Incandidabilità, misure cautelari, separazioni carriere magistrati, membri laici nei Consigli giudiziari e togati nel CSM: i temi dei quesiti referendari dichiarati ammissibili dalla Consulta.
L'8 marzo 2022 la Corte Costituzionale ha dichiarato l'ammissibilità di 5 referendum abrogativi.
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Abrogazione
D.Lgs. n. 235/2012
Con la sentenza n. 56, la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile la richiesta referendaria riguardante l'abrogazione del Testo unico delle disposizioni in materia di «incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi».
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Abrogazione ultimo inciso dell'
art. 274, c. 1, lett. c), c.p.p.
Con la sentenza n. 57, la Corte Costituzionale ha accolto il quesito referendario relativo all'abrogazione dell'
- Abrogazione denominata «Separazione delle funzioni dei magistrati»
Con la sentenza n. 58, la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile l'abrogazione di una serie di disposizioni in materia di ordinamento giudiziario che consentono il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa nella carriera dei magistrati.
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Abrogazione
D.Lgs. n. 25/2006 (limitata ad alcune disposizioni)
Con la sentenza n. 59, la Corte Costituzionale ha accolto la richiesta di referendum ì relativo all'abrogazione di alcune norme in materia di «composizione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari e delle competenze dei membri laici che ne fanno parte».
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Abrogazione
art. 25, c. 3, L. n. 195/1958 (limitata ad alcune parole)
Con la sentenza n. 60, la Corte Costituzione ha dichiarato l'ammissibilità del referendum denominato «Abrogazione di norme in materia di elezioni dei componenti togati del Consiglio Superiore della Magistratura».
Corte costituzionale, sentenza (ud.16 febbraio 2022) 8 marzo 2022, n. 56
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza del 29 novembre 2021, depositata il 1° dicembre 2021, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo) e successive modificazioni, ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge la richiesta di referendum popolare abrogativo, promossa dai Consigli regionali delle Regioni Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte, sul seguente quesito: «Volete voi che sia abrogato il decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’art. 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190)?».
2.- L’Ufficio centrale ha attribuito al quesito il seguente titolo: «Abrogazione del Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi».
3.- Ricevuta comunicazione dell’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum, il Presidente della Corte costituzionale ha fissato, per la conseguente deliberazione, la camera di consiglio del 15 febbraio 2022, disponendo che ne fosse data comunicazione ai presentatori della richiesta di referendum e al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 33, secondo comma, della legge n. 352 del 1970.
4.– In prossimità della data fissata per la camera di consiglio, i Consigli regionali richiedenti hanno depositato una memoria, nella quale argomentano a sostegno dell’ammissibilità dell’odierno quesito.
4.1.– In particolare, i promotori, dopo aver ricostruito le varie fasi del procedimento dinanzi all’Ufficio centrale per il referendum, si soffermano sul sistema delle limitazioni dell’elettorato passivo, precisando che «la richiesta referendaria […] non ha nulla a che fare con l’ineleggibilità e l’incompatibilità».
La difesa dei Consigli regionali ricostruisce poi la genesi del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), illustrando i principi e criteri direttivi contenuti nella legge di delega 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), e il contenuto delle varie disposizioni del menzionato decreto legislativo.
Quanto alla disciplina dell’incandidabilità, i promotori evidenziano come essa sia «figlia del nostro tempo», «[a] differenza dell’ineleggibilità e dell’incompatibilità, la cui struttura e funzione sono state definite ab immemorabili». In particolare, la sua origine viene ricondotta alla legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali).
Al riguardo, nella memoria viene esaminata la ricostruzione dell’evoluzione legislativa operata da questa Corte nelle diverse occasioni in cui è stata investita di questioni concernenti le norme in materia di incandidabilità. I promotori si soffermano poi sulle «numerose osservazioni critiche» formulate dalla dottrina nei confronti del d.lgs. n. 235 del 2012, in quanto caratterizzato da previsioni ora troppo pervasive ora troppo scarne.
Viene inoltre stigmatizzata la «non uniformità di regime giuridico tra cariche elettive statali, da un lato, e locali, dall’altro». Sebbene questa Corte l’abbia considerata «non discriminatoria» in ragione della «prossimità dei cittadini al tessuto istituzionale locale e [del]la diffusività del fenomeno in tale ambito» (è citata la sentenza n. 276 del 2016), la difesa dei Consigli regionali ritiene questo argomento «di puro fatto e di rilevanza schiettamente sociologica», che, in quanto tale, «può essere in ogni momento rovesciato ed oggetto, comunque, di non poche perplessità».
4.2.– Quanto alla richiesta referendaria, i promotori precisano che «[n]el caso de quo si provvede in negativo […] vale a dire senza procedere ad alcuna manipolazione del testo». Viene, altresì, richiamato quanto affermato in occasione della presentazione del quesito presso il Senato della Repubblica il 23 giugno 2021, quando «si rilevò che [la richiesta referendaria] “intende abolire l’automatismo, lasciando al giudice la decisione, caso per caso, se comminare, oltre alla sanzione penale, anche la sanzione accessoria dell’interdizione d[a]i pubblici uffici e per quanto tempo”». E ancora vengono richiamate alcune considerazioni sul quesito, specie là dove si afferma che esso «manifesta una omogeneità di fondo sotto il profilo effettuale» e che l’intento è «quello di tornare al regime dell’incandidabilità vigente prima del 2012», ancorché sul punto la stessa difesa dei Consigli regionali concluda precisando: «Nessuna reviviscenza, tuttavia».
4.3.– I promotori si soffermano poi su alcune vicende giudiziarie scaturite dall’applicazione del d.lgs. n. 235 del 2012, mettendone in evidenza taluni effetti negativi (soprattutto quanto all’automatismo dell’applicazione della sospensione) e sottolineando come dall’esame della giurisprudenza di questa Corte emerga «l’esistenza di uno spatium deliberandi» del legislatore.
Da ciò la difesa dei Consigli regionali deduce alcuni «[c]orollari», aggiungendo che, se è vero che la ragion d’essere dell’istituto dell’incandidabilità «si può ricondurre, in larga misura, all’art. 97 Cost.» e quindi «al buon governo e alla buona amministrazione», è altrettanto vero che la tutela di questi «[v]alori essenziali» «non può essere assoluta, nel senso che con essa vanno bilanciati altri valori, quando corrono il rischio di essere pretermessi a causa di incongruenze, la cui rilevanza non contraddice la ragione».
Ancora, si precisa che la richiesta referendaria ha ad oggetto il d.lgs. n. 235 del 2012 «nella sua interezza […] perché non è frazionabile il relativo contenuto e perché necessita di una sua integrale riformulazione».
4.4.– Infine, dopo aver richiamato la giurisprudenza di questa Corte sull’ammissibilità del referendum abrogativo e aver ricordato che «[s]ono […] irrilevanti, o comunque non decisive, le eventuali dichiarazioni rese dai promotori» (è citata la sentenza n. 24 del 2011), questi ultimi illustrano una serie di ragioni per le quali la richiesta deve considerarsi ammissibile: il referendum non comporta l’introduzione di una nuova e diversa disciplina ma produce un effetto di mera abrogazione, sicché il quesito non ha alcun tratto propositivo; l’istituto dell’incandidabilità non è previsto in Costituzione e ha struttura e funzioni sue proprie; le norme oggetto del quesito sono estranee alle materie di cui all’art. 75, secondo comma, Cost.; la richiesta ha ad oggetto un testo normativo che possiede una matrice razionalmente unitaria, con la conseguenza che una sua abrogazione parziale creerebbe evidenti disparità di trattamento; il vuoto normativo conseguente all’abrogazione non interferisce con il dettato costituzionale, non trattandosi né di una legge a contenuto costituzionalmente vincolato, né di una legge costituzionalmente obbligatoria; da ultimo, l’inammissibilità del referendum non può essere fatta discendere dal collegamento tra alcuni atti sovranazionali e la legge n. 190 del 2012, poiché quest’ultima, di cui il decreto è attuazione, «ha un contenuto assai composito ed articolato, e consente una molteplicità di soluzioni attuative».
