce un mero danno emergente.
Il Tribunale accoglieva la domanda di risarcimento danni presentata dall'attrice nei confronti dei propri familiari per averla indotta, con un aumento di capitale rilevantissimo, a cedere le proprie quote. Successivamente, l'Agenzia delle Entrate, qualificando l'importo dei danni come risarcimento sostitutivo del reddito da plusvalenza per la...
Svolgimento del processo
1. La Commissione tributaria regionale della Lombardia (di seguito anche “CTR”) accoglieva l'appello di G. M. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano, che aveva respinto il ricorso della contribuente contro l'avviso di accertamento emesso dalla Agenzia delle entrate nei suoi confronti per l'anno 2006. In particolare, con sentenza del Tribunale di Milano n. 10550/2006 era stata accolta la domanda di risarcimento danni presentata da M. G. nei confronti dei propri familiari per averla indotta, con un aumento di capitale rilevantissimo (da lire 200.000.000 a lire 50.200.000.000), a cedere le proprie quote in FI. e FN.; successivamente, in data 25 ottobre 2006, era stata stipulata una transazione tra le parti con cui l'importo dei danni veniva ridotto ad € 95.000.000; su tali somme l'Agenzia delle entrate ha calcolato il 40 % (pari ad € 38.000.000,00) che ha sottoposto ad imposizione, ai sensi degli artt. 6 e 68 del d.P.R. 917/1986, qualificandole come risarcimento sostitutivo di reddito da plusvalenza per la cessione delle partecipazioni. La Commissione tributaria regionale, invece, rilevava che il risarcimento di cui alla sentenza del tribunale di Milano (€ 100.121.883,83), poi ridotto con la transazione ad € 95.000.000,00, non atteneva alla rimozione dell'aumento di capitale illegittimamente deliberato (dopo alcuni mesi revocato), ma al ristoro delle conseguenze pregiudizievoli sul “patrimonio” della socia, determinate proprio da tale aumento; ciò che rilevava, ai fini della qualificazione delle somme ricevute a titolo di risarcimento dei danni, era soltanto la “perdita di valore della quota”, non la differenza tra quanto incassato con la cessione delle quote alla banca U. (che aveva inizialmente erogato un finanziamento in suo favore con diritto di opzione sulle quote, poi esercitato), pari a lire 180 miliardi, e quanto avrebbe incassato da tale cessione in assenza dell'aumento di capitale e quindi della condotta illecita dei suoi familiari (“quella parte del valore della sua partecipazione che eccede il prezzo corrisposto dal U.”, come risulta dalla sentenza del tribunale di Milano). Vi era, quindi, per la Commissione regionale la totale assenza di volontà di vendere le sue partecipazioni da parte della contribuente, costretta alla vendita, ma sicuramente senza alcun intento speculativo, “stante la carenza del benché minimo atto di volontarietà”. Il primario obiettivo della G. era quello di “ottenere un finanziamento che le consentisse di sottoscrivere l'aumento di capitale”, tanto da chiedere come domanda principale il “ritrasferimento” delle quote societarie ai sensi dell'art. 2908 cod. civ. Pertanto, non assumevano rilevanza reddituale le indennità risarcitorie erogate al fine di reintegrare il patrimonio del soggetto, ovvero al fine di risarcire la “perdita economica” subita dal patrimonio.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'Agenzia delle entrate.
3. La contribuente ha resistito con controricorso, depositando in data 28 febbraio 2020 sentenza di assoluzione della contribuente del Tribunale penale di Milano pronunciata in data 3 luglio 2013, con attestazione dell'avvenuto passaggio in giudicato il 28 settembre 2013.
4. La Procura Generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo l'accoglimento del ricorso.
5. Questa Corte con ordinanza del 21 ottobre 2020 ha disposto il rinvio a nuovo ruolo per la trattazione della controversia in pubblica udienza, stante la complessità delle questioni giuridiche trattate.
6. La società ha depositato memoria scritta.
Motivi della decisione
1. Con un unico motivo di impugnazione l'Agenzia delle entrate deduce la “violazione e falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c.; 41 c.p. e 1223 c.c.; 6 comma 2, 67 comma 1, lettera c, 68 comma 6 d.P.R. 917/1986, in relazione all'art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c.”, in quanto, a seguito di un aumento di capitale in violazione dei patti parasociali da parte dei familiari della contribuente, questa – si sostiene - è stata indotta ad instaurare trattative con la banca U. per ottenere un finanziamento che le avrebbe consentito di sottoscrivere tale rilevantissimo aumento, da lire 200.000.000 a lire 52.000.000.000, per ciascuna delle due società. Tuttavia, l'esito delle trattative avrebbe comportato la vendita delle azioni alla U., che aveva ottenuto con la concessione del finanziamento anche il diritto di opzione per l'acquisto delle azioni. Il prezzo di cessione alla U. sarebbe stato largamente inferiore al valore che le azioni avrebbero avuto se non fosse stato deliberato l'aumento di capitale illegittimo. Il Tribunale di Milano con la sentenza 10550/2006 avrebbe liquidato in favore della G., a titolo di risarcimento dei danni per la perdita patrimoniale subita, la somma di € 95.000.000,00. Per la ricorrente Agenzia tale risarcimento costituirebbe l'integrazione, sino all'affettivo valore di mercato delle azioni, del prezzo di vendita, “forzatamente basso”, imposto da U. alla contribuente. Tale di raccolta generale 5275/2022 Data pubblicazione 17/02/2022 risarcimento, quindi, rappresenterebbe una “quota aggiuntiva” della “plusvalenza” realizzata con la cessione delle azioni alla U., avendo dunque “valore reddituale”. Secondo la CTR, invece, il danno è stato cagionato, non dalla cessione delle azioni alla U., ma, prima ancora, dall'illegittimo aumento di capitale. La vendita in perdita delle azioni alla U., allora, sarebbe stata solo una conseguenza ulteriore di quel pregiudizio patrimoniale, costituendo solo la “contromossa” che la contribuente avrebbe potuto adottare per limitare il danno prodotto dalla delibera illecita di aumento del capitale. In realtà, per la CTR, la contribuente non avrebbe mai avuto alcuna intenzione di cedere le sue azioni; non vi era cioè alcuna intenzione della G. di ottenere una plusvalenza dalla cessione delle azioni, volendo la stessa soltanto reintegrare il proprio patrimonio considerato “staticamente”, cioè nella sua consistenza (valore della partecipazione nelle società di famiglia che controllavano la D. C.) che quel patrimonio aveva al momento dell'aumento della delibera del capitale. Trattandosi di mera reintegrazione patrimoniale, e non di sostituzione di reddito perduto, il risarcimento quindi non avrebbe alcuna rilevanza fiscale.
