Gli Ermellini pronunciano nuovi principi di diritto in tema di violazione dell'articolo 2909 del Codice di rito nei giudizi di opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi con riferimento alla cosa giudicata corrispondente al titolo esecutivo.
Nell'ambito di un contenzioso in materia di contributi previdenziali, con la sentenza n. 5633 del 21 febbraio 2022, le Sezioni Unite hanno espresso i seguenti principi di diritto in tema di giudicato:
- «ove risulti denunciata la violazione dell'
art. 2909 cod. civ. nei...
Svolgimento del processo
1. Con ricorso ai sensi dell’art. 442 cod. proc. civ. G.L. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Foggia – sezione lavoro l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (I.N.P.S.) chiedendo, fra l’altro, che fosse dichiarato «il diritto di parte ricorrente ad essere iscritta, ai sensi del R.D. n. 1949/40 e successive modificazioni, nell’elenco nominativo dei lavoratori agricoli del Comune di Trinitapoli dell’anno 2007 per n. 156 giornate lavorative» e «conseguentemente condannare l’I.N.P.S. a rettificare i suddetti elenchi e ad accreditare a parte ricorrente 156 contributi giornalieri per l’anno 2007». Con sentenza n. 6567 del 2010 il giudice adito dichiarò, in accoglimento del ricorso, il diritto della parte ricorrente all’iscrizione negli elenchi dei lavoratori agricoli a tempo determinato come da domanda. Con atto di precetto il L. intimò all’I.N.P.S. di eseguire quanto statuito dalla suddetta sentenza, nel frattempo passata in cosa giudicata e, decorso inutilmente il termine d’intimazione, propose ricorso ai sensi dell’art. 612 cod. proc. civ. al Giudice dell’esecuzione per la determinazione delle modalità dell’esecuzione forzata. A seguito della successiva spontanea iscrizione del L. negli elenchi anagrafici, l’esecutante chiese che fosse dichiarata l’estinzione del processo esecutivo, con la liquidazione delle relative spese, ed il Giudice dell’esecuzione, rilevato al solo fine della liquidazione delle spese processuali che il titolo esecutivo era relativo a domanda di accertamento e che idoneo a fondare l’esecuzione ai sensi dell’art. 612 cod. proc. civ. era solo il provvedimento di condanna e non anche quello di accertamento, dichiarò la cessazione della materia del contendere, con l’estinzione della procedura, e ravvisò giusti motivi per la compensazione delle spese.
2. Avverso l’ordinanza del Giudice dell’esecuzione propose opposizione agli atti esecutivi il L. con riferimento alla pronuncia di compensazione delle spese. Con sentenza di data 21 aprile 2015 il Tribunale di Foggia, in accoglimento dell’opposizione, dispose la revoca dell’ordinanza impugnata e condannò l’I.N.P.S. al pagamento delle spese del processo esecutivo, liquidate per Euro 1.800,00 oltre accessori di legge, nonché alla rifusione delle spese del giudizio di opposizione. Osservò il Tribunale che la sentenza n. 6567 del 2010 era suscettibile di esecuzione forzata ai sensi dell’art. 612 cod. proc. civ. avendo l’opponente proposto una domanda di condanna al ripristino della sua posizione assicurativa mediante la reiscrizione negli elenchi nominativi annuali degli operai agricoli. Aggiunse che, in assenza di eccezioni dell’I.N.P.S., il Giudice dell’esecuzione aveva, ai fini della decisione sul capo delle spese, rilevato d’ufficio questioni, dichiarando la cessazione della materia del contendere senza provocare il contradditorio fra le parti e consentire all’opponente di dimostrare la legittimità dell’azione intrapresa e che pure per tale profilo il provvedimento impugnato doveva essere revocato. Osservò infine che la disposta compensazione delle spese per la ricorrenza di “giusti motivi” era priva dell’indicazione delle ragioni a sostegno della detta decisione.
3. Ha proposto ricorso per cassazione l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale sulla base di due motivi. Resiste con controricorso la parte intimata. È stata depositata memoria di parte.
4. Con ordinanza interlocutoria n. 12944 di data 13 maggio 2021, la Sezione Lavoro ha rimesso la causa al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite per la presenza di una questione di massima di particolare importanza. Il ricorso è stato quindi assegnato alle Sezioni Unite.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ.. Premette la parte ricorrente di essere consapevole dell’orientamento della giurisprudenza secondo cui è precluso alla Suprema corte il sindacato sull’interpretazione che il giudice di merito abbia fornito al comando giudiziale, ma precisa che lo stesso orientamento in discorso afferma che spetta alla Corte stabilire se l’interpretazione della sentenza sia stata svolto nel rispetto dei principi che regolano tale giudizio ed in funzione della concreta attuazione del comando che nella sentenza è contenuto. Osserva quindi che, mentre nell’ordinanza del Giudice dell’esecuzione si evidenzia la natura esclusivamente dichiarativa della sentenza n. 6567 del 2010, oggetto della valutazione del Tribunale è stato non il contenuto della sentenza ma la domanda introduttiva del relativo giudizio. Aggiunge che è stato omesso l’esame di un fatto determinante per la risoluzione della controversia, decisivo perché, ove si reputasse la sentenza, passata in cosa giudicata, sentenza di mero accertamento non avrebbe potuto la parte intraprendere l’esecuzione ai sensi dell’art. 612 cod. proc. civ.
2. Con il secondo motivo si denuncia violazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che, contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata, nel provvedimento opposto ai sensi dell’art. 617 cod. proc. civ. la motivazione concernente la natura di accertamento della sentenza era stata enunciata espressamente al solo fine di liquidare le spese processuali e che la declaratoria di cessazione della materia del contendere non esime il giudice dalla regolamentazione delle spese, valutando l’eventuale ricorrenza dei motivi di compensazione.