5.– La Regione autonoma Sardegna ha, altresì, depositato un atto di intervento ad adiuvandum, nel quale, dopo aver ricostruito la giurisprudenza di questa Corte sull’ammissibilità del referendum, chiede che la richiesta sia dichiarata ammissibile.
In particolare, la difesa regionale ritiene che «[l]a proposta abrogativa oggetto del presente giudizio rientr[i] a pieno titolo tra quelle ammissibili poiché mira ad eliminare, in toto, la disciplina delle ipotesi di incandidabilità alle elezioni politiche, amministrative e del Parlamento europeo e i divieti a ricoprire incarichi in enti pubblici, ulteriori rispetto a quelle determinate dall’applicazione del codice penale, per coloro che abbiano riportato condanne definitive per determinati reati e la sospensione dalla carica per i condannati in via definitiva».
La Regione aggiunge che, se la richiesta referendaria dovesse essere dichiarata ammissibile e approvata dal corpo elettorale, «nessun principio costituzionale potrà dirsi travolto o leso e il Governo rimarrà libero, ove lo ritenga opportuno, di adottare una nuova legge delega e/o il Parlamento di legiferare in materia». Infine, il quesito sarebbe chiaro e omogeneo.
Motivi della decisione
1.- Oggetto del presente giudizio è l’ammissibilità della richiesta di referendum popolare dichiarata legittima con ordinanza del 29 novembre 2021 dell’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione.
La richiesta di referendum, promossa dai Consigli regionali delle Regioni Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte, ha a sua volta ad oggetto l’abrogazione dell’intero testo del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190).
2.- In via preliminare, si deve rilevare che, nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, questa Corte ha disposto, come già avvenuto più volte in passato, di consentire ai soggetti presentatori del referendum di illustrare oralmente le memorie depositate ai sensi dell’art. 33, terzo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo). È stato altresì deciso di ammettere gli scritti presentati da soggetti diversi da quelli contemplati dalla disposizione citata e tuttavia interessati alla decisione sull’ammissibilità delle richieste referendarie (nel caso di specie, la Regione autonoma Sardegna), come contributi contenenti argomentazioni ulteriori rispetto a quelle altrimenti a disposizione della Corte (ex plurimis: sentenze n. 10 del 2020, n. 5 del 2015, n. 13 del 2012, n. 28, n. 27, n. 26, n. 25 e n. 24 del 2011, n. 17, n. 16 e n. 15 del 2008).
Tale seconda ammissione, che viene qui confermata, non si traduce in un diritto di questi soggetti di partecipare al procedimento – che, comunque, «deve tenersi, e concludersi, secondo una scansione temporale definita» (sentenza n. 31 del 2000) – e di illustrare le relative tesi in camera di consiglio, ma comporta solo la facoltà della Corte, ove lo ritenga opportuno, di consentire brevi integrazioni orali degli scritti, come è appunto avvenuto nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, prima che i soggetti di cui al citato art. 33 illustrassero le rispettive posizioni.
3.- Sempre in via preliminare, occorre definire il contesto normativo nel quale si collocano le disposizioni oggetto del quesito referendario.
3.1.- Il d.lgs. n. 235 del 2012 è stato adottato nell’esercizio della delega disposta all’art. 1, commi 63, 64 e 65, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione).
Con le disposizioni indicate il legislatore delegante ha inteso affidare al delegato il compito di predisporre un corpus organico della normativa concernente le cause ostative all’assunzione e allo svolgimento di tutte le cariche elettive e di governo, riunendo in un unico testo la disciplina già vigente e introducendone nello stesso testo una nuova riguardante le cariche per le quali dette cause ostative non erano previste. Al contempo, il legislatore delegante ha voluto escludere dall’operazione di riordino e innovazione la disciplina delle sanzioni penali accessorie, prevedendo che restano ferme «le disposizioni del codice penale in materia di interdizione perpetua dai pubblici uffici» (art. 1, comma 64, lettera a, legge n. 190 del 2012).
In conformità con queste indicazioni, il legislatore delegato ha affermato espressamente (art. 15, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 235 del 2012) l’indipendenza delle ipotesi di incandidabilità da quelle in cui opera l’interdizione temporanea dai pubblici uffici. E in effetti, nel decreto delegato, l’unico collegamento fra i due istituti è rinvenibile nella disciplina della durata dell’incandidabilità alla carica di parlamentare, che l’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 235 del 2012 commisura al doppio della durata dell’interdizione temporanea comminata.
Il testo unico adottato nell’esercizio della richiamata delega ha dunque un carattere in parte compilativo (in particolare, quanto alla normativa in materia di incandidabilità nelle elezioni regionali e degli enti locali) e in parte innovativo (in particolare, quanto alla previsione di ipotesi di incandidabilità per le elezioni politiche e per quelle del Parlamento europeo, non presenti nella normativa precedente).
Esso si compone così di norme relative: alle ipotesi di incandidabilità alle elezioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica e a quelle di membro italiano del Parlamento europeo (artt. 1-5); alle cause ostative all’assunzione e allo svolgimento di incarichi di Governo (art. 6); all’incandidabilità alle elezioni regionali e alle connesse ipotesi di sospensione e di decadenza dalla carica (artt. 7-9); all’incandidabilità alle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali e alle connesse ipotesi di sospensione e di decadenza dalla carica (artt. 10-12). Infine, gli artt. 13-18 recano «Disposizioni comuni, transitorie e finali», e tra queste rileva la previsione dell’art. 17, che dispone l’abrogazione della preesistente normativa in materia e in particolare degli artt. 58 e 59 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) e dell’art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale).
3.2.- La normativa, in parte riordinata e in parte introdotta ex novo dal d.lgs. n. 235 del 2012, costituisce il punto di arrivo di una lunga evoluzione legislativa che ha preso le mosse già prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana ma che ha visto un momento di significativa svolta soltanto nei primi anni Novanta del secolo scorso.
Più precisamente – anche a non voler risalire alla legislazione comunale e provinciale del 1915 – l’art. 7 del decreto legislativo luogotenenziale 7 gennaio 1946, n. 1 (Ricostituzione delle Amministrazioni comunali su base elettiva), si limitava a prevedere che, al di là degli altri casi di ineleggibilità (non legati a condanne penali), non poteva «essere nominato sindaco: […] chi fu condannato per qualsiasi reato commesso nella qualità di pubblico ufficiale o con abuso d’ufficio ad una pena restrittiva della libertà personale superiore a sei mesi, e chi fu condannato per qualsiasi altro delitto alla pena della reclusione non inferiore ad un anno, salvo la riabilitazione ai termini di legge». La previsione è poi confluita dapprima nell’art. 6 del d.P.R. 5 aprile 1951, n. 203 (Approvazione del Testo Unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle amministrazioni comunali), e successivamente nell’art. 6 del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali).
In questo quadro, estremamente circoscritto sia per i soggetti interessati che per la tipologia delle condanne e della pena irrogata, si è inserito l’art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), che – come questa Corte ha precisato nelle decisioni in cui è stata chiamata a giudicare sulle controversie relative alla legittimità costituzionale di varie disposizioni del d.lgs. n. 235 del 2012 (sentenze n. 230 e n. 35 del 2021, n. 36 del 2019, n. 214 del 2017, n. 276 del 2016 e n. 236 del 2015 e ordinanza n. 46 del 2020) –, al fine di «tutelare la “trasparenza dell’attività delle regioni e degli enti locali” (così il Titolo del Capo II della legge), […] prevedeva la sospensione degli amministratori regionali, provinciali e comunali che risultassero sottoposti a procedimento penale per il delitto previsto dall’art. 416-bis del codice penale, ovvero a una misura di prevenzione, anche non definitiva, perché indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso. Alla sospensione seguiva la decadenza in conseguenza del passaggio in giudicato della sentenza o della definitività del provvedimento di applicazione della misura di prevenzione» (sentenza n. 276 del 2016).
Nella convinzione che tale disciplina fosse insufficiente ad arginare il fenomeno delle infiltrazioni di stampo mafioso all’interno degli organi degli enti territoriali il legislatore si è risolto, con la legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), «da un lato, attraverso l’istituto della incandidabilità alle elezioni, a impedire che persone gravemente indiziate di reati di stampo mafioso potessero ricoprire cariche elettive, dall’altro, a estendere l’ambito dei reati ostativi, comprendendo in esso anche quelli legati agli stupefacenti e alle armi, nonché alcuni reati contro la pubblica amministrazione» (sempre sentenza n. 276 del 2016).