In realtà, però, l'illegittima delibera di aumento del capitale – si sostiene dall’Agenzia - ha provocato, come prima conseguenza, il concreto timore della “diluizione” del valore della quota posseduta, e come conseguenza “di secondo grado”, la decisione di vendere alla banca U.. Il Tribunale di Milano, nell'accogliere la domanda risarcitoria della G., ha escluso che la successiva decisione della contribuente di vendere le quote alla U. potesse essere considerata come una iniziativa “del tutto autonoma” dalla serie causale innescata dalla delibera di aumento di capitale. La decisione di vendere è stata valutata inidonea a costituire una “interruzione” del nesso causale di cui all'art. 1223 cod. civ. tra la delibera di aumento del capitale e la vendita successiva in perdita, che ha fatto sorgere il danno “nelle sue dimensioni effettive”. La decisione non ha mai affermato che il danno era stato causato in via definitiva dall'aumento di capitale, mentre la successiva vendita sarebbe stata solo un “episodio accessorio e irrilevante”. Se il Tribunale di Milano avesse aderito alla contestazione dei convenuti, per cui la scelta di vendere le azioni aveva interrotto il nesso causale con la delibera di aumento di capitale, non avrebbe incluso nella complessiva fattispecie di illecito civile anche la successiva vendita ad U.. Il giudice di appello ha violato, dunque, l'art. 115 cod. proc. civ., perché ha deciso presupponendo dei fatti diversi da quelli pacifici tra le parti e da essa stessa richiamati. La Commissione regionale avrebbe, poi, violato le norme sul “nesso causale”, in quanto ha escluso dalla serie causale dei fatti rilevanti la vendita ad U., che era una concausa non interruttiva del nesso causale, essendo stata determinata a monte dalla delibera di aumento del capitale. Pertanto, la CTR avrebbe violato anche gli artt. 6, 67 e 68 d.P.R. 917/1986, quando ha negato che le somme erogate con la transazione non rappresentavano redditi da plusvalenza di cessione di azioni. Tale cessione, invece, non può essere esclusa dalla valutazione fiscale. Né può essere condivisa la considerazione del giudice di appello per cui la vendita non è stata liberamente determinata, dal punto di vista soggettivo, in quanto ciò che rileva agli effetti fiscali è solo il dato oggettivo della cessione a titolo oneroso delle partecipazioni, né la vendita è stata mai annullata per vizio del consenso.
1.1. Tale motivo è fondato nei termini che seguono.
1.2. La dinamica degli eventi può essere così sinteticamente essere ricostruita. D. G. (deceduto il 25 maggio 1992) deteneva il 100 % delle quote di A. s.r.l., poi A. s.p.a., la quale possedeva il 60% delle azioni di F., che controllava al 99,66 % la C. s.p.a. Le azioni della A. sono state acquistate il 20 dicembre 1989 da due società: la FI. per il 49 % e la FN. per il 51 %. FN. s.r.l. era partecipata per il 2% da R. M. (moglie di D. G.), il 52,335% da L., il 22,83% da A. e il 22,835% da M.; la società FI. s.r.l. era partecipata per il 2% da R. M., oltre al 48,5% in usufrutto delle quote di ciascuna società, per il 12,33% da L., per il 42,835% da A. e per il 42,835% da M.. Pertanto, M. G. aveva la partecipazione indiretta del 20% in C. s.p.a.. Dopo il decesso di D. G. gli eredi, e quindi la moglie R. M. ed i tre figli M. (odierna controricorrente), L. ed Alessandro stipularono un patto parasociale nel 1993, assumendo, tra l'altro, l'impegno a non alterare il valore delle partecipazioni di ciascuno nelle società. Il 25 luglio 1995 inizia l’operazione di “esterizzazione” del gruppo con l’aumento di capitale di FI. e FN. da 20.000.000 di lire a 200.000.000 di lire, ed il giorno dopo i soci cedono alla società lussemburghese D. S.A. parte dei diritti d’opzione, che quest’ultima società sottoscrive inizialmente per quota di 72.000.000 di lire per ciascuna società. Nel contesto di tale operazione M. G. firma una serie di mandati fiduciari, tra cui uno alla madre “per gestire congiuntamente alla mandante oppure unicamente a sua firma (della madre)” le sue partecipazioni intestate alle fiduciarie. Il patto, però, fu violato dai familiari della contribuente, i quali proposero, in data 20 gennaio 2000, di deliberare un aumento di capitale da lire 200.000.000 a lire 50.200.000.000, in tal modo diluendo la quota di partecipazione della G. (che era inizialmente del 20 %), “polverizzandola” a fronte dell'enorme aumento di capitale. Le quote della contribuente si erano, infatti, ridotte allo 0,31% in FI. ed allo 0,16% in FN.. Non avendo le somme per acquistare le nuove azioni, in assenza della distribuzione di utili in suo favore, in quanto quelli distribuiti da C. venivano riportati “a nuovo “ dalla A., la contribuente chiese un finanziamento alla U. banca (accordo del 6 marzo 2000), che però lo concesse ma, in cambio, ottenne non solo una minima partecipazione (pari a circa il 3 % della FI. e della FN.), ma anche il diritto di opzione sulle stesse azioni (diritto di Call), da esercitare entro l'aprile 2002. L'aumento di capitale fu deliberato dalle assemblee di FI. e FN. il 9 marzo 2000 ed il 21 marzo 2000 la U. acquistò la prima tranche delle azioni. Il 16 maggio 2000 la banca U. stipula un accordo con gli altri familiari della G.. Il 22 maggio 2000 la U. esercitò il diritto di opzione (la Call) ed il 31 maggio 2000 acquistò l'intera partecipazione per la somma di lire 180.000.000.000, di molto inferiore al valore effettivo delle azioni, poi stabilito con la sentenza del giudice civile di Milano del 2006 in lire 373.863.000.000, con una differenza di lire 193.863.000.000, pari ad € 100.121.883,83.