3. Il primo motivo è fondato. Va premesso che la censura è stata proposta nelle forme della denuncia del vizio motivazionale sulla base dell’assunto che entro tali limiti ricorre il sindacato di questa Corte alla stregua del corrente orientamento giurisprudenziale. Non può tuttavia sfuggire che lo scopo per il quale risulta evocata questa Corte è garantire, come si legge nel motivo di ricorso, la «concreta attuazione del comando che nella sentenza è contenuto» (pag. 6 del ricorso). Richiamando in particolare il provvedimento del giudice dell’esecuzione, la censura sottende una denuncia di non corretta lettura del titolo giudiziale, in funzione di attuazione dell’effettivo comando giudiziale. La formulazione in termini di art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ. deriva dall’assunzione in premessa di quale sia l’indirizzo della giurisprudenza in punto di violazione del titolo esecutivo giudiziale nei giudizi di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi. E’ la presenza di tale indirizzo giurisprudenziale che ha condizionato la formulazione del motivo. Se si guarda però allo scopo reale del motivo di ricorso, si intende che ciò che al fondo il ricorrente denuncia è la violazione della portata del titolo esecutivo giudiziale e tale sarebbe stata la denuncia anche sul piano formale se l’orientamento di questa Corte sul punto fosse stato finora diverso. La censura può dunque essere riqualificata nei termini della violazione della norma di diritto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., alla stregua di una lettura non formalista dei motivi di ricorso per cassazione (si veda Cass. Sez. U. 24 luglio 2013, n. 17931).
3.1. È peraltro proprio sulla questione se possa ancora essere mantenuto l’indirizzo giurisprudenziale presupposto dal motivo di ricorso che sono state evocate queste Sezioni Unite. Si afferma nell’ordinanza interlocutoria della Sezione Lavoro che, ove alla Corte di Cassazione fosse consentito procedere all’interpretazione del titolo esecutivo giudiziale, il primo motivo meriterebbe accoglimento stante la portata della sentenza n. 6567 del 2010 meramente dichiarativa del diritto dell’odierno controricorrente all’iscrizione negli elenchi annuali degli operai agricoli per il tempo e per l’anno indicato in ricorso, da cui l’inidoneità della detta statuizione a fondare l’azione esecutiva del tipo di quella intrapresa (così, da ultimo, Cass. 10 luglio 2019, n. 18572). Ove invece, continua l’ordinanza interlocutoria, la censura fosse circoscrivibile alla denuncia ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., giusta il principio secondo cui l’interpretazione del titolo esecutivo compiuta dal giudice dell’esecuzione o da quello chiamato a sindacarne l’operato nell’ambito delle opposizioni esecutive si risolve in un apprezzamento di fatto censurabile solo nei limiti del vizio motivazionale, il motivo di ricorso sarebbe infondato, come ritenuto in fattispecie sovrapponibile alla presente da Cass. n. 14921 del 2017, essendo stato esaminato il fatto di cui si denuncia l’omesso esame, e cioè la sentenza. Osserva quindi la Sezione Lavoro che, secondo il risalente orientamento della giurisprudenza, l’interpretazione del giudicato esterno quale titolo esecutivo giudiziale costituisce apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se immune da vizio motivazionale e che tale indirizzo è stato mantenuto anche dopo che Cass. Sez. U. 25 maggio 2001, n. 226 ha riconosciuto la possibilità per il giudice di legittimità di accertare l’esistenza e la portata anche ex officio, e con cognizione piena, del giudicato esterno, posto che, si è detto, in sede di esecuzione la sentenza passata in giudicato non opera come decisione della lite, bensì come titolo esecutivo che, al pari degli altri titoli esecutivi, va inteso come presupposto fattuale dell’esecuzione. Si aggiunge nell’ordinanza interlocutoria che l’orientamento secondo cui la sentenza nel processo esecutivo rileverebbe semplicemente come fatto è stato virtualmente superato da Cass. Sez. U. 9 maggio 2008, n. 11501 che, enunciando il principio di diritto secondo cui ai fini dell’interpretazione dei provvedimenti giurisdizionali si devono applicare in via analogica i canoni ermeneutici prescritti dagli artt. 12 e seguenti disp. prel. cod. civ. invece di quelli propri degli atti negoziali, ha direttamente proceduto all’interpretazione del titolo esecutivo posto a base dell’esecuzione intrapresa in quel giudizio, per cui deve concludersi che l’interpretazione sia del giudicato esterno che del titolo esecutivo giudiziale operate dal giudice di merito costituiscono quaestiones iuris da sindacare nell’ottica della violazione di legge.
3.2. L’ordinanza interlocutoria dà atto del costante orientamento di questa Corte nel senso che l’interpretazione della sentenza costituente titolo esecutivo da parte del giudice dell’opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi costituisce interpretazione del giudicato esterno al giudizio e si risolve in un giudizio di fatto censurabile in Cassazione solo se siano stati violati i criteri giuridici che regolano l'estensione ed i limiti della cosa giudicata o se ricorra vizio di motivazione. Si tratta di indirizzo assai risalente nel tempo, per il quale si rinvengono arresti notevolmente lontani come Cass. n. 2565 del 1957 e Cass. n.2834 del 1960, e che si è mantenuto inalterato e costante, fino a recenti manifestazioni come Cass. n. 10806 del 2020, n. 32196 del 2018 e n. 29778 del 2018. Si tratta dunque di un indirizzo che ha tutti i requisiti per poter essere definito come consolidato. La particolare forza di tale orientamento si misura proprio dalla resistenza opposta a quello che avrebbe potuto rappresentare il punto di svolta della giurisprudenza in argomento, e cioè Cass. Sez. U. 25 maggio 2001, n. 226. Questa sentenza, per affermare il principio della rilevabilità d’ufficio del giudicato esterno (al pari del giudicato interno) anche in Cassazione (con il limite della pronuncia sul giudicato, la quale impone l’impugnazione sulla questione), riconobbe che «il giudicato è la legge del caso concreto» (prima nel mondo sostanziale e poi in quello processuale) e che pertanto la relativa