Come ricordato nella pronuncia da ultimo citata, «[d]opo modifiche minori introdotte dalla legge 12 gennaio 1994, n. 30 (Disposizioni modificative della legge 19 marzo 1990, n. 55, in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali, e della legge 17 febbraio 1968, n. 108, in materia di elezioni dei consigli regionali delle regioni a statuto ordinario), la materia è stata sostanzialmente ridisciplinata dalla legge 13 dicembre 1999, n. 475 (Modifiche all’articolo 15 della L. 19 marzo 1990, n. 55, e successive modificazioni). A seguito della sentenza di questa Corte n. 141 del 1996, che dichiarò illegittimo l’art. 15 della legge n. 55 del 1990, là dove prevedeva l’incandidabilità prima della condanna definitiva (in quanto si trattava di una misura irreversibile che, per il suo carattere sproporzionato, assumeva “i caratteri di una sanzione anticipata”), la legge n. 475 del 1999 collegò l’incandidabilità alla condanna definitiva, mentre causa della sospensione dalla carica rimase la condanna non definitiva; la durata della sospensione fu però limitata a diciotto mesi. Le norme fin qui illustrate sono poi confluite negli artt. 58 e 59 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali)».
La preoccupazione per il permanere di una situazione di grave e diffusa illegalità nella pubblica amministrazione costituisce, infine, la ragione per la quale la legge delega n. 190 del 2012 ha previsto una serie di nuove misure per prevenire e reprimere tali fenomeni, fra le quali l’estensione dell’incandidabilità e della decadenza ai parlamentari e alle cariche di governo e l’ampliamento dei reati ostativi. Di qui l’adozione del d.lgs. n. 235 del 2012 che – come anticipato – ha riordinato e innovato la materia, dando attuazione alla delega.
3.3.- Su questa normativa si è formata una cospicua giurisprudenza costituzionale che, con riferimento sia alla disciplina introdotta nel 1990 e nel 1992 (sentenze n. 25 del 2002, n. 132 del 2001, n. 206 del 1999, n. 295, n. 184 e n. 118 del 1994), sia segnatamente a quella adottata nel 2012 (sentenze n. 230 e n. 35 del 2021, n. 36 del 2019, n. 214 del 2017, n. 276 del 2016 e n. 236 del 2015), ha sottolineato, fra l’altro, come le misure in esse previste non costituissero e non costituiscano sanzioni o effetti penali della condanna, e siano piuttosto da ricollegare al venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alla cariche in questione o per il loro mantenimento.
Questa Corte ha altresì precisato che, «se in origine lo scopo della disciplina era quello “di costituire una sorta di difesa avanzata dello Stato contro il crescente aggravarsi del fenomeno della criminalità organizzata e dell’infiltrazione dei suoi esponenti negli enti locali”, avendo come finalità “la salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche” (sentenza n. 407 del 1992), successivamente il carattere di diffusa illegalità nella pubblica amministrazione [ha indotto] ad allargare l’ambito soggettivo e oggettivo della disciplina, a tutela degli interessi costituzionali protetti dagli artt. 54, secondo comma, e 97, secondo comma, Cost.» (sentenza n. 276 del 2016, ma nello stesso senso anche sentenze n. 230 e n. 35 del 2021, n. 36 del 2019 e n. 236 del 2015).
In questo contesto, dunque, legittimamente, «il legislatore, operando le proprie valutazioni discrezionali, ha ritenuto che, in determinati casi, una condanna penale precluda il mantenimento della carica, dando luogo alla decadenza o alla sospensione da essa, a seconda che la condanna sia definitiva o non definitiva» (sentenza n. 236 del 2015).
Al contempo, spetta a questa Corte – nei casi in cui è investita di una questione di legittimità costituzionale – valutare la ragionevolezza del bilanciamento operato dal legislatore tra l’esigenza di tutelare gli interessi costituzionalmente protetti dagli artt. 97, secondo comma, e 54, secondo comma, Cost. e quelli sottesi agli artt. 48 e 51 Cost.
4.- L’odierno quesito referendario, investendo l’intero d.lgs. n. 235 del 2012, punta a rimuovere dall’ordinamento l’insieme delle disposizioni contenute nel testo unico, senza che dall’eventuale approvazione del quesito referendario possa desumersi la reviviscenza del quadro normativo preesistente.
La costante giurisprudenza di questa Corte nega la possibilità che l’abrogazione referendaria produca un qualche effetto ripristinatorio della disciplina previgente, abrogata da quella oggetto di referendum (in tal senso, tra le più recenti, sentenze n. 5 del 2015, n. 12 del 2014, n. 13 del 2012, n. 28 e n. 24 del 2011). È appena il caso di segnalare inoltre che, nel caso della richiesta referendaria in esame, l’intento dei promotori non è certo quello di far rivivere il quadro normativo previgente, delineato in particolare dall’art. 15 della legge n. 55 del 1990 e dagli artt. 58 e 59 del d.lgs. n. 267 del 2000, con la conseguenza che una reviviscenza delle disposizioni previgenti, quand’anche non la si volesse ritenere necessariamente esclusa (come ritengono i promotori, affermando espressamente: «Nessuna reviviscenza, tuttavia»), si porrebbe in frontale contrasto con il chiaro intento di espungere dall’ordinamento l’intero corpus normativo in materia di incandidabilità.
5.- Così delineati il contesto normativo di riferimento e l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale in materia, questa Corte è chiamata a giudicare sull’ammissibilità del quesito referendario alla luce dei criteri desumibili dall’art. 75 Cost. e del complesso dei «valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum, al di là della lettera dell’art. 75 secondo comma Cost.» (sentenza n. 16 del 1978).
Non solo, dunque, la richiesta referendaria non può investire le leggi indicate nell’art. 75 Cost. o comunque riconducibili ad esse, ma il quesito da sottoporre al giudizio del corpo elettorale deve consentire una scelta libera e consapevole, richiedendosi che esso presenti i caratteri della chiarezza, dell’omogeneità, dell’univocità, nonché una matrice razionalmente unitaria. Al riguardo, questa Corte ha avuto modo di precisare che «libertà dei promotori delle richieste di referendum e libertà degli elettori chiamati a valutare le richieste stesse non vanno confuse fra loro: in quanto è ben vero che la presentazione delle richieste rappresenta l’avvio necessario del procedimento destinato a concludersi con la consultazione popolare; ma non è meno vero che la sovranità del popolo non comporta la sovranità dei promotori e che il popolo stesso dev’esser garantito, in questa sede, nell’esercizio del suo potere sovrano» (sentenza n. 16 del 1978).
Ne consegue l’ulteriore affermazione che il referendum abrogativo non può essere «trasformato – insindacabilmente – in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie» (sentenza n. 16 del 1978). Non sono ammissibili, in particolare, richieste referendarie che siano «surrettiziamente propositiv[e]» (ex plurimis, sentenze n. 13 del 2012, n. 26 del 2011, n. 33 del 2000 e n. 13 del 1999; nello stesso senso, sentenze n. 43 del 2003, n. 38 e n. 34 del 2000): si tratta, infatti, di un’ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può «introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall’ordinamento» (sentenza n. 36 del 1997).
Agli indicati requisiti questa Corte ne ha aggiunti altri, in ragione della specificità dell’oggetto della richiesta referendaria, sempre nella prospettiva della piena realizzazione dei richiamati «valori di ordine costituzionale». E in questo contesto ha affermato che sono sottratte all’abrogazione totale mediante referendum le leggi costituzionalmente necessarie, «la cui mancanza creerebbe un grave vulnus nell’assetto costituzionale dei poteri dello Stato» (da ultimo, sentenza n. 10 del 2020), e quelle a contenuto costituzionalmente vincolato, «il cui nucleo normativo non [può] venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali)» (sentenza n. 16 del 1978).
Alla luce dei menzionati criteri, questa Corte è dunque chiamata a svolgere due ordini di valutazioni: per un verso sul quesito referendario, al fine di verificarne la chiarezza, l’univocità e la matrice razionalmente unitaria, e, per altro verso, sullo specifico testo legislativo in esame allo scopo di accertarne l’idoneità ad essere oggetto di un referendum abrogativo.