Si è, poi, scoperto che lo stesso giorno (il 31 maggio 2020), ma con qualche ora di anticipo (secondo la prospettazione dei familiari della contribuente), in cui U. ha acquistato tutte le azioni ad un valore minore rispetto a quello di mercato, la G. ha donato la metà delle sue azioni al suo convivente more uxorio, C. G. (tale vicenda è oggetto di altra pronuncia di questa Corte n. 18770 del 2 luglio 2021).
L’accordo con U., da parte di familiari della G., non prevedeva l’ingresso nella compagine sociale della banca come socio “finanziatore”, ma la sua rapida uscita tramite rivendita delle quote di M. G. alla famiglia e la quotazione in borsa (cfr. pagina 38 della motivazione delle sentenza civile del Tribunale di Milano); tanto che C. B., A.D. di U., sentito dal P.M., ha negato assolutamente che vi fosse tra gli accordi del 16 maggio 2000 l’impegno di U. a finanziare l’acquisizione da parte di C. (cfr. pagina 39 della sentenza civile). Da tale operazione L. G. aveva ottenuto: la liquidazione di M. G.; la quotazione di C. con la liquidazione totale di W.; l’incremento della partecipazione in C. sua, della madre e della sorella, dal 40% al 51%, oltre ad una somma liquida di 8.000.000.000 circa; la conferma del controllo del gruppo. Il giorno dopo, il 1° giugno 2000 le quote della FI. vennero trasferite a N. Fiduciaria, intestataria delle partecipazioni lussemburghesi della famiglia G.; quindi il 3 giugno 2000 vennero trasferite le quote di FN. a N. Fiduciaria; il 12 giugno 2000 le assemblee di FI. e FN. revocarono gli aumenti di capitale. Il 30 ottobre 2000 FI. e FN., che prima di allora non avevano mai distribuito utili ai soci (tra cui la contribuente), deliberarono la distribuzione di dividendi ai soci per lire 87.500.000.000 e per lire 91.000.000.000.
1.3. Questi i fatti oggetto della controversia esaminati dal giudice civile e dal giudice penale; il Tribunale civile di Milano con la sentenza n. 10550/2006 ha accolto la domanda subordinata della contribuente, rigettando la richiesta di risarcimento in forma specifica, consistita nella istanza di ritrasferimento delle quote, ma riconoscendo il risarcimento per equivalente, precisando che “poiché invece l'attrice non ha messo in discussione quel contratto, la predetta modalità di ristoro non può che costituire anch'essa un risarcimento per equivalente del bene perduto”, aggiungendo che “il bene perduto che integra nella specie il danno ingiusto...non sono le quote vendute, bensì quella parte del valore della sua partecipazione che eccede il prezzo corrisposto da U.; valore che non può che essere espresso in denaro, e non in quote di capitale delle società FI. e FN.”. Il Tribunale di Milano ha, peraltro, escluso la sussistenza del danno non patrimoniale, comprensivo di danno morale e danno esistenziale, in assenza di allegazione e di prova del medesimo. Il giudice penale di Milano, con la sentenza depositata il 3 luglio 2013, ha assolto M. G. dal reato di cui all’art. 4 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, perché, nella veste di contribuente, al fine di evadere le imposte sui redditi, aveva indicato nella dichiarazione fiscale elementi attivi per ammontare inferiore a quello effettivo, per un maggiore imponibile di euro 38.000.000,00. Il giudice penale ha chiarito in motivazione che “il punto determinante è certamente la conclusione dell’accordo con U., imposta alla prevenuta pena il totale azzeramento delle sue partecipazioni in FI. e FN.”. Si è evidenziato in tale sentenza penale che la stessa decisione del Tribunale di Milano imponeva di assegnare alle somme riconosciute all’imputata la “natura di ristoro patrimoniale di una perdita subita per effetto di una illecita condotta dei familiari e delle società ad essi riferibili”. L’accordo con U. “mirava a contenere il danno derivante dall’illecita condotta dei familiari e si poneva come uno dei momenti di una ben più complessa fattispecie”.
1.4. La questione dirimente attiene alla qualificazione del risarcimento dei danni, come effettuata dalla sentenza del tribunale di Milano, ed oggetto della successiva transazione del 25 ottobre 2006, da intendersi o come ristoro del valore del bene perduto, rappresentato dal valore effettivo delle quote della contribuente al momento della delibera (illegittima) di aumento di capitale (quindi mero danno emergente non tassabile come plusvalenza), oppure come risarcimento di “quella parte del valore della sua partecipazione che eccede il prezzo corrisposto da U.” (quindi lucro cessante, in quanto sostitutivo di reddito); in questo secondo caso il ristoro attiene alla cessione della partecipazione ad U. “in perdita”, in quanto ove non vi fosse stata la delibera di aumento del capitale la partecipazione sarebbe stata venduta ad un prezzo di molto superiore a quello effettivamente praticato alla banca (lire 373.863.000.000 a fronte della minore somma versata dalla banca pari a lire 180.000.000.000, con una differenza di lire 193.863.000.000, pari ad € 100.121.883,83, ossia il danno subito dalla contribuente, costituente lucro cessante); nel primo caso le somme non sarebbero soggette a tassazione in quanto si tratterebbe di un mero ristoro della perdita subita, costituita dalla riduzione di valore della partecipazione, perché “diluita” e quasi “polverizzata” dall'aumento del capitale da lire 200.000.000 a lire 52.000.000.000 (con quote residue per M. G. dello 0,31 % di FI. e dello 0,16 % di FN.); nel secondo caso, invece, si tratterebbe di vera e propria “integrazione”, in aggiunta, della plusvalenza comunque ottenuta con la cessione della partecipazione alla banca, in applicazione degli artt. 6, 67 e 68 del d.P.R. 917/1986; si tratterebbe di una somma “sostituiva” di una voce di “reddito”, costituita dalla “plusvalenza”.
1.5. È necessario, a questo punto, tracciare i confini del panorama legislativo e giurisprudenziale di riferimento, soprattutto, in ordine alla nozione tributaria dei concetti di “danno emergente” e “lucro cessante”, premettendo che il diritto tributario segue una propria e specifica logica impositiva, di carattere meramente oggettivo, nella individuazione dei feN.i da scrutinare, che si discosta dalle corrispondenti nozioni civilistiche.
L'art. 6, secondo comma, del d.P.R. 917/1986, prevede che “i proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti, e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti dell'invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti”.
L'art. 67, primo comma, lettera c), del d.P.R. 917/1986 dispone che “sono redditi diversi...c) le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di partecipazioni qualificate”.
L'art. 68, terzo comma, d.P.R. 917/1986, poi, prevede che “ le plusvalenze di cui alla lettera c del comma 1 dell'art. 67 [...] per il 40 per cento del loro ammontare, sono sommate algebricamente alla corrispondente quota delle relative minusvalenze”.
Ai sensi dell'art. 68, sesto comma, d.P.R. 917/1986 “le plusvalenze indicate nelle lettere c) [...] del comma 1 dell'art. 67 sono costituite dalla differenza tra il corrispettivo percepito [...] e il costo o il valore di acquisto assoggettato a tassazione, aumentato di ogni onere inerente alla loro produzione”.
1.6. Invero, per verificare l'assoggettamento a tassazione dei proventi risarcitori, ai sensi dell'art. 6 del d.P.R. 917/1986, deve tenersi conto della natura del ristoro, se costituente danno emergente o lucro cessante; si riconosce valenza reddituale soltanto ai proventi attribuiti a titolo di lucro cessante. É necessario, quindi, individuare la funzione di ogni attribuzione patrimoniale, per verificare se è stata concessa per risarcire un danno o reintegrare un reddito.
1.7. La casistica giurisprudenziale si è formata in ordine a tutte le varie categorie di redditi, e in particolare, sui risarcimenti relativi ai redditi da lavoro dipendente.
Infatti, per questa Corte, in adesione ad un orientamento cui si intende dare seguito, ha affermato che, tutte le indennità conseguite dal lavoratore a titolo di risarcimento dei danni consistenti nella “perdita di redditi”, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, e quindi tutte le indennità aventi causa o che traggano comunque origine dal rapporto di lavoro, comprese le indennità per la risoluzione del rapporto per illegittimo comportamento del datore di lavoro, costituiscono redditi da lavoro dipendente, come tali assoggettati a tassazione separata e a ritenuta d'acconto - fattispecie relativa a risarcimento del danno liquidato, ex art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, a seguito di licenziamento illegittimo – (Cass., 06/09/2013, n. 20482; per le indennità risarcitorie conseguenti a risoluzione del rapporto di lavoro v. Cass., sez. 5, 11/03/2003, n. 3582; Cass., sez. 5, 23/10/2006, n. 22803; Cass., sez. 5, 13/05/2009, n. 10972).
1.8. Tale principi erano già stati affermati in precedenza (Cass., 24 novembre 2010, n. 23795), con la precisazione che, in tema di imposte sui redditi di lavoro dipendente, dalla lettura coordinata degli artt. 6, comma secondo, e 46 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (sul primo dei quali nessuna innovazione deve ritenersi abbia apportato l'art. 32 del d.l. 23 febbraio 1995, n. 41, convertito nella legge 22 marzo 1995, n. 85), si ricava che, al fine di poter negare l'assoggettabilità ad IRPEF di una erogazione economica effettuata a favore del prestatore di lavoro da parte del datore di lavoro, è necessario accertare che la stessa non trovi la sua causa nel rapporto di lavoro e, se ciò non viene positivamente escluso, che tale erogazione, in base all'interpretazione della concreta volontà manifestata dalle parti, non trovi la fonte della sua obbligatorietà né in redditi sostituiti, né nel risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi futuri, cioè successivi alla cessazione od all'interruzione del rapporto di lavoro. In quel caso la Corte ha confermato la sentenza della Commissione tributaria regionale che aveva riconosciuto il diritto al rimborso dell'IRPEF ad un lavoratore per una somma erogatagli dal datore di lavoro, a seguito di transazione giudiziale, a titolo di danno morale e di danno all'immagine derivanti dalle particolari modalità con le quali era stato svolto e poi interrotto il rapporto di lavoro, trattandosi di ristoro di “danno emergente” relativo alla “integrità psicofisica” del lavoratore e alla sua reputazione professionale. Allo stesso modo non è assoggettabile a tassazione il pregiudizio subito dal lavoratore, a seguito della anticipata risoluzione del rapporto di lavoro, per la propria immagine professionale, rientrante, dunque, nel danno emergente (Cass., sez. L, 02/09/2003, n. 2789; Cass., sez. L, 13/04/2004, n. 7043; Cass., sez. 5, 30/12/2008, n. 30433).
Pertanto, sono esclusi dalla tassazione di cui all'art. 6 del d.P.R. 917/1986 quegli importi che il lavoratore percepisca a titolo di ristoro del danno emergente, diverso dalla mancata percezione dei redditi, e non anche tutti gli indennizzi, originati dal rapporto di lavoro, volti a ristorare un lucro cessante (Cass., 12/10/2018, n. 25471), quindi “concretatosi” nella mancata percezione dei redditi (Cass., 29/12/2011, n. 29579; Cass., 26/04/2017, n. 10244, ove sono state ritenute tassabili le somme corrisposte dal Comune in esecuzione della condanna dell'ente al risarcimento dei danni, a seguito dell'annullamento della delibera di esclusione da un concorso pubblico, nel periodo tra la data di ipotetica assunzione e quella di assunzione ad altro impiego pubblico, in quanto somme dirette a reintegrare un danno consistente nella mancata percezione dei redditi).
1.9. È stato, quindi, ritenuto non tassabile il risarcimento del danno ottenuto da un dipendente da “perdita di chance”, consistente nella privazione della possibilità di sviluppi e progressioni nell'attività lavorativa a seguito dell'ingiusta esclusione da un concorso per la progressione in carriera (Cass., 29/12/2011, n. 29579).
2. Prima di affrontare nel merito il motivo di ricorso articolato dall’Agenzia delle entrate per violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., con particolare riferimento agli artt. 115 cod. proc. civ., 41 cod. pen. e 6, 67 e 68 del d.P.R. n. 917 del 1986, ci si deve soffermare sulla eccezione sollevata dalla controricorrente di inammissibilità del ricorso, sia per difetto di autosufficienza, sia per mancata indicazione delle norme di ermeneutica contrattuale eventualmente violate.
2.1. Va rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione sollevata dalla controricorrente, sia per carenza di autosufficienza, sia con riferimento alla omessa indicazione nel motivo di ricorso per cassazione delle norme di ermeneutica contrattuale eventualmente violate dal giudice d’appello (art. 1362 e ss. cod. civ.), in quanto l’Agenzia ricorrente, pur senza indicare nella rubrica del motivo gli articoli del codice civile asseritamente violati, in tema di interpretazione del negozio, ha comunque dedotto l’erronea interpretazione da parte della Commissione regionale del contenuto della sentenza del giudice civile di Milano. Per la Commissione regionale, infatti, il danno riconosciuto dal giudice civile del tribunale di Milano, con la sentenza n. 10500 del 2006, per la somma di euro 100.121.883,83, atteneva esclusivamente al danno patrimoniale, essendo stata demandato al giudice penale l’accertamento del danno non patrimoniale, inteso come “danno morale”, come emerge dal contenuto della sentenza del giudice civile riportato nel ricorso per cassazione (cfr. pagina 10 del ricorso per cassazione “il tribunale osserva che l’attrice ha espressamente riservato la pretesa risarcitoria del danno morale alla sede penale; per evitare duplicazioni di risarcimento va chiarito cosa si debba intendere per danno morale, e come si differenzia da altre tipologie di danno… Ciò precisato, deve ritenersi riservato alla valutazione in sede penale non l’intero danno non patrimoniale, bensì solo quello morale soggettivo; […] nella specie il tribunale ritiene che l’attrice non abbia allegato, prima ancora che provato in modo sufficiente gli aspetti esistenziali attinenti a diritti costituzionalmente garantiti del pregiudizio di cui richiede il ristoro, avendo, invero, offerto a questo proposito un’esposizione del tutto generica. La domanda va, peraltro, respinta”).
2.2. Pertanto, da un lato, si rileva che la motivazione della sentenza del giudice civile di Milano è stata trascritta, quasi nella sua integralità (ed è stata prodotta in forma integrale nel giudizio di cassazione), e comunque nei passaggi essenziali, nel motivo di ricorso per cassazione articolato dall’Agenzia delle entrate, e, dall’altro, che il successivo accordo di transazione, stipulato subito dopo il deposito della sentenza del tribunale civile di Milano, pur se non trascritto nei suoi stralci essenziali, è stato prodotto in forma integrale nel giudizio di cassazione, ed ha determinato esclusivamente una limitazione dell’importo risarcitorio, sceso da euro 100.121.983,73 ad € 95.000.000,00, ricomprendendo, però, sia il danno patrimoniale che il danno non patrimoniale (cfr. pagina 12 del ricorso per cassazione “come si evince dall’accordo transattivo delle società A. s.p.a. e FN. s.p.a., al fine di definire le pendenze in corso di giudizio, riconoscono alla S.V. l’importo complessivo di euro 95.000.000,00, ripartito al 50% tra le 2 società, quale risarcimento per i danni patrimoniali e morali dalla stessa subiti”).
2.3. Il tribunale di Milano (sentenza 10500 del 2006), poi, distingue dal danno patrimoniale il danno non patrimoniale, che ricomprende il danno biologico, il danno morale soggettivo e il danno esistenziale; il danno non patrimoniale, con riferimento alla lesione dei valori della persona costituzionalmente garantiti, ed aspetti esistenziali, doveva essere adeguatamente allegato e provato. Il giudice ha ritenuto che doveva ritenersi “riservato alla valutazione in sede penale non l’intero danno non patrimoniale, bensì solo quello morale soggettivo”. Quanto al danno esistenziale riteneva che lo stesso non fosse stato allegato e provato. Pertanto, riteneva che “l’attrice non abbia allegato, prima ancora che provato, in modo sufficiente gli aspetti esistenziali attinenti a diritti costituzionalmente garantiti del pregiudizio di cui chiede ristoro, avendo, invero, offerto a questo proposito un’esposizione del tutto generica”.
2.4. Si legge nella transazione del 25 ottobre 2006, depositata in atti, che “1) le parti dichiarano reciprocamente di rinunciare ad avvalersi di tale sentenza; conseguentemente le parti che hanno proposto appello rinunciano all’impugnativa e MG [M. G.] non proporrà appello e non si avvarrà del precetto notificato ai fini di cui all’articolo 481 c.p.c.;2) la causa pendente viene abbandonata ex articolo 309 c.p.c.; le spese liquidate a favore dell’attrice sono pagate dei convenuti e per essi dal convenuto dagli stessi prescelto;3) A. e D., per parte loro, rinunciano alla rifusione delle spese liquidate dalla sentenza; 4) l’imposta di registro relativa alla sentenza si intende a carico dei convenuti; 5) salva la piena esecuzione del presente accordo, e tenuto conto del separato atto che interviene fra FN. e A. e MG [M. G.] in data odierna, le parti dichiarano -anche in via di transazione generale - di non avere più nulla a pretendere l’una verso l’altra, per nessun titolo o ragione derivante o comunque dipendente da quelli dedotti e/o deducibili nel giudizio e, in ogni caso, vi rinunciano; 6) le parti si impegnano a far sì che i loro difensori nel giudizio si comunichino reciprocamente la rinuncia alla solidarietà nelle spese ex articolo 68 l.p.f.; 7) qualsiasi controversia derivante dall’interpretazione e/o esecuzione del presente accordo è sottoposta alla competenza esclusiva del foro di Milano”.
Tra l’altro, a conferma della piena autosufficienza del ricorso, si rileva che sia la sentenza del tribunale civile di Milano n. 10550 del 2006 sia l’accordo transattivo del 25 ottobre 2006 sono stati depositati dalla contribuente controricorrente in sede di legittimità.
3. Tornando al merito della controversia, si ribadisce, tenendo conto degli insegnamenti di legittimità prima esposti, che le somme percepite dalla contribuente a titolo risarcitorio sono soggette a tassazione solo se, e nei limiti in cui risultino destinate a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi, mentre non sono assoggettabili a tassazione i risarcimenti intesi a riparare un pregiudizio di natura diversa (Cass., sez. 5, 21/02/2019, n. 5108; Cass., sez. 5, 13/05/2009, n. 10972). In particolare, si precisa che la normativa tributaria, diversamente da quella civilistica, prende in considerazione i compensi risarcitori in relazione alla loro “specifica destinazione funzionale”, dovendosi, quindi, distinguere tra i compensi volti alla mera reintegrazione dell'originaria situazione patrimoniale del danneggiato lesa dall'inadempimento imputabile (che, non potendosi considerare in alcun modo reddito, sono insuscettibili di tassazione – danno emergente -) e quelli, invece, destinati a sostituire i redditi non prodotti o perduti dal danneggiato in conseguenza del predetto inadempimento (lucro cessante), i quali, per la loro natura di risarcimento in funzione surrogatoria del reddito imponibile, vanno sottoposti a tassazione (Cass., sez. 5, 30/11/2011, n. 25499).
4. Deve tenersi conto, a questo punto, del contenuto dell’avviso di accertamento emesso dalla Agenzia delle entrate in base al quale “l’accordo transattivo - oltre che ridurre l’importo del danno da risarcire - modifica in parte la natura del danno risarcibile andando a riconoscere un’aliquota non determinata di danno morale che, però, la sentenza del tribunale ha escluso categoricamente. Tale modifica convenzionale (il riconoscimento di un danno morale) non può ritenersi opponibile a questa Amministrazione in quanto non trova titolo nella sentenza di condanna al risarcimento. Tali somme, infatti, sono da considerarsi quale plusvalenza derivante da cessione di partecipazioni qualificate, in quanto corrispondenti al reale valore a cui la S.V. avrebbe potuto cedere le proprie partecipazioni nel 2000. Questo importo, la cui funzione risarcitoria è stato acclarata dal Tribunale, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 6, comma 2, del Tuir, costituisce reddito della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti. Nella specie trattandosi di somme che rappresentano il valore della partecipazione alla data della cessione a favore della U., esse quantificano quella che sarebbe stato l’ulteriore plusvalenza che la S.V. avrebbe realizzato se avesse ceduto le proprie partecipazioni in condizioni normali. Tale somma, quindi, va trattata come plusvalenza da cessione di partecipazioni qualificate, ex articolo 67, comma 1, lettera c, Tuir, le quali concorrono alla formazione del reddito imponibile nella misura del 40%, art. 68, comma 3, Tuir”.
5. Tenendo conto della peculiarità dei concetti di “danno emergente” e “lucro cessante” in ambito tributario, governato dal principio della tassazione solo del danno patrimoniale sostitutivo di reddito, inteso, appunto, quale lucro cessante, mentre non è assoggettabile a tassazione il risarcimento che mira unicamente a ristorare il danno emergente, senza alcuna attinenza al reddito, ed alla sua sostituibilità, deve osservarsi che effettivamente il giudice di appello è incorso negli errori di diritto contestati dalla ricorrente.
5.1. Non v'è dubbio che sono circostanze di fatto pacifiche quelle riportate in precedenza, sicché deve convenirsi che i danni siano stati cagionati dalla delibera di aumento di capitale delle società FI. e FN., dalla modesta somma di lire 200.000.000 a quella imponente di lire 50.200.000.000, in violazione tra l'altro delle di raccolta generale 5275/2022 Data pubblicazione 17/02/2022 obbligazioni di cui ai patti parasociali. In tal modo la quota della contribuente è stata “polverizzata” e “diluita”, passando dal 20% a percentuali irrisorie (lo 0,31% di FI. e lo 0,16% di FN.). Tale condotta illecita ha causato due conseguenze, una immediata (di primo grado) ed una mediata (di secondo grado), entrambe radicate nell'unico presupposto di danno costituito dalla richiamata delibera di aumento di capitale; infatti, da un lato, lo sfaldamento della quota di partecipazione ha provocato una perdita di valore della stessa, che é stata sostanzialmente “azzerata”; ma dall'altro, la G. è stata indotta a chiedere un finanziamento alla banca U. per poter acquistare le nuove quote in aumento, stipulando un accordo anche per la cessione delle quote stesse all'ente finanziatore. Ad un unico presupposto causale si sono collegati, dunque, due effetti dannosi, strettamente connessi ed interdipendenti tra loro.
Il danno, allora, non può dirsi limitato in via esclusiva, alla perdita di valore della quota a causa dell'aumento di capitale, in modo da considerare le somme versate a titolo risarcitorio come mera copertura di tale diminuzione patrimoniale, senza configurazione di alcun reddito; al contrario, oltre alla perdita di valore della quota, deve tenersi conto, ai fini tributari, della condotta della contribuente volta alla cessione delle azioni. Tale condotta non è del tutto disancorata dal presupposto iniziale, quasi da costituire un fatto interruttivo del nesso causale, ma si inserisce a pieno titolo nella catena causale originata dall'unico fatto generatore di danno costituito dall'aumento di capitale, anche in violazione delle obbligazioni contenute nei patti parasociali.
5.2. La motivazione della sentenza civile del tribunale di Milano chiarisce che la controffensiva della contribuente ha mirato a contenere l’effetto dannoso della mancata sottoscrizione dell’aumento di capitale nella peggiore delle prospettive “ovvero in quella in cui U. avesse esercitato l’opzione per l’acquisto immediato di tutta la sua partecipazione”; in tal caso “ era certa quantomeno di ottenere dall’acquirente in termini di prezzo il valore minimo attribuito alla sua partecipazione dallo stesso consulente (studio Tamburi) che con U. l’aveva messa in contatto, ovvero 180.000.000.000 di lire” (cfr. pagina 46 della motivazione della sentenza civile). Pertanto, M. G. ha agito in giudizio per ottenere il pieno ristoro dei danni subiti “sostenendo di aver dovuto vendere ad U. una partecipazione che in quel contesto, aveva un valore notevolmente ridotto rispetto a quello che la stessa partecipazione avrebbe avuto nell’ipotesi in cui il fatto pregiudizievole non si fosse verificato” (cfr. pagina 46 della motivazione della sentenza civile). Il danno consisteva allora nella “differenza tra il valore di un terzo del 60% della C., incrementato dell’ulteriore patrimonio di FI. e FN., e il prezzo incassato da U. “.
Del resto, che il prezzo fosse ridotto rispetto all’effettivo valore commerciale era circostanza pienamente conosciuta dalla U., come risultava dall’”executive sommary” riservato del 17 febbraio 2000 (“ M. G. è costretta a vendere al più presto per 2 motivi: 1) il rapporto con suo fratello azionista di maggioranza…della D. C., è irrecuperabile… 2) non ha un soldo e suo fratello si appresta ad approvare un aumento di capitale sia di FN. che di FI. per un totale di 100.000.000.000 di lire allo scopo di azzerare la sua quota [….] detta situazione spiega perché il prezzo proposto della transazione, cioè lire 180.000.000.000 per il 18.6. della D. C., corrisponde a 4,0 X 1998 pro forma Ebit….”; pagina 46 della motivazione della sentenza civile).
6. In realtà, come si preciserà meglio anche in seguito, ciò che rileva ai fini della qualificazione delle somme percepite dalla G., a seguito della sentenza del tribunale civile di Milano n. 10550 del 2006 e della successiva transazione, non è la “volontarietà” o meno della cessione delle azioni da parte della contribuente ad U. in data 21 maggio 2000, o il carattere “forzoso” di tale cessione, ma esclusivamente la natura del danno risarcito, ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n. 917 del 1986, se “danno emergente”, quindi del tutto slegato dal reddito, oppure se “lucro cessante”, connotato dal sua caratteristica essenziale di essere “sostitutivo di reddito”. Erroneamente, quindi, la CTR ha fondato il cuore della motivazione sulla mancanza di volontà della G. di cedere le proprie azioni (cfr. motivazione della Commissione regionale “si osserva che non vi è alcun collegamento tra il risarcimento e la cessione volontaria delle partecipazioni, smentito per altro dalla sentenza civile, cessione forzata…”).
6.1. Il giudice di merito, dunque, per compiere in modo idoneo il proprio accertamento di fatto, dovrà valutare nuovamente gli elementi posti alla sua attenzione; in particolare, potranno essere valorizzate anche specifiche circostanze di fatto, come la mancata impugnazione delle delibere assembleari del 9 marzo 2000, con cui si è disposto l’aumento di capitale sociale da lire 20.000.000,00 a lire 5.200.000.000,00; la mancanza della richiesta di annullamento del negozio stipulato con la banca U. per la possibile esistenza di un vizio della volontà.
7. Inoltre, il giudice di appello laddove ha ritenuto che la condotta della contribuente ha interrotto il nesso causale, ponendosi come serie causale del tutto autonoma rispetto ai fatti che l'hanno preceduta, ha violato l'art. 41 cod. pen. (cfr. pag. 3 della motivazione della CTR “Si osserva che non vi è alcun collegamento tra il risarcimento e la cessione volontaria delle partecipazioni, smentito peraltro dalla sentenza civile, cessione forzata, in quanto avvenuta di raccolta generale 5275/2022 Data pubblicazione 17/02/2022 al solo scopo di contenere il danno patrimoniale dell’appellante”). In realtà, nella disciplina tributaria, in tema di plusvalenza, rileva il fatto oggettivo della operazione realizzata, a prescindere dalla specifica intenzione del soggetto che pone in essere l’operazione e, quindi, dal “motivo” soggettivo che lo ha condotto ad approntare la sua iniziativa “produttiva di reddito”.
8. Inoltre, quanto alla dedotta violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., neppure può ritenersi che il motivo di ricorso sia inammissibile perché il giudice di appello si è limitato ad interpretare il dictum della sentenza del tribunale di Milano, sicché la ricorrente avrebbe dovuto dedurre la violazione dell'art. 12 disp. prel. cod. civ. sull'interpretazione della legge (eccezione sollevata con il controricorso) oppure degli artt. 1362 cod. civ. e ss. (eccezione sollevata con la memoria dalla contribuente). Infatti, in realtà, trattandosi di fatti del tutto pacifici tra le parti, correttamente la ricorrente ha invocato la violazione del principio di non contestazione. Le circostanze di fatto sono ormai del tutto chiare per le parti, mentre resta affidata al giudice di merito ogni valutazione in ordine alla condotta oggettiva realizzata dalla contribuente, al fine di verificarne la corretta qualificazione in termini di danno emergente o di lucro cessante.
9. Dovrà essere valutata dal giudice di merito la tesi della controricorrente per cui la cessione delle quote alla U. non è altro che il tentativo di limitare i danni da parte della G., secondo l'ordinaria diligenza, rientrando quindi nel disposto dell'art. 1227, secondo comma, cod. civ. (concorso del fatto colposo del creditore). Tuttavia, anche tale giudizio deve essere calato nello specifico settore tributario della tassazione della plusvalenza da cessione di partecipazioni.
La G. avrebbe potuto instaurare un giudizio di danni nei confronti dei familiari oppure chiedere provvedimenti di urgenza per evitare l'aumento di capitale, oppure presentare denuncia al tribunale per gravi irregolarità ai sensi dell'art. 2409 cod. civ., ove sussistenti i relativi presupposti, o ancora presentare denunzia al Pubblico Ministero per quanto di competenza. La contribuente ha, invece, optato per la cessione delle partecipazioni alla U., al fine di conseguire il necessario finanziamento, con diritto di call, e per una successiva azione di risarcimento dei danni, sia in forma specifica che per equivalente.
Ciò che rileva, ai fini tributari, è l’avvenuta cessione delle quote di partecipazione da parte della contribuente in favore di U.; se il risarcimento conseguito da parte del tribunale civile di Milano n.10550 del 2006, a seguito di tale operazione, a prezzo “vile”, di molto inferiore rispetto a quello reale, ha costituito un danno emergente, non è assoggettabile a tassazione ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n. 917 del 1986; se, invece, ha rappresentato un lucro cessante, in quanto “sostitutivo di reddito”, è assoggettabile a tassazione quale forma di “integrazione” della “plusvalenza”, ai sensi degli articoli 6, secondo comma, e 67, primo comma, lettera c), del d.P.R. n. 917 del 1986. Tali norme, infatti, prevedono l’applicazione del tributo, relativo alla plusvalenza, esclusivamente in seguito al presupposto oggettivo della vendita e della percezione di un prezzo (o di un risarcimento che tenga luogo del prezzo, ex art. 6, secondo comma, del d.P.R. n. 917 del 1986), che realizzi una plusvalenza da calcolarsi come differenza tra il prezzo di acquisto e quello di rivendita.
10. L’atto di disposizione patrimoniale, compiuto dalla contribuente, seppure collegato ovviamente all’aumento di capitale da parte dei propri familiari, va scrutinato nella sua oggettività, sempre all’interno, però, delle macrocategorie del danno emergente e del lucro cessante, nella loro peculiare accezione propria del settore tributario, con la dicotomia legata alla funzione risarcitoria, se in regime di “sostituzione” del reddito o meno.
Pertanto, non può essere condivisa la decisione della CTR che ha affermato l’assenza di collegamento tra risarcimento dei danni e la cessione volontaria delle partecipazioni, in quanto tale cessione sarebbe stata “forzata”, in quanto avvenuta al solo scopo di contenere il danno patrimoniale dell’appellante. L’obiettivo della G., per il giudice di appello, non era quello di vendere le quote, ma di ottenere un finanziamento che le consentisse di sottoscrivere l’aumento di capitale.
11. Tra l’altro, la somma riconosciuta in sede civile, a titolo di risarcimento, pari ad euro 100.121.883,83, riguardava esclusivamente il danno patrimoniale. L’accordo transattivo stipulato successivamente tra le parti, con riduzione dell’importo a 95.000.000,00 di euro, a titolo però, sia di danni patrimoniali che di danni morali, non è opponibile all’Amministrazione, in quanto non trova giustificazione nella sentenza di condanna al risarcimento.
12. Né rileva in questa sede la sentenza di assoluzione della contribuente del Tribunale penale di Milano depositata in data 3 luglio 2013, con attestazione del passaggio in giudicato.
Invero, per questa Corte, in materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l'accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dall'art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna; ne consegue che il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l'esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie, ma, nell'esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 cod. proc. civ.), deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli elementi di prova acquisiti al giudizio (Cass., sez. 6-5, 24/11/2017, n. 28174).
13. Neppure rileva in questa sede la sentenza pronunciata in data 2 luglio 2021 (n. 18770/2021) da questa Corte, che ha sostanzialmente rigettato la richiesta dei familiari della G. di ridimensionare l’importo delle somme a lei versate a titolo di risarcimento dei danni, a seguito della transazione stipulata tra le parti il 25 ottobre 2006, essendo stata scoperta nel 2012 una donazione effettuata il 31 maggio 2000 dalla G. in favore del suo convivente more uxorio C. G.; pertanto, i familiari della G. hanno evidenziato che, al momento della vendita delle partecipazioni ad U., in realtà la metà delle azioni era nella titolarità di altro soggetto, con conseguente richiesta di riduzione del pagamento dovuto in base alla transazione. Tale sentenza è stata resa nei confronti di parti diverse dall’Amministrazione finanziaria e, soprattutto, per una condotta differente da quella oggetto del giudizio tributario, ossia la avvenuta donazione della metà delle azioni da parte della G. prima della cessione delle stesse ad U..
14. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, con rinvio alla commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, che si atterrà al seguente principio di diritto:<<Il risarcimento del danno conseguente alla cessione di azioni a prezzo vile, a causa della condotta degli altri soci connotata da abuso di maggioranza, in violazione dell’art. 1375 cod. civ., come accertata dal giudice civile con sentenza definitiva, può costituire plusvalenza ai sensi degli artt. 67 e 68 del d.P.R. n. 917 del 1986, assoggettabile a tassazione, esclusivamente nell’ipotesi in cui tale cessione, a prescindere dalla situazione soggettiva del disponente, in termini di volontarietà o meno del compimento dell’atto, sia qualificabile come lucro cessante, e quindi, come voce sostitutiva di reddito, restando invece esente in caso di configurabilità del risarcimento come mero danno emergente”, e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.