questione rientra nella sfera delle questioni di diritto e non di fatto. Si affermò in particolare che «il giudicato non è assimilabile né ad un negozio, né in genere ad un atto giuridico, poiché la sua efficacia opera ad un livello diverso da quello in cui invece opera l'efficacia dei negozi e degli atti giuridici. L'essenza del giudicato è costituita da un comando o precetto, il quale rende certa la situazione giuridica concreta. Il giudicato non deve essere incluso nel fatto e, pur non identificandosi nemmeno con gli elementi normativi astratti, è da assimilarsi, per la sua intrinseca natura e per gli effetti che produce, a tali elementi normativi. La conseguenza è che l'interpretazione del giudicato deve essere trattata piuttosto alla stregua dell'interpretazione delle norme che non alla stregua dell'interpretazione dei negozi e degli atti giuridici». Dopo tale pronuncia è ius receptum che il giudicato esterno sia direttamente accertabile in sede di legittimità con cognizione piena, comprensiva dell’esame diretto degli atti. Particolarmente significativa negli sviluppi della giurisprudenza di queste Sezioni Unite è Cass. sez. U. 28 novembre 2007, n. 24664 che, dalle premesse della rilevabilità d’ufficio del giudicato esterno nel giudizio di legittimità e della interpretazione alla stregua delle regole ermeneutiche delle norme e non dei negozi giuridici, fece discendere il corollario che l’interpretazione del giudicato operata dal giudice di merito rappresenta non un apprezzamento di fatto, ma una quaestio iuris, sindacabile perciò in sede di legittimità non per il profilo del vizio di motivazione, ma nell’ottica della violazione della norma di diritto. Il giudice di legittimità può quindi direttamente accertare la portata del giudicato esterno, in modo indipendente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice di merito, nel quadro della violazione del diritto sostanziale (da ultimo, nel senso della sindacabilità in sede di legittimità degli errori di interpretazione del giudicato esterno da parte del giudice di merito sotto il profilo della violazione di legge, Cass. 29 novembre 2018, n. 30838). Successivamente Cass. Sez. U. 9 maggio 2008, n. 11501 ha esteso la regola ermeneutica del giudicato ai provvedimenti assimilabili a quest’ultimo, quale il titolo esecutivo giudiziale corrispondente all’ordinanza di liquidazione del compenso al CTU, nel giudizio di opposizione all’esecuzione ed agli atti esecutivi, per la comune vis imperativa ed indisponibilità per le parti. Non può dirsi però, come si afferma nell’ordinanza interlocutoria, che nell’arresto in discorso la Suprema corte sia approdata, nella composizione di queste Sezioni Unite, al principio di diritto della diretta accertabilità in sede di legittimità del contenuto di titolo esecutivo giudiziale in giudizio di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi e ciò non solo per il richiamo nella motivazione di quella pronuncia a precedenti conformi all’indirizzo tradizionale (Cass. n. 552 del 2001 e n. 12117 del 206), ma anche e soprattutto perché la Corte si limitò a correggere la motivazione della decisione impugnata, reputando il relativo dispositivo conforme a diritto perché l’interpretazione mediante i criteri ermeneutici contrattuali risultò sorretta da argomenti compatibili anche con i canoni dell'esegesi di cui all'art. 12 preleggi. Del resto il contrasto per cui le Sezioni Unite risultavano evocate, su sollecitazione peraltro dello stesso ricorrente, aveva ad oggetto i criteri ermeneutici, per cui l’approdo restava fermo nei termini della sindacabilità in sede di legittimità del rispetto delle regole di ermeneutica ma non della stessa interpretazione del titolo esecutivo giudiziale, a parte naturalmente la denuncia di vizio motivazionale. È invece la giurisprudenza delle sezioni semplici che, prendendo espressamente posizione sulla svolta rappresentata da Cass. Sez. U. 25 maggio 2001, n. 226, ha consapevolmente mantenuto fermo l’indirizzo tradizionale della non sindacabilità in sede di legittimità del risultato interpretativo del titolo esecutivo giudiziale, nel giudizio di opposizione all’esecuzione ed agli atti esecutivi, in quanto accertamento di fatto spettante al giudice di merito. La posizione assunta da Cass. 21 novembre 2001, n. 14727, all’indomani di Cass. sez. U. n. 226 del 2001, non ha subito variazioni fino alla odierna ordinanza interlocutoria per cui nella giurisprudenza di questa Corte, nonostante l’indicata evoluzione delle Sezioni Unite, resta fermo che il giudice di legittimità non può interpretare il titolo esecutivo giudiziale nei procedimenti oppositivi, restando il provvedimento giurisdizionale incluso nel fatto e rimesso pertanto all’apprezzamento riservato al giudice di merito. L’argomento che si fa valere è che «in questo caso la sentenza, passata in giudicato, non opera come decisione della lite (o di parte di essa) pendente davanti a quel giudice e che lo stesso avrebbe il dovere di accertare e decidere (se non fosse stata già decisa), ma come titolo esecutivo, in un procedimento, quale è quello esecutivo, che non ha la funzione di accertare e decidere su una res litigiosa, ma solo di porre in esecuzione un titolo già costituito. La lite è stata già decisa nel processo di cognizione ed in quel processo è già stato dato il "comando". Non vi è quindi né la possibilità di un contrasto di giudicati, né di violazione del principio del ne bis in idem. …Quindi la sentenza, passata in giudicato, non costituisce il momento terminale della funzione cognitiva del giudice, né è possibile che vi sia una nuova pronuncia, ma il presupposto del processo esecutivo, ove fondato sulla stessa e non su un diverso titolo. Qui la sentenza, passata in giudicato, opera come un fatto, come in tal senso opera il titolo di credito o l'atto notarile, tant'è che qui non è possibile neppure concepire un giudicato interno a fronte del giudicato esterno, per poi affermarne l'identità con le ulteriori conseguenze suddette». Secondo tale impostazione l’oggetto del processo di cognizione instaurato con l’opposizione (all’esecuzione o agli atti esecutivi) non è dunque più la res litigiosa definita con la sentenza costituente titolo esecutivo, ma è il contenuto e la portata del titolo esecutivo, o altre questioni rilevanti, rispetto a cui il titolo esecutivo medesimo è soltanto il presupposto fattuale. In conclusione, l’argomento fondante ai fini dell’esclusione dell’interpretazione in sede di legittimità del titolo esecutivo giudiziale nei procedimenti oppositivi è che la fattispecie dedotta in giudizio mediante l’opposizione non è retta dal diritto sostanziale enunciato dal provvedimento giurisdizionale costituente il presupposto dell’azione esecutiva. Che la res litigiosa nell’opposizione sia diversa da quella da cui è germinato il titolo esecutivo giudiziale rappresentato dal giudicato non è tuttavia argomento sufficiente per includere quest’ultimo negli elementi di fatto ricadenti nel giudizio riservato al giudice di merito. Tradisce la soluzione del problema proprio un passaggio della motivazione di Cass. n. 14727 del 2001 nel quale si evidenzia che la legittimità dell’esecuzione forzata, quale oggetto dei giudizi di opposizione, può venire in rilievo per «le eventuali discordanze tra realtà e titolo». 3.3. Entrando nel merito del quesito posto, e opportuno premettere che la possibilità di inserire il titolo esecutivo giudiziale nel mondo dei fatti trova la sua radice nella relatività che caratterizza la distinzione fra il valore giuridico e il fatto. Come insegna una tradizione quasi secolare della teoria generale del diritto, il valore giuridico può essere derubricato a fatto a seconda del punto di vista che si assume, per cui ciò che sotto un certo punto di vista partecipa della natura del fatto può essere trasformato in criterio di valutazione (ad esempio la consuetudine), e, viceversa, ciò che da un certo punto di vista partecipa della natura del valore può precipitare, da un altro punto di vista, al livello del fatto. Quello che importa è che una distinzione fra l’elemento formale e l’elemento materiale del diritto non venga mai meno e che vi sia sempre un criterio formale di valutazione rispetto al fatto. Rinviene la propria genesi nel principio di relatività della distinzione fra fatto e valore, ad esempio, il fenomeno della pregiudizialità-dipendenza fra rapporti giuridici, per cui l’effetto giuridico di una data fattispecie può a sua volta rilevare come elemento del fatto costitutivo (modificativo o estintivo) di un’altra fattispecie. In altri termini, ciò che integra la conseguenza giuridica del fatto, e dunque l’elemento formale della qualificazione giuridica, può, sotto un altro aspetto, costituire l’elemento materiale di una distinta fattispecie e trascorrere da valore giuridico a fatto esso stesso, venendo ad integrare nel processo la c.d. questione pregiudiziale in senso tecnico, suscettibile di essere conosciuta in via incidentale (il fatto torna ad essere valore giuridico se per domanda di una delle parti la questione debba essere decisa con efficacia di giudicato, e dunque non più accertata quale elemento della fattispecie costitutiva del rapporto dedotto in giudizio, ma quale rapporto giuridico essa stessa). Passando a un altro esempio, il contratto può rilevare ora come valore giuridico, quando sia invocato in giudizio come fonte di reciproci diritti ed obblighi fra le parti contraenti, ora come semplice fatto storico influente sulla decisione al livello del mero giudizio di fatto (non si tratta quindi della distinzione, all’interno del negozio, fra il fatto produttivo di effetti giuridici e la programmazione di interessi, su cui Cass. sez. U. 12 luglio 2014, n. 26242 e n. 26243, punto 4.8, entrambi aspetti del valore giuridico). Quando il contratto rileva come valore giuridico è soggetto ad interpretazione, altrimenti è un mero fatto storico da accertare. Dalla diversa collocazione nel processo del contratto discende un diverso regime della prova, per cui quando esso non costituisce il valore giuridico non operano i limiti legali di prova del negozio per il quale sia richiesta la forma scritta ad substantiam o ad probationem, così come i limiti di valore previsti dall'art. 2721 cod. civ. per la prova testimoniale (Cass. 4 marzo 2021, n. 5880; 10 febbraio 2015, n. 3336; 17 gennaio 2021, n. 566). Infine il giudicato può entrare nel processo non solo quale norma regolatrice del caso concreto, che si risolve in un vincolo tanto per le parti che per il giudice, ma anche quale fatto storico, quando non sia stato reso fra le stesse parti del giudizio e non abbia pertanto ad oggetto il rapporto giuridico dedotto in giudizio, o un elemento della relativa fattispecie costitutiva. È stato affermato in questo quadro che il giudicato di condanna del danneggiante può avere nel giudizio promosso dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore, nell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli, esclusivamente efficacia di prova documentale (Cass. 9 luglio 2019, n. 18325; 24 giugno 2020, n. 12394). Anche fra le stesse parti del giudicato può accadere che quest’ultimo abbia valenza di fatto storico, come quando in sede di opposizione all’esecuzione si opponga la prescrizione decennale ai sensi dell’art. 2953 cod. civ.. S’intende dunque come ben possa il giudicato astrattamente rilevare in un giudizio quale mero presupposto fattuale. Ciò che deve qui verificarsi è se il giudicato possa rilevare all’interno del giudizio di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi quale valore giuridico o quale fatto. Ora, è sicuramente vero quanto afferma Cass. 21 novembre 2001, n. 14727, e cioè che il giudicato non costituisce il diritto sostanziale del giudizio oppositivo, non trovando la res litigiosa di quest’ultimo la propria disciplina nel giudicato per ipotesi a base del titolo esecutivo. Come si è detto, non è però sufficiente l’estraneità del giudicato al diritto che regge la fattispecie oggetto dell’opposizione (all’esecuzione o agli atti esecutivi) per escluderne la portata di valore giuridico. Il titolo esecutivo giudiziale integrante un giudicato entra nel processo oppositivo quale valore e non quale fatto da una porta diversa della legge della res litigiosa, ed è quella della discordanza fra titolo e realtà di cui si fa questione nell’opposizione, per riprendere un’espressione di Cass. n. 14727 del 2001.
3.3.1. Ciò che deve essere smentito, e si tratta della premessa fondamentale, è il ruolo di mero presupposto di fatto che il titolo esecutivo in generale assolverebbe nell’esecuzione forzata. Quest’ultima ha «lo scopo di rendere possibile la realizzazione dell’interesse del creditore, che non poté aver luogo mediante adempimento volontario da parte del debitore», come scrisse un’autorevole dottrina degli anni trenta del secolo scorso. Il processo esecutivo, continua questa dottrina, è il mezzo per la realizzazione del diritto sostanziale che è stato dichiarato all’esito del processo di cognizione. Dalla strumentalità del processo esecutivo alla realizzazione del diritto sostanziale si ricava che compito dell’esecuzione forzata è l’adeguamento dello stato di fatto allo stato di diritto. Nel processo esecutivo il titolo non è perciò il presupposto fattuale dell’azione esecutiva, ma è il valore giuridico cui la realtà materiale deve essere ricondotta per la realizzazione dell’interesse del creditore sancito dal diritto. Il titolo esecutivo enuncia il dover essere cui l’essere, mediante il processo esecutivo, uniformarsi. La prospettiva dell’esecuzione forzata come adeguamento dello stato di fatto allo stato di diritto include nell’ordine dei valori giuridici l’intero complesso dei titoli esecutivi, e dunque non solo quelli giudiziali ma tutte le ipotesi contemplate dall’art. 474 cod. proc. civ.. Il piano formale dei valori che devono trovare attuazione mediante il processo esecutivo risulta ulteriormente allargato dall’art. 499 cod. proc. civ., «ai soli effetti dell’esecuzione», come prevede la norma, per tutti quei crediti, non fondati su titolo esecutivo, per i quali è intervenuto il riconoscimento da parte del debitore all’udienza di verifica (anche nella forma della mancata comparizione di questi all’udienza). Il ruolo di valore giuridico del titolo esecutivo non cessa nei giudizi di opposizione, sia ai sensi dell’art. 615 che dell’art. 617 cod. proc. civ., tutte le volte che esso funge da parametro di legittimità dell’azione esecutiva intrapresa o dello stesso processo esecutivo quale procedimento. Ogniqualvolta che ai fini dell’accertamento del diritto della parte istante a procedere a esecuzione forzata, o della legittimità degli atti esecutivi, emerge una questione per la cui decisione deve farsi capo al titolo esecutivo, quest’ultimo somministra il valore giuridico sulla base del quale il giudice deve risolvere la controversia. In tali evenienze il giudice del processo di opposizione ha di fronte un valore giuridico e non un fatto. Il mutuo ricevuto da notaio (art. 474, comma 2, n. 3 cod. proc. civ.), ad esempio, non interviene nelle circostanze in discorso quale fatto storico che deve essere accertato come tale sul piano empirico, ma quale valore giuridico che il giudice dell’opposizione deve interpretare nella sua portata precettiva. Quando il giudice si accosta al negozio giuridico come valore, e non come fatto, il giudizio di accertamento corrisponde non alla ricognizione di un dato empirico, ma all’identificazione di una regola, sicché l’attività che viene in rilievo è quella dell’interpretazione. I valori si interpretano, non si accertano alla stregua del fatto empirico, allorquando in questione non sia l’esistenza del fatto storico ma la portata del precetto. Ne discende l’incompatibilità con l’attività ermeneutica della figura del fatto rimasto ignoto, propria al regime dell’accertamento storico e la cui disciplina resta affidata alla regola di riparto dell’onere della prova. L’interpretazione non tollera che il valore giuridico rimanga oscuro, come dimostra l’art. 1371 cod. civ.. È appena il caso di aggiungere che è proprio la problematica ermeneutica del titolo esecutivo che si pone in sede di processo oppositivo a dimostrare che il titolo esecutivo non può avere nel processo esecutivo valenza di mero «presupposto fattuale» (Cass. n. 14727 del 2001), ma che si tratta del valore giuridico cui la realtà pratica deve adeguarsi mediante l’esecuzione forzata, e che spetta al giudice dell’opposizione in sede di cognizione interpretare. Il titolo esecutivo non è l’oggetto di un accertamento fattuale, alla stessa stregua di un qualsivoglia fatto storico, ma richiede di essere interpretato, proprio perché valore giuridico. Il risultato interpretativo in materia negoziale non è però sindacabile in sede di legittimità. Quando il titolo esecutivo corrisponde ad un negozio l’interpretazione resta attività riservata al giudice di merito perché il negozio, pur dotato di forza di legge fra le parti (art. 1372 cod. civ.), non è ascrivibile alle norme. È rimasta tendenzialmente isolata nella tradizione europea la concezione di un illustre filosofo del diritto austriaco del secolo scorso secondo cui il negozio è una «fattispecie produttrice di norme», collocata in basso alla struttura piramidale dell’ordinamento. Il negozio, come affermato da autorevole dottrina italiana, resta un fatto sociale che l’ordinamento recepisce per effetto del riconoscimento della sua portata precettiva. Il significato di valore giuridico del negozio risiede in questa carica regolamentare recepita dall’ordinamento, ma esso resta un fatto, sia pure a contenuto precettivo, e non una norma giuridica. In sede di legittimità il sindacato esperibile da parte del giudice è pertanto solo quello del rispetto delle regole di ermeneutica negoziale. Ciò che può essere denunciato con il ricorso davanti alla Corte di Cassazione è la violazione di tali regole, ma non certo quella del precetto (privato) espresso dal regolamento negoziale.
3.3.2. A conseguenze diverse dall’atto di autonomia privata deve pervenirsi con riferimento al giudicato. L’interpretazione di quest’ultimo, svolta mediante i canoni esegetici di cui all'art. 12 preleggi, ha quale termine di riferimento una norma di diritto sostanziale. La natura di «legge del caso concreto» che il giudicato possiede impedisce di ridurne la problematica nel processo civile al solo tema del contrasto fra giudicati e impone di valorizzare la natura di istituto di diritto sostanziale che la cosa giudicata di cui all’art. 2909 cod. civ. possiede. Ciò che distingue il giudicato dalla sentenza priva di tale carattere è la normatività dell’accertamento che vi è contenuto, e che è attestata dall’art. 2909 cod. civ.. Alla lettera di quest’ultima norma va prestata particolare attenzione: «l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa». Come non ha mancato di sottolineare autorevole e risalente dottrina, ciò che «fa stato» non è la sentenza passata in giudicato ma «l’accertamento» ivi contenuto. Questo vuol dire che l’efficacia del giudicato è un’efficacia distinta dagli effetti propri al provvedimento giurisdizionale, dichiarativo (della situazione sostanziale) o attributivo (del bene della vita), che pur fanno capo a quell’accertamento. Limitare l’autorità di cosa giudicata al solo accertamento contenuto nella sentenza non vuol dire naturalmente privare delle qualità dell’immutabilità, nei termini di cui all’art. 324 cod. proc. civ., gli effetti dichiarativi o attributivi, perché questi, quali elementi aggiuntivi e conseguenziali all’accertamento, non possono più essere messi in discussione al pari dell’accertamento che li sorregge. Gli effetti dichiarativi o attributivi designano la portata del giudicato quali effetti ormai immutabili. Che l’accertamento costituisca l’oggetto della cosa giudicata significa piuttosto che esso «fa stato a ogni effetto», e cioè che ogni effetto giuridico del rapporto oggetto del giudicato trova la propria esclusiva disciplina nel giudicato. Il giudicato pertanto non comporta solo che l’effetto dichiarativo (della situazione sostanziale) e quello attributivo (del bene della vita) della sentenza conseguano l’immutabilità, ma a esso la legge (l’art. 2909) collega anche l’effetto precettivo- conformativo, grazie al quale viene prescritta la regola di condotta per il futuro. È a tale effetto ulteriore del provvedimento giurisdizionale, rispetto a quelli esecutivi di cui all’art. 282 cod. proc. civ., che si correla il valore di norma regolatrice del caso concreto, da cui la cui la vincolatività nei confronti del giudice nei successivi giudizi e delle parti. L’accertamento contenuto nel giudicato assume valore di precetto di legge non solo nel mondo processuale ma anche in quello sostanziale. La vincolatività al livello del processo opera quale divieto di contrasto fra giudicati, evocando tutta la problematica del giudicato esterno. Dal punto di vista sostanziale è però il rapporto fra le parti a non essere più disciplinato dalla legge, ma dal giudicato materiale. Il diritto sostanziale che trova applicazione con riferimento al rapporto non è quello previsto dalla legge generale e astratta, ma è quello corrispondente all’accertamento contenuto nella sentenza costituente cosa giudicata formale ai sensi dell’art. 324 cod. proc. civ.. Che la fonte del diritto applicabile alla fattispecie, una volta insorto il giudicato, sia l’accertamento contenuto nel giudicato e non la legge generale e astratta è dimostrato dall’irrilevanza dei successivi mutamenti di quest’ultima, anche sul piano della legge retroattiva e di quella dichiarata incostituzionale. Ormai «a ogni effetto» il rapporto è retto dal diritto sostanziale previsto dal giudicato. La stessa struttura dell’accertamento giurisdizionale, nella sua duplice componente di fatto e diritto, mima quella della fattispecie legale, con la differenza che in quest’ultima l’effetto giuridico è relativo al fatto generale e astratto. Giudicato e fattispecie legale constano allo stesso modo di un elemento materiale e di un elemento formale, benché la seconda, quale species facti, è suscettibile di applicazione illimitata, il primo invece è fatto concreto relazionato al diritto e coincide con il “caso”, che il filosofo così definisce: «casus definietur factum in ordine ad jus» (G.W.L., De casibus perplexis in iure, II, Lipsia 1666). Limitare la portata del giudicato alla problematica del giudicato esterno e del contrasto fra giudicati vorrebbe quindi dire svalutarne la portata di diritto sostanziale, la cui vincolatività si manifesta nel mondo sostanziale ancor prima che in quello processuale. È pur vero, come affermato dal Pubblico Ministero nelle sue conclusioni motivate, che nell’opposizione all’esecuzione vengono opposti fatti impeditivi o estintivi successivi al giudicato, per cui l’oggetto del giudizio oppositivo non potrà mai coincidere con l’oggetto del giudicato, da cui l’estraneità della problematica del giudicato esterno. E tuttavia il diritto sostanziale mediante cui valutare se il fatto dell’adempimento opposto sia idoneo a produrre l’effetto giuridico dell’estinzione dell’obbligazione sancita dal giudicato è il giudicato medesimo. Al giudice della cognizione è posta non la questione del vincolo del giudicato (esterno) per il processo, ma quella della attuazione del giudicato mediante l’esecuzione forzata: alla stessa stregua di quanto accade quando si tratta di accertare la vincolatività del giudicato esterno, il problema che si pone per il giudice della cognizione è di interpretazione del diritto sostanziale del caso concreto. La regola degli interessi dovuti in relazione ad un’obbligazione pecuniaria, se è ad esempio questo il parametro normativo rilevante per apprezzare l’adempimento opposto, non è nel codice civile o nella legge speciale, ma è nel giudicato. È questo il diritto sostanziale di cui il giudice dell’opposizione deve fare applicazione per dirimere in siffatta ipotesi la controversia e la cui violazione è denunciabile in sede di legittimità nella forma di violazione della norma di legge sul giudicato sostanziale (art. 2909 cod. civ.). Se vi è una questione ermeneutica vuol dire che è in gioco un precetto, e se quel precetto corrisponde non ad un atto di autonomia privata ma ad un giudicato, vuol dire che è in gioco l’interpretazione del diritto sostanziale, tale essendo la forza del giudicato per volontà dell’art. 2909. La peculiare natura del valore giuridico corrispondente al giudicato («legge del caso concreto») fonda così, nell’ipotesi in cui si censuri il provvedimento di merito per la violazione dell’art. 2909 cod. civ., il potere/dovere del giudice di legittimità di interpretare il titolo esecutivo corrispondente al giudicato se quest’ultimo fornisce la regola giuridica al fine dell’accertamento del diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata o della legittimità dell’atto esecutivo. Quando Cass. n. 14727 del 2001 afferma che l’oggetto della cognizione del giudice dell’opposizione all’esecuzione è «il contenuto e la portata del titolo esecutivo», in realtà si riferisce all’interpretazione del diritto sostanziale, se quest’ultimo è un giudicato.
3.3.3. Non costituisce invece questione di diritto l’interpretazione del titolo esecutivo giudiziale non corrispondente a giudicato. È pur vero che il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originario di lite, giustificando sia l'esecuzione provvisoria ai sensi dell’art. 282 cod. proc. civ., sia l'autorità della sentenza di primo grado ai fini della sospensione facoltativa dell’eventuale processo pregiudicato ai sensi dell'art. 337, comma 2, cod. proc. civ., norma applicabile anche al cospetto di sentenza resa nel processo pregiudicante non passata in giudicato, come ribadito da Cass. Sez. U. 29 luglio 2021, n. 21763. Il giudicato è però, come si è visto, altra cosa rispetto alla comune sentenza, né può darsi rilievo ad una risalente dottrina processualista, secondo cui la sentenza sarebbe munita di una «efficacia naturale» quanto ai suoi effetti giuridici, per cui il giudicato sarebbe la mera immutabilità di tali effetti, già così risalenti alla pronuncia prima del suo passaggio in cosa giudicata. Il giudicato non è riducibile alla mera immutabilità degli effetti della sentenza perché, come si è detto, l’effetto precettivo-conformativo è una conseguenza ulteriore e diversa rispetto agli effetti dichiarativo e attributivo. Si comprende agevolmente che se rispetto ad una sentenza non costituente giudicato il giudice può decidere in modo difforme, come dimostra la facoltatività della sospensione di cui all’art. 337, vuol dire che quella pronuncia è priva della qualifica di diritto sostanziale quanto al contenuto di accertamento che reca con sé. Facendo difetto la natura di norma giuridica, non è consentito al giudice di legittimità interpretare un provvedimento giurisdizionale non costituente giudicato in un giudizio di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi. La denuncia della violazione delle regole di ermeneutica ha comunque in tal caso ad oggetto i criteri previsti dall’art. 12 preleggi, come affermato da Cass. Sez. U. 9 maggio 2008, n. 11501, che valorizza l’assimilabilità al giudicato dei provvedimenti giurisdizionali provvisoriamente esecutivi per la comune vis imperativa ed indisponibilità per le parti (l’“autorità” di cui parla l’art. 337, comma 2, cod. proc. civ.).
3.3.4. Con riferimento al giudicato esterno queste Sezioni Unite hanno affermato non solo che per l’interpretazione deve attingersi ai criteri previsti dall’art. 12 preleggi, ma anche che l’attività ermeneutica va svolta con cognizione piena che si estende al diretto riesame degli atti del processo e alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali (Cass. Sez. U. 28 novembre 2007, n. 24664). Tale indagine è funzionale alla comprensione della portata effettiva della res iudicata e dei suoi limiti soggettivi ed oggettivi, stante il ruolo di vincolo che il giudicato esterno svolge rispetto al processo. Anche nel caso del titolo esecutivo giudiziale il criterio ermeneutico allarga il proprio raggio di azione oltre i limiti testuali del titolo. Si afferma infatti che il titolo esecutivo giudiziale, ai sensi dell'art. 474, secondo comma, n. 1, cod. proc. civ., non si identifica, né si esaurisce, nel documento giudiziario in cui è consacrato l'obbligo da eseguire, essendo consentita l'interpretazione extratestuale del provvedimento, sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui esso si è formato (Cass. Sez. U. 2 luglio 2012, n. 11066, cui hanno fatto seguito, fra le tante Cass. 1° gennaio 2015, n. 19641; 21 dicembre 2016, n. 26567; 26 novembre 2020, n. 26935). Nel giudizio di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi il giudicato non rileva però, come è ormai chiaro, quale vincolo (esterno) per l’accertamento giurisdizionale, ma quale diritto sostanziale del caso concreto. L’osservazione ha una conseguenza particolare in sede di giudizio di legittimità, ove si denunci la violazione del diritto del caso concreto mediante la violazione dell’art. 2909 cod. civ.. Il dovere del giudice di ricerca del diritto, derivante dal principio “iura novit curia”, si riferisce al precetto generale e astratto facente parte del sistema gerarchico delle fonti (cfr. Cass. 20 dicembre 2019, n. 34158; 21 novembre 2000, n. 15014; 5 luglio 1999, n. 6933; 17 maggio 1976, n. 1742). L’onere della parte che agisce in giudizio, o che solleva l’eccezione rispetto alla domanda, è quello di allegare il fatto, mentre compete al giudice il potere di qualificazione giuridica del fatto, anche sulla base di elementi di diritto diversi da quelli contenuti nella domanda o opposti dal convenuto, tant’è che la mancata esposizione delle ragioni di diritto nella citazione non è causa di nullità della stessa (art. 164 comma 4 cod. proc. civ.). Una conseguenza per il giudizio di legittimità è che la Corte di cassazione può accogliere il ricorso per una ragione di diritto anche diversa da quella prospettata dal ricorrente, sempre che essa sia fondata sui fatti come prospettati dalle parti (fermo restando che l'esercizio del potere di qualificazione non può comportare la modifica officiosa della domanda per come definita nelle fasi di merito o l'introduzione nel giudizio d'una eccezione in senso stretto - Cass. 5 ottobre 2021, n. 26991; 28 luglio 2017, n. 18775; 29 settembre 2005, n. 19132). La possibilità di una diversa qualificazione giuridica, e il dovere di ricerca del diritto, derivano dalla presenza di un ordinamento di fattispecie legali astratte e generali cui ricondurre il fatto dedotto in giudizio. Quando il diritto di cui fare applicazione è però quello contenuto nel giudicato, quando cioè viene in rilievo il diritto del caso concreto, non sono consentite diverse qualificazioni giuridiche. La Corte di Cassazione non ha il dovere di ricerca nell’ordinamento della corrispondente fattispecie legale, ma deve fare applicazione della norma individuale che risulta prevista dalla sentenza passata in cosa giudicata. Ne discende che la denuncia in sede di legittimità della violazione dell’art. 2909 cod. civ. in giudizio oppositivo per erronea interpretazione del titolo esecutivo corrispondente a giudicato deve essere formulata con la specifica indicazione del precetto sostanziale che si assume violato, senza che sia data possibilità alla Corte di Cassazione di ricercare un diritto diverso da quello indicato sia pure, o perfino, nei limiti del perimetro della sentenza passata in cosa giudicata. Il diritto del caso concreto da accertare è per definizione solo quello di cui la parte del rapporto disciplinato dalla norma individuale denuncia l’errata interpretazione. Un ricorso per cassazione che non rispetti tale onere risulterebbe inammissibile per mancata indicazione della norma di diritto su cui il motivo di ricorso si fonda ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 4 cod. proc. civ.. Le peculiarità del diritto del caso concreto si riflettono anche nell’onere di cui all’art. 366, comma 1, n. 6 cod. proc. civ., il quale comporta, come è noto, la specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti su cui la censura si fonda. In primo luogo, sulla base del fondamentale canone ermeneutico della compenetrazione di dispositivo e motivazione, il ricorrente deve specificatamente indicare nel provvedimento giurisdizionale passato in giudicato quale sia la parte corrispondente al diritto sostanziale di cui denuncia l’errata interpretazione, provvedendo alla relativa trascrizione nel corpo del ricorso o alla dettagliata e univoca indicazione per il reperimento del precetto all’interno del provvedimento. In secondo luogo, per quanto riguarda gli elementi extratestuali rispetto al giudicato e tuttavia indispensabili per la sua interpretazione, la parte ricorrente può avvalersi solo di quegli atti processuali e documenti che siano stati ritualmente acquisiti nei gradi di merito, dando dimostrazione del rituale ingresso nel processo. L’onere del ricorrente è qui di indicazione in modo specifico e rigoroso dell’elemento extratestuale rilevante per l’interpretazione del titolo esecutivo costituente il giudicato, provvedendo alla trascrizione nel corpo del ricorso della relativa parte dell’atto processuale o del documento o fornendone l’indicazione per il reperimento all’interno dell’atto o documento in modo dettagliato ed inequivoco. In mancanza dell’assolvimento dell’onere processuale di cui all’art. 366, comma 1, n. 6 nei termini indicati, il motivo di ricorso è affetto da inammissibilità.
3.4. Vanno in conclusione enunciati i seguenti principi di diritto: «ove risulti denunciata la violazione dell’art. 2909 cod. civ. nei giudizi di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi con riferimento alla cosa giudicata corrispondente al titolo esecutivo giudiziale, la Corte di Cassazione ha il potere/dovere di interpretare il titolo esecutivo se il giudicato somministra il diritto sostanziale applicabile per l’accertamento del diritto della parte istante a procedere a esecuzione forzata o per l’accertamento della legittimità degli atti esecutivi»; «ai fini della denuncia della violazione, nei giudizi di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi, dell’art. 2909 cod. civ. con riferimento alla cosa giudicata corrispondente al titolo esecutivo giudiziale, il ricorrente ha l’onere, a pena di inammissibilità del ricorso, sia di specifica indicazione ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 4 cod. proc. civ. del precetto sostanziale violato, nei cui limiti deve svolgersi il sindacato di legittimità, sia di specifica indicazione ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6 cod. proc. civ. della sede nel giudicato del precetto di cui si denuncia l’errata interpretazione e dell’eventuale elemento extratestuale, ritualmente acquisito nel giudizio di merito, che sia rilevante per l’interpretazione del giudicato».
3.5. Tornando al motivo di ricorso, per il quale risultano soddisfatti gli oneri processuali sopra indicati, la denuncia di violazione del giudicato, così riqualificata la censura formulata in termini di vizio motivazionale, attinge in realtà non il contenuto precettivo del giudicato, ma la sua portata, dichiarativa o di condanna. Trattandosi della portata, e non del contenuto, del giudicato, all’impugnazione del provvedimento in sede di legittimità si sarebbe potuti pervenire anche per la via della violazione degli artt. 474 e 612 cod. proc. civ., la quale avrebbe attinto il titolo giudiziario posto in esecuzione in quanto tale, a prescindere dalla sua natura di giudicato, allo scopo di contestarne la natura di titolo esecutivo. Come da ultimo riconosciuto da Cass. 10 luglio 2019, n. 18572, la sentenza di mero accertamento dell'obbligo di un ente previdenziale di inserire il nominativo di un lavoratore agricolo in un determinato elenco non è suscettibile di essere posta a base di esecuzione forzata in forma specifica. La via intrapresa dall’odierno ricorrente è quella invece della censura dell’interpretazione del giudicato, sia pure nei limiti della sua portata, percorso non consentito finora dalla giurisprudenza di questa Corte, come dimostrato in fattispecie perfettamente sovrapponibile da Cass. 15 giugno 2017, n. 14921, richiamata dall’ordinanza interlocutoria. La diversa conclusione cui pervengono queste Sezioni Unite permette il sindacato dell’interpretazione del giudicato fornita dal giudice del merito, concludendo, anche alla luce della giurisprudenza sopra richiamata a proposito dell’art. 474, per la natura meramente dichiarativa, e non di condanna, della sentenza. Il giudicato rileva, in particolare, nella presente sede non sotto il profilo del suo contenuto precettivo, ma sotto quello della sua portata, e segnatamente dell’effetto dichiarativo reso immutabile dal passaggio in giudicato della sentenza.
4. Il secondo motivo è fondato. Il giudice dell’esecuzione ha disposto la chiusura del processo esecutivo per causa diversa da quelle di estinzione tipica, dando atto con ordinanza ai sensi dell’art. 487 cod. proc. civ. dell’avvenuta cessazione della materia del contendere (per una fattispecie sovrapponibile si veda Cass. 13 maggio 2015, n. 9837). Ha poi disposto nel senso della compensazione delle spese, anziché disporre per il rimborso delle medesime in favore della parte istante l’esecuzione ai sensi dell’art. 614 cod. proc. civ. (circa la possibilità di liquidare con il provvedimento ai sensi dell’art. 614 anche le spese di rappresentanza tecnica, avendo riguardo anche al disposto dell’art. 611, comma 2, cod. proc. civ., si veda in motivazione Cass. 12 gennaio 2021, n. 269). Contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, la compensazione delle spese è stata disposta dal giudice dell’esecuzione sulla base di un motivo determinato, quello dell’inidoneità della sentenza a costituire titolo esecutivo. Con la denuncia della ritualità della disposta compensazione deve intendersi che il ricorrente abbia inteso travolgere anche la ratio decidendi rappresentata dal rilievo d’ufficio di questione senza la provocazione del preventivo contradditorio, essendo necessario e sufficiente per la legittimità del provvedimento di compensazione il rispetto di quanto previsto dall’art. 92, comma 2, cod. proc. civ..
5. Non essendo necessari altri accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito con il rigetto dell’opposizione agli atti esecutivi.
6. Il mutamento della giurisprudenza rispetto alla questione dirimente comporta l’integrale compensazione delle spese, sia del giudizio di legittimità che di quello di merito.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti e, decidendo la causa nel merito, rigetta l’opposizione agli atti esecutivi. Compensa integralmente le spese processuali sia del giudizio di legittimità che di quello di merito.