6.- Nel caso in esame, il quesito referendario sottoposto al giudizio di ammissibilità è chiaro e univoco nell’obiettivo che intende perseguire, e risulta dotato di una matrice razionalmente unitaria.
L’obiettivo dei Consigli regionali promotori è di rimuovere dall’ordinamento l’intero testo normativo che disciplina l’istituto dell’incandidabilità, e, da questo punto di vista, proprio l’interezza del testo investito dal quesito esclude ogni possibile incertezza sulla portata della sua eventuale abrogazione.
D’altro canto, non può condurre a un diverso esito nemmeno la considerazione che, trattandosi dell’intero corpus normativo costituito dal d.lgs. n. 235 del 2012, il quesito potrebbe presentare un deficit di univocità e di omogeneità, come «può accadere specie quando il quesito raggiunge “interi testi legislativi complessi, o ampie porzioni di essi, comprendenti una pluralità di proposizioni normative eterogenee”» (sentenze n. 26 del 2017 e n. 12 del 2014; nello stesso senso, sentenza n. 6 del 2015).
A questo riguardo va innanzitutto sottolineato che l’art. 75 Cost. espressamente stabilisce che la richiesta referendaria ha ad oggetto «l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge», con ciò di per sé contemplando anche la possibilità che il referendum investa un testo articolato e complesso, ed escludendo di conseguenza che tali caratteri di un atto siano pregiudizialmente motivo di inammissibilità del quesito.
Ciò premesso, conviene ricordare che, secondo la giurisprudenza costituzionale, il requisito dell’omogeneità viene meno quando oggetto del referendum sono più testi normativi o un unico testo composto da molte parti, che, se pure uniti da un nesso, costituiscono «diversi tasselli», rispetto ai quali il cittadino potrebbe maturare convincimenti diversi (sentenza n. 12 del 2014). Nondimeno, come questa Corte ha chiarito, sussiste comunque il requisito dell’omogeneità ogniqualvolta «dalle norme, considerate nella loro struttura e nella loro finalità, è dato trarre una “matrice razionalmente unitaria”» (sentenza n. 33 del 1997).
Viene in rilievo, a questo proposito, il fatto che «il quesito referendario deve incorporare l’evidenza del fine intrinseco all’atto abrogativo, cioè la puntuale ratio che lo ispira (sentenza n. 29 del 1987), nel senso che dalle norme proposte per l’abrogazione sia dato trarre con evidenza “una matrice razionalmente unitaria” (sentenze n. 16 del 1978; n. 25 del 1981), “un criterio ispiratore fondamentalmente comune” o “un comune principio, la cui eliminazione o permanenza viene fatta dipendere dalla risposta del corpo elettorale” (sentenze n. 22, n. 26, n. 28 del 1981; n. 63, n. 64, n. 65 del 1990)» (sentenza n. 47 del 1991).
Nel caso di specie, è agevole rinvenire nella natura e nel contenuto del d.lgs. n. 235 del 2012, oggetto del quesito, la «matrice razionalmente unitaria» che giustifica l’unicità della richiesta. Premesso che la qualificazione del d.lgs. n. 235 del 2012 come testo unico non costituisce di per sé elemento idoneo a far ritenere sussistente il requisito – se non altro per l’evidente ragione che l’unicità del testo non esclude che esso raccolga più oggetti – risulta invece decisivo l’esame del contenuto del decreto medesimo, emanato sulla base della chiara ed espressa intentio del legislatore delegante di riunire in un unico testo l’insieme delle disposizioni in materia di incandidabilità (art. 1, comma 63, della legge n. 190 del 2012).
L’individuazione, come oggetto del quesito, dell’intero d.lgs. n. 235 del 2012 e la sua natura di corpus organico della normativa di cui qui si discute consentono di cogliere l’esistenza speculare di una matrice razionalmente unitaria del quesito.
Al contempo, e simmetricamente, anche la finalità dello stesso quesito è sufficientemente chiara e univoca, consistendo nella rimozione dall’ordinamento (mediante abrogazione) di tutte le norme che prevedono cause ostative all’assunzione e allo svolgimento di cariche elettive e di Governo, derivanti da una condanna penale per taluni reati.
Per tutte queste ragioni, infine, si deve altresì escludere che il quesito presenti carattere manipolativo o propositivo. In caso di abrogazione, infatti, verrebbero semplicemente rimosse dall’ordinamento le norme contenute nel d.lgs. n. 235 del 2012, senza che siano ipotizzabili effetti estensivi di altre discipline.
7.- Quanto all’idoneità dello specifico testo legislativo di cui qui si discute a essere oggetto di un referendum abrogativo, occorre precisare che la richiesta in esame non rientra in alcuna delle ipotesi per le quali l’indicazione testuale del secondo comma dell’art. 75 Cost. non consente il ricorso all’istituto referendario.
Si deve escludere, in particolare, che siano desumibili da fonti internazionali – e in particolare, dalle convenzioni internazionali richiamate nell’art. 1 della legge n. 190 del 2012 – obblighi per i singoli Stati di disciplinare la materia dei requisiti di moralità per ricoprire cariche elettive e di governo nei termini puntuali previsti nella normativa oggetto del quesito referendario.
Nessun vincolo specifico in tale senso si rinviene, infatti, né nella Convenzione penale sulla corruzione, fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999, ratificata e resa esecutiva con la legge 28 giugno 2012, n. 110, né nella Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dalla Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003, ratificata e resa esecutiva con la legge 3 agosto 2009, n. 116.
Sotto un diverso profilo, non spetta a questa Corte sindacare, nell’odierno giudizio, la legittimità costituzionale, né delle disposizioni recate dal d.lgs. n. 235 del 2012 – già fatte oggetto, del resto, di numerose questioni decise nel senso della non fondatezza o dell’inammissibilità con le pronunce sopra richiamate – né della normativa che residuerebbe all’esito dell’eventuale abrogazione referendaria.
7.1.- Occorre soffermarsi da ultimo sul profilo del carattere in ipotesi «a contenuto costituzionalmente vincolato» della normativa in esame, al fine di stabilire se essa contenga disposizioni «il cui nucleo normativo non possa venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali)» (sentenza n. 16 del 1978).
Questa Corte ha precisato che alla categoria delle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato «possono essere ricondotte due distinte ipotesi: innanzitutto, le leggi ordinarie che contengono l’unica necessaria disciplina attuativa conforme alla norma costituzionale, di modo che la loro abrogazione si tradurrebbe in lesione di quest’ultima (cfr. sentenze n. 26/1981 e 16/1978); in secondo luogo, le leggi ordinarie, la cui eliminazione ad opera del referendum, priverebbe totalmente di efficacia un principio o un organo costituzionale “la cui esistenza è invece voluta e garantita dalla Costituzione (cfr. sentenza n. 25/1981)”» (sentenza n. 27 del 1987), sicché la relativa normativa costituisce «il nucleo costituzionale irrinunciabile, un nucleo che [nondimeno] lascia largo spazio alla discrezionalità legislativa» (sentenza n. 42 del 2000).
7.2.- Stando ai termini della giurisprudenza costituzionale così ricostruita, si deve concludere che la normativa sull’incandidabilità non può essere qualificata, né come legge a contenuto costituzionalmente vincolato, né come legge costituzionalmente necessaria, e ciò, beninteso, ancorché la più volte citata giurisprudenza costituzionale contenga numerose indicazioni sulla sua riconducibilità ai principi di cui agli artt. 54 e 97 Cost. Tale riconosciuto fondamento non comporta, invero, né che il contenuto della normativa in esame sia costituzionalmente vincolato, né, d’altro canto, che, per obbligo costituzionale, debba necessariamente sussistere una disciplina dell’incandidabilità.
Quanto al primo profilo, si deve osservare che la specifica disciplina contenuta nel d.lgs. n. 235 del 2012, anche se, come detto, attua specifici valori costituzionali, di tali valori non concretizza una soluzione vincolata nel suo contenuto. Che la scelta operata con essa dal legislatore non costituisca l’unica modalità di possibile tutela di quei valori è anzi radicalmente escluso dal carattere ampiamente discrezionale delle scelte legislative che si esprimono in materia, scelte che, come questa Corte ha ripetutamente affermato, possono essere variamente modulate.
Quanto al secondo – ossia la riconducibilità del decreto in parola alle leggi costituzionalmente necessarie – non vi è dubbio che la normativa del d.lgs. 235 del 2012 è finalizzata a realizzare «interessi costituzionali protetti dall’art. 97, secondo comma, Cost., che affida al legislatore il compito di organizzare i pubblici uffici in modo che siano garantiti il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, e dall’art. 54, secondo comma, Cost., che impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche “il dovere di adempierle con disciplina ed onore”» (sentenza n. 236 del 2015; negli stessi termini, sentenze n. 276 del 2016, n. 36 del 2019 e n. 35 del 2021).
Ciò nondimeno, tali principi convivono nella Costituzione con altri, di pari rango, quali quelli enunciati agli artt. 48 e 51 Cost., e in particolare con il «principio della rappresentatività democratica» (sentenza n. 141 del 1996) e con essi anche i primi devono essere contemperati.
Proprio alla luce delle considerazioni che precedono si può escludere la natura di legge costituzionalmente necessaria del d.lgs. n. 235 del 2012, in quanto la disciplina da esso recata, diretta, com’è, alla garanzia dei richiamati interessi sottesi agli artt. 97, secondo comma, e 54, secondo comma, Cost., a fronte dei contrapposti interessi sottesi al principio di rappresentatività democratica, non identifica quel contenuto di tutela minima che in altre occasioni (si vedano le sentenze n. 35 del 1997 e 45 del 2005) ha portato questa Corte a escludere l’ammissibilità del referendum su complessi normativi che, fondandosi su un equilibrato bilanciamento tra i contrapposti interessi, tale tutela minima erano volti ad apprestare.
Da ultimo, è il caso di ribadire che l’eventuale abrogazione referendaria del d.lgs. n. 235 del 2012 non inciderebbe comunque sulla disciplina delle sanzioni penali accessorie e quindi sulle disposizioni del codice penale in materia di interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici.
8.- In definitiva, non ostandovi alcuna ragione di ordine costituzionale, la richiesta di referendum deve essere dichiarata ammissibile.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), richiesta dichiarata legittima con ordinanza del 29 novembre 2021 dall’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione.
Corte costituzionale, sentenza (ud.16 febbraio 2022) 8 marzo 2022, n. 57
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza del 29 novembre 2021, depositata il giorno successivo, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione ai sensi dell’art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo) e successive modificazioni, ha dichiarato legittima la richiesta di referendum abrogativo, promossa dai Consigli regionali delle Regioni Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte, sul seguente quesito: «Volete voi che sia abrogato il decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447 (Approvazione del codice di procedura penale) risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 274, comma 1, lett. c), limitatamente alle parole: “o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’art. 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni.”?».
2.– L’Ufficio centrale ha attribuito al quesito così proposto la seguente denominazione: «Limitazione delle misure cautelari: abrogazione dell’ultimo inciso dell’art. 274, comma 1, lett. c), codice di procedura penale, in materia di misure cautelari e, segnatamente, di esigenze cautelari, nel processo penale».
3.– Ricevuta la comunicazione dell’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum, il Presidente della Corte costituzionale ha fissato, per la conseguente trattazione e deliberazione, la camera di consiglio del 15 febbraio 2022, disponendo che ne fosse data comunicazione ai presentatori della richiesta di referendum e al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 33, secondo comma, della legge n. 352 del 1970.
4.– I Consigli regionali proponenti hanno depositato memoria l’11 febbraio 2022, concludendo affinché questa Corte dichiari ammissibile il quesito.
A loro avviso, la disposizione incisa dalla richiesta referendaria non rientra in alcuna delle categorie che l’art. 75, secondo comma, della Costituzione indica come precluse alla deliberazione popolare, né il quesito si presenta privo dei necessari caratteri di omogeneità, atteso che la sua formulazione «garantisce pienamente l’autenticità e la genuinità della manifestazione di volontà del corpo elettorale».
Non vi sarebbe, infine, alcun ostacolo all’ammissibilità neanche alla luce del limite costituito dalle disposizioni a carattere costituzionalmente vincolato, considerato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (è evocata la sentenza n. 64 del 1970), la disciplina delle misure cautelari è rimessa alla più ampia discrezionalità del legislatore.
5.– Ha depositato memoria l’11 febbraio 2022 anche la Regione autonoma della Sardegna, in persona del suo Presidente pro tempore, chiedendo che il referendum sia dichiarato ammissibile.
Motivi della decisione
1.– Il presente giudizio ha ad oggetto l’ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo dichiarata legittima con ordinanza del 29 novembre 2021 dell’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione.
Tale richiesta, promossa dai Consigli regionali delle Regioni Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte, ha ad oggetto l’abrogazione dell’ultimo inciso del primo periodo e dell’intero secondo periodo dell’art. 274, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447 (Approvazione del codice di procedura penale) e successive modificazioni e integrazioni, ossia limitatamente alle parole: «o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’art. 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni».
In esito al procedimento svoltosi di fronte all’Ufficio centrale per il referendum, al quesito abrogativo è stato attribuito il presente titolo: «Limitazione delle misure cautelari: abrogazione dell’ultimo inciso dell’art. 274, comma 1, lett. c), codice di procedura penale, in materia di misure cautelari e, segnatamente, di esigenze cautelari, nel processo penale».
2.– In via preliminare, si deve rilevare che, nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, questa Corte ha consentito l’illustrazione orale delle memorie depositate dai proponenti della richiesta referendaria ai sensi dell’art. 33, terzo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo) e, ancora prima, ha disposto l’ammissione degli scritti presentati da soggetti diversi da quelli indicati dalla disposizione ora richiamata e tuttavia interessati alla decisione sull’ammissibilità della richiesta di referendum, come contributi contenenti argomentazioni ulteriori rispetto a quelle altrimenti a disposizione della Corte (ex plurimis: sentenze n. 10 del 2020, n. 5 del 2015, n. 13 del 2012, n. 28, n. 27, n. 26, n. 25 e n. 24 del 2011).
Tale ammissione, che deve essere qui confermata, non si traduce però in un diritto di questi soggetti di partecipare al procedimento – che, comunque, «deve tenersi, e concludersi, secondo una scansione temporale definita» (sentenza n. 31 del 2000) – e di illustrare le relative tesi in camera di consiglio, ma comporta solo la facoltà della Corte, ove lo ritenga opportuno, di consentire brevi integrazioni orali degli scritti, come è appunto avvenuto nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, prima che i soggetti di cui al citato art. 33 abbiano illustrato le rispettive posizioni.
3.– La disposizione investita dalla richiesta di referendum abrogativo concorre a definire le esigenze cautelari che operano, congiuntamente ai «gravi indizi di colpevolezza» di cui all’art. 273 cod. proc. pen., quali condizioni generali di applicabilità delle misure cautelari personali di cui al Titolo I del Libro IV del codice di procedura penale. Essa, in particolare, individua al primo periodo l’esigenza cautelare consistente nel pericolo che la persona sottoposta alle indagini o l’imputato «commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede».
All’ultimo inciso di tale previsione, che è quello su cui si appunta la richiesta referendaria in esame, è poi connesso il periodo immediatamente successivo, anch’esso ricompreso nel quesito referendario, che delimita le soglie di pena dei delitti oggetto della specifica prognosi di recidiva in vista dell’applicazione delle sole misure cautelari custodiali e, in via di ulteriore specificazione, della custodia cautelare in carcere. Tale disposizione, introdotta dall’art. 3, comma 2, della legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa) e successivamente rimodulata, stabilisce oggi, a seguito delle modifiche da ultimo apportate con l’art. 2 della legge 16 aprile 2015, n. 47 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visita a persone affette da handicap in situazione di gravità), che, in caso di pericolo di commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte a carico dell’imputato o della persona sottoposta alle indagini soltanto se si tratta di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti, di cui all’art. 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 (Contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici).
Nessun limite di pena correlato ai delitti di cui si teme la reiterazione è quindi previsto per l’applicazione delle misure cautelari coercitive non custodiali e per le misure interdittive, per le quali valgono pertanto le condizioni di applicabilità ordinarie, rispettivamente previste dagli artt. 280 e 287 cod. proc. pen. Questi ultimi stabiliscono, in linea generale, che le misure cautelari personali, tanto coercitive quanto interdittive, possono essere applicate solo quando si procede per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni.
3.1.– Nell’ambito delle esigenze cautelari disciplinate dall’art. 274, comma 1, cod. proc. pen., quella prevista dalla lettera c) si correla nel suo complesso alle «esigenze di tutela della collettività» che già il legislatore delegante aveva tenuto distinte dalle restanti ragioni giustificatrici di misure cautelari, costituite dalle «inderogabili esigenze attinenti alle indagini e per il tempo strettamente necessario» ovvero dalla circostanza che «la persona si è data alla fuga o vi è concreto pericolo di fuga» (art. 2, numero 59, della legge 16 febbraio 1987, n. 81, recante «Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale»).
Tali ragioni, tradottesi rispettivamente nelle lettere a) e b) del medesimo art. 274, comma 1, cod. proc. pen., costituiscono pertanto la tipizzazione delle esigenze «strettamente inerenti al processo» che questa Corte, a partire dalla sentenza n. 64 del 1970, ha costantemente individuato quale ambito proprio di operatività delle misure cautelari nel processo penale.
L’esigenza cautelare di cui all’art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen. ha un fondamento in parte diverso, che va rinvenuto in finalità di prevenzione esterne al processo, da ricondursi – come detto – a «esigenze di tutela della collettività», locuzione che il legislatore delegante del 1987 ha ripreso (secondo quanto emerge dalla «Relazione governativa al testo definitivo del codice di procedura penale») dalla sentenza n. 1 del 1980 di questa Corte, in cui il perimetro di tale nozione veniva riferito al pericolo di commissione di reati contrassegnati da «uso d’armi o di altri mezzi di violenza contro le persone, riferibilità ad organizzazioni criminali comuni o politiche, direzione lesiva verso le condizioni di base della sicurezza collettiva o dell’ordine democratico».
Peraltro, nella medesima sentenza, già si dava conto del fatto che esigenze di prevenzione potessero porsi a fondamento di misure cautelari, come del resto questa Corte aveva rilevato a partire dalla richiamata sentenza n. 64 del 1970, allorché aveva stabilito che non si potesse «escludere che la legge possa (entro i limiti, non insindacabili, di ragionevolezza) presumere che la persona accusata di reato particolarmente grave e colpita da sufficienti indizi di colpevolezza, sia in condizione di porre in pericolo quei beni a tutela dei quali la detenzione preventiva viene predisposta».
A fianco, pertanto, delle fattispecie evocate nella sentenza n. 1 del 1980, contrassegnate da un’intrinseca gravità e tradottesi, nel testo vigente dell’art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., nel pericolo di commissione di «gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata», il legislatore delegato ha previsto l’esigenza cautelare connessa al pericolo che l’imputato o la persona sottoposta alle indagini commetta un delitto «della stessa specie di quello per cui si procede». Solo a partire dal 1995, come si è detto, tale prognosi di recidiva specifica è assistita da una condizione attinente alla gravità dei reati di cui si teme la reiterazione, ma unicamente ai fini dell’applicazione di una misura custodiale o, in termini ancora più stringenti, della custodia cautelare in carcere.
4.– Il quesito referendario, che investe unicamente l’esigenza cautelare consistente nel pericolo di commissione di delitti della stessa specie, è ammissibile.
5.– Non sussiste, innanzi tutto, alcuna preclusione derivante dalla potenziale interferenza tra la disposizione interessata dal quesito stesso e uno degli ambiti di cui all’art. 75, secondo comma, Cost., siano essi intesi alla luce di un’interpretazione letterale, ovvero sulla base di un’interpretazione logico-sistematica, così da far rientrare in tale categoria anche «le disposizioni produttive di effetti collegati in modo così stretto all’ambito di operatività delle leggi espressamente indicate dall’art. 75, che la preclusione debba ritenersi sottintesa» (secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, a partire dalla sentenza n. 16 del 1978).
5.1.– Nessun dubbio può aversi con riguardo alle leggi tributarie e di bilancio o a quelle di amnistia e di indulto. Né esistono obblighi internazionali che impongano l’adozione di misure di restrizione, per qualsivoglia reato, fondate sull’esigenza cautelare di cui si chiede l’abrogazione.
In particolare, appare evidente l’assenza di qualsiasi interferenza dell’eventuale abrogazione dell’esigenza cautelare in questione col complesso di disposizioni attinenti all’esecuzione delle richieste di mandato d’arresto europeo. L’art. 9, comma 5, della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), infatti, esclude espressamente che, per l’adozione delle misure cautelari coercitive finalizzate all’esecuzione del mandato d’arresto ad opera del Presidente della Corte d’appello, possa venire in rilievo l’esigenza cautelare di cui all’art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen.
6.– Neppure sussistono ostacoli all’ammissibilità con riguardo alle modalità di formulazione del quesito referendario, così come ricavabili anch’esse dall’interpretazione logico-sistematica della Costituzione (sentenze n. 174 del 2011, n. 137 del 1993, n. 48 del 1981 e n. 70 del 1978) e identificate nei requisiti della «omogeneità, chiarezza e semplicità, completezza, coerenza, idoneità a conseguire il fine perseguito, rispetto della natura ablativa dell’operazione referendaria» (sentenza n. 17 del 2016).
6.1.– Preliminare rispetto a tale scrutinio è l’accertamento intorno alla «evidenza del fine intrinseco all’atto abrogativo» (sentenza n. 47 del 1991), anche tenuto conto del fatto che la richiesta referendaria è atto privo di motivazione, sicché il quesito va interpretato «esclusivamente in base alla sua formulazione ed all’incidenza del referendum sul quadro normativo di riferimento» (ex multis, sentenza n. 25 del 2011 e, da ultimo, sentenza n. 51 del 2022). Solo mediante questo accertamento obiettivo, infatti, è possibile verificare, conformemente ai caratteri del giudizio di ammissibilità e senza che «possano venire in rilievo profili di illegittimità costituzionale della legge oggetto della richiesta referendaria o della normativa di risulta» (sentenza n. 13 del 2012), se dalle disposizioni di cui si propone l’abrogazione si possa trarre con chiarezza una «matrice razionalmente unitaria» (sentenze n. 25 del 1981 e n. 16 del 1978), vale a dire «un criterio ispiratore fondamentalmente comune o un principio, la cui eliminazione o permanenza viene fatta dipendere dalla risposta del corpo elettorale» (sentenza n. 17 del 2016).
Nel caso di specie, il quesito referendario, benché si avvalga della tecnica del ritaglio, investe un frammento normativo dotato di un autonomo contenuto precettivo, consistente nella previsione per cui il giudice può rinvenire una specifica esigenza cautelare nel pericolo che l’imputato o la persona sottoposta alle indagini commetta un delitto della stessa specie di quello per cui si procede. In questo modo, non può dubitarsi che un’obiettiva ratio sorregga la specifica operazione referendaria, consistente nell’eliminazione dell’esigenza cautelare fondata sul pericolo derivante da una prognosi di recidiva specifica, e nella conseguente finalità di limitare l’operatività dell’art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen. al solo pericolo di commissione di gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata. Alla previsione che potrebbe residuare dall’eventuale abrogazione referendaria, poi, si correlerebbe, senza frizioni sistematiche, quello che costituisce effettivamente l’ultimo inciso della previsione in parola, secondo cui «[l]e situazioni di concreto e attuale pericolo, anche in relazione alla personalità dell’imputato, non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede».
6.2.– Alla luce di quanto appena illustrato, si deve pertanto ritenere che il quesito referendario, in quanto privo di quei connotati di manipolatività idonei a denotare un carattere «surrettiziamente propositivo» dell’alternativa posta al corpo elettorale (sentenze n. 10 del 2020, n. 13 del 2012, n. 26 del 2011 e n. 33 del 2000), tende in realtà «a un esito netto e lineare, in ragione della propria natura meramente ablativa, concretandosi le conseguenze abrogative in una situazione esattamente contraria a quella prevista dalle norme oggetto del referendum e facilmente percepibile dal corpo elettorale» (sentenza n. 13 del 1995).
Se tanto pare sufficiente a riscontrare i sopra menzionati requisiti dell’omogeneità, della chiarezza e semplicità del quesito, della sua idoneità a conseguire il fine perseguito e del rispetto della natura ablativa dell’operazione referendaria, lo stesso è a dirsi per ciò che concerne la completezza e la coerenza dell’abrogazione sottoposta al giudizio del corpo elettorale.
A partire dalla sentenza n. 27 del 1981, infatti, questa Corte ha ritenuto che un quesito referendario sia privo, nel suo complesso, del carattere dell’omogeneità laddove esso non sia assistito dai caratteri di una necessaria autosufficienza dell’atto abrogativo, come nel caso in cui vengano lasciate intatte disposizioni idonee a garantire la perdurante operatività di interi plessi normativi di cui si chiedeva l’eliminazione ad opera del voto popolare (sentenze n. 35 del 2000, n. 30 del 1997 e n. 36 del 1993).
Nel caso di specie, nonostante la centralità della disposizione oggetto della richiesta abrogativa nella disciplina codicistica riguardante le misure cautelari, il quesito che si intende sottoporre al corpo elettorale non ha mancato di includere alcuna disposizione funzionalmente collegata a quella di cui si chiede l’abrogazione, sicché non vengono minate né la sua coerenza, né la sua completezza.
Richiami testuali all’art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen. nel suo complesso figurano, innanzi tutto, nell’art. 275, comma 1-bis (in tema di misure cautelari applicate contestualmente alla sentenza di condanna) e nell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen. (in tema di applicazione di misure cautelari al soggetto condannato per lo stesso fatto a seguito di proscioglimento o di sentenza di non luogo a procedere). In nessun modo, tuttavia, è possibile ritenere che il quesito incida sull’operatività di tali previsioni, che continuerebbero ad applicarsi, ma riferendosi al contenuto dell’art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen. che residuerebbe dall’eventuale abrogazione referendaria.
Allo stesso esito si deve poi addivenire con riguardo a quanto stabilito dall’art. 391, comma 5, secondo periodo, cod. proc. pen., che consente al giudice, in sede di convalida dell’arresto facoltativo, di applicare una misura coercitiva nei confronti del soggetto arrestato «per uno dei delitti indicati nell’articolo 381, comma 2, cod. proc. pen., ovvero per uno dei delitti per i quali l’arresto è consentito anche fuori dei casi di flagranza», «anche al di fuori dei limiti di pena previsti dagli articoli 274, comma 1, lettera c), e 280».
Si tratta, come ritenuto da questa Corte da ultimo nella sentenza n. 137 del 2020, di un meccanismo di portata derogatoria rispetto agli ordinari presupposti applicativi delle misure cautelari coercitive, che tuttavia – ai fini che in questa sede interessano – vedrebbe garantita la sua operatività anche in esito all’eventuale realizzarsi dell’operazione referendaria, in quanto la deroga in esso contenuta continuerebbe a valere unicamente rispetto alle soglie di pena fissate dall’art. 280 cod. proc. pen. Peraltro, nulla impedirebbe al legislatore di intervenire sulla disciplina di risulta, fermo restando medio tempore il «compito dell’interprete [di] apprezzare le conseguenze che, dall’eventuale esito positivo della consultazione, potranno derivare sulla normativa di contorno non inclusa nel quesito» (sentenza n. 22 del 1997).
7.– Non vi sono, infine, ragioni ostative all’ammissibilità del quesito derivanti dalla natura costituzionalmente necessaria della disposizione di cui si chiede l’abrogazione con referendum.
Sin dalla sentenza n. 16 del 1978, tale ordine di limitazioni è stato individuato alla luce della necessità di preservare l’esistenza di «valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum, al di là della lettera dell’art. 75 secondo comma Cost.». Una delle categorie in cui si articolava tale limite consisteva, in particolare, nei «referendum aventi per oggetto disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato, il cui nucleo normativo non possa venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali)». Più in particolare, questa Corte aveva chiarito allora, e costantemente ha ribadito nei decenni successivi, che tale categoria non si riferisce a «tutte le leggi ordinarie comunque costitutive od attuative di istituti, di organi, di procedure, di principi stabiliti o previsti dalla Costituzione», ma solo a quelle «che non possono venir modificate o rese inefficaci, senza che ne risultino lese le corrispondenti disposizioni costituzionali».
Successivamente, anche alla luce della «naturale difficoltà a distinguere in concreto le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato da quelle semplicemente riferibili a norme e principi costituzionali» (sentenza n. 45 del 2005), questa Corte ha individuato il proprium di tale categoria nel fatto che «la legge ordinaria da abrogare incorpori determinati principi o disposti costituzionali, riproducendone i contenuti o concretandoli nel solo modo costituzionalmente consentito» (sentenza n. 26 del 1981).
Con la sentenza n. 27 del 1987 sono state conseguentemente individuate due distinte ipotesi al cui metro valutare la riferibilità della disposizione oggetto di referendum a un contenuto costituzionalmente necessitato: «[i]nnanzitutto le leggi ordinarie che contengono l’unica necessaria disciplina attuativa conforme alla norma costituzionale, di modo che la loro abrogazione si tradurrebbe in lesione di quest’ultima (cfr. sentenze n. 16/1978 e n. 26/1981); in secondo luogo, le leggi ordinarie, la cui eliminazione ad opera del referendum priverebbe totalmente di efficacia un principio o un organo costituzionale “la cui esistenza è invece voluta e garantita dalla Costituzione (cfr. sentenza n. 25 del 1981)”».
Parallelamente, questa Corte ha individuato, nel novero delle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato, «anche la categoria delle leggi ordinarie la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione» (sentenza n. 35 del 1997).
7.1.– La disposizione incisa dalla richiesta di referendum in esame non presenta alcuno dei caratteri in cui si è articolata, nella giurisprudenza di questa Corte, la categoria delle leggi a contenuto costituzionalmente necessario o vincolato.
Essa non mostra, infatti, alcun rapporto di necessaria implicazione con una disposizione o un principio costituzionali suscettibili di veder menomata la loro portata in caso di abrogazione referendaria, né, a maggior ragione, può ritenersi che essa costituisca l’unica modalità costituzionalmente compatibile di inveramento di un principio o di un disposto costituzionale. Anzi, essa deve contemperarsi con il principio stabilito dall’art. 27, secondo comma, Cost., in base al quale «[l]’ imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva».
Del resto, questa Corte ha costantemente ribadito che lo strumento penale costituisce «un’extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando, nel suo discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per l’assenza o l’inadeguatezza di altri mezzi di tutela» (sentenza n. 8 del 2022), considerato che «[l]e esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono […] nella (eventuale) tutela penale, ben potendo invece essere soddisfatte con diverse forme di precetti e di sanzioni» (sentenza n. 447 del 1998; nello stesso senso, sentenza n. 317 del 1996). Principio, questo, che non può non riverberarsi anche sulle misure cautelari personali, soprattutto quelle privative della libertà personale, approntate dal legislatore in vista del conseguimento delle finalità proprie del processo penale e per fronteggiare imprescindibili esigenze di tutela della collettività ancor prima dell’accertamento della responsabilità penale (sentenza n. 22 del 2022), alle quali ultime si riferisce specificamente la disposizione della quale si chiede la parziale abrogazione per via referendaria. Esigenze, giova sottolineare, a presidio delle quali resterebbe, in ogni caso, il frammento dell’art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., non interessato dal quesito referendario, che continuerebbe a consentire di ravvisare un’esigenza cautelare nel pericolo di compimento di «gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata».
8.– Non ostandovi, pertanto, alcuna ragione di ordine costituzionale, la richiesta di referendum deve essere dichiarata ammissibile.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’art. 274, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447 (Approvazione del codice di procedura penale) e successive modificazioni e integrazioni, limitatamente alle parole: «o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’art. 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni», richiesta dichiarata legittima con ordinanza del 29 novembre 2021 dall’Ufficio centrale per il referendum.
Corte costituzionale, sentenza (ud.16 febbraio 2022) 8 marzo 2022, n. 58
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza del 29 novembre 2021, depositata il 1° dicembre 2021, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge la richiesta di referendum popolare abrogativo, promossa dai Consigli regionali delle Regioni Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte sul seguente quesito:
«Volete voi che siano abrogati:
l’“Ordinamento giudiziario” approvato con Regio Decreto 30 gennaio 1941, n. 12, risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 192, comma 6, limitatamente alle parole: “, salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del consiglio superiore della magistratura”; la Legge 4 gennaio 1963, n. 1 (Disposizioni per l’aumento degli organici della Magistratura e per le promozioni), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 18, comma 3: “La Commissione di scrutinio dichiara, per ciascun magistrato scrutinato, se è idoneo a funzioni direttive, se è idoneo alle funzioni giudicanti o alle requirenti o ad entrambe, ovvero alle une a preferenza delle altre”; il Decreto Legislativo 30 gennaio 2006, n. 26 (Istituzione della Scuola superiore della magistratura, nonché disposizioni in tema di tirocinio e formazione degli uditori giudiziari, aggiornamento professionale e formazione dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera b), della legge 25 luglio 2005, n. 150), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 23, comma 1, limitatamente alle parole: “nonché per il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa”; il Decreto Legislativo 5 aprile 2006, n. 160 (Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n. 150), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, in particolare dall’art. 2, comma 4 della l. 30 luglio 2007, n. 111 e dall’art. 3-bis, comma 4 lett. b) del Decreto-Legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito con modificazioni dalla L. 22 febbraio 2010, n. 24, limitatamente alle seguenti parti: art. 11, comma 2, limitatamente alle parole: “riferita a periodi in cui il magistrato ha svolto funzioni giudicanti o requirenti”; art. 13, riguardo alla rubrica del medesimo, limitatamente alle parole: “e passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa”; art. 13, comma 1, limitatamente alle parole: “il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti,”; art. 13, comma 3: “3. Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni. Il passaggio di cui al presente comma può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario. Per tale giudizio di idoneità il consiglio giudiziario deve acquisire le osservazioni del presidente della corte di appello o del procuratore generale presso la medesima corte a seconda che il magistrato eserciti funzioni giudicanti o requirenti. Il presidente della corte di appello o il procuratore generale presso la stessa corte, oltre agli elementi forniti dal capo dell’ufficio, possono acquisire anche le osservazioni del presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati e devono indicare gli elementi di fatto sulla base dei quali hanno espresso la valutazione di idoneità. Per il passaggio dalle funzioni giudicanti di legittimità alle funzioni requirenti di legittimità, e viceversa, le disposizioni del secondo e terzo periodo si applicano sostituendo al consiglio giudiziario il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, nonché sostituendo al presidente della corte d’appello e al procuratore generale presso la medesima, rispettivamente, il primo presidente della Corte di cassazione e il procuratore generale presso la medesima.”; art. 13, comma 4: “4. Ferme restando tutte le procedure previste dal comma 3, il solo divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, all’interno dello stesso distretto, all’interno di altri distretti della stessa regione e con riferimento al capoluogo del distretto di corte d’appello determinato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni, non si applica nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza. Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza. La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento.”; art. 13, comma 5: “5. Per il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, l’anzianità di servizio è valutata unitamente alle attitudini specifiche desunte dalle valutazioni di professionalità periodiche.”; art. 13, comma 6: “6. Le limitazioni di cui al comma 3 non operano per il conferimento delle funzioni di legittimità di cui all’articolo 10, commi 15 e 16, nonché, limitatamente a quelle relative alla sede di destinazione, anche per le funzioni di legittimità di cui ai commi 6 e 14 dello stesso articolo 10, che comportino il mutamento da giudicante a requirente e viceversa.”; il Decreto-Legge 29 dicembre 2009 n. 193, convertito con modificazioni nella legge 22 febbraio 2010, n. 24 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 3, comma 1, limitatamente alle parole: “Il trasferimento d’ufficio dei magistrati di cui al primo periodo del presente comma può essere disposto anche in deroga al divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti e viceversa, previsto dall’articolo 13, commi 3 e 4, del Decreto Legislativo 5 aprile 2006, n. 160.”?».
2.- L’Ufficio centrale per il Referendum ha attribuito al quesito il seguente titolo: «Separazione delle funzioni dei magistrati. Abrogazione delle norme in materia di ordinamento giudiziario che consentono il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa nella carriera dei magistrati».
3.- Ricevuta comunicazione dell’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum, depositata in Cancelleria in data 1° dicembre 2021, il Presidente di questa Corte ha fissato per la conseguente deliberazione la camera di consiglio del 15 febbraio 2022, disponendo che ne fosse data comunicazione ai delegati dei Consigli regionali presentatori della richiesta di referendum e al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 33, secondo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo).
4.- Avvalendosi della facoltà prevista dall’art. 33, terzo comma, della legge n. 352 del 1970, i delegati dei Consigli regionali che hanno richiesto il referendum hanno depositato, in data 11 febbraio 2022, una memoria per illustrare le ragioni a sostegno dell’ammissibilità dello stesso.
Dopo aver ricostruito l’evoluzione della normativa riguardante il passaggio dei magistrati dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti, e viceversa, i delegati hanno illustrato l’assetto attuale della relativa disciplina e, in particolare, il contenuto delle disposizioni oggetto del quesito referendario, rilevando come esse non rientrino nelle categorie di leggi con riferimento alle quali l’art. 75, secondo comma, della Costituzione preclude il ricorso all’abrogazione referendaria. Hanno poi sottolineato come la chiara finalità del quesito sia quella di «escludere la possibilità del passaggio, durante la carriera del magistrato, dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa», sicché la formulazione del quesito garantirebbe «l’autenticità e la genuinità della manifestazione di volontà del corpo elettorale», potendosi trarre dalle norme proposte per l’abrogazione una matrice razionalmente unitaria. Sarebbe anche da escludere un carattere «manipolativo o surrettiziamente propositivo» della richiesta referendaria, come peraltro sarebbe già stato ritenuto da questa Corte nella sentenza n. 37 del 2000, allorché si è pronunciata sull’ammissibilità di un quesito sulla stessa materia. Hanno, infine, evidenziato che, come nel caso della richiesta vagliata nella citata sentenza n. 37 del 2000, anche l’odierno quesito non comprende talune disposizioni – ad esempio quelle recate dall’art. 2 del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), in tema di trasferimento d’ufficio per incompatibilità – che pure contemplano la possibilità di un passaggio di funzioni, affermando tuttavia che l’omissione sarebbe del tutto ininfluente ai fini dell’ammissibilità della domanda referendaria. Infine, hanno ricordato come la già citata sentenza n. 37 del 2000, da un lato, abbia escluso che le disposizioni che regolano la materia in esame possano ascriversi a quelle aventi contenuto «costituzionalmente vincolato». La pronuncia citata, dall’altro lato, avrebbe sottolineato la possibilità di un intervento successivo del legislatore, volto ad eliminare eventuali incongruenze nella normativa di risulta.
5.- Sempre in data 11 febbraio 2022, il Presidente della Regione autonoma Sardegna ha depositato, a sua volta, una memoria a sostegno dell’ammissibilità del referendum. Ha rilevato, in primo luogo, che le disposizioni indicate nel quesito non rientrano tra quelle per le quali l’art. 75 Cost. esclude il ricorso al referendum. In secondo luogo, ha sostenuto che non potrebbero neppure invocarsi i limiti ulteriori, rispetto a quelli esplicitati dal disposto letterale dell’art. 75, secondo comma, Cost., enucleati dalla giurisprudenza costituzionale. Non si sarebbe, infatti, in presenza di leggi costituzionalmente necessarie o di quesiti privi di una matrice unitaria o caratterizzati da una scarsa chiarezza, tale da produrre «un disorientamento dei cittadini nell’esprimere il voto», o privi di omogeneità e univocità oppure, ancora, tendenti ad introdurre nuove statuizioni del tutto estranee al contesto normativo. Ha, quindi, evidenziato che la proposta abrogativa sottoposta al vaglio di ammissibilità «mira ad eliminare la facoltà per il magistrato di passare dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa», senza che ciò possa considerarsi lesivo di qualsivoglia principio costituzionale, tanto più che, secondo l’interveniente, il legislatore resterebbe libero di intervenire con una nuova disciplina che, «pur non contrastando con la volontà popolare, attenui gli effetti dell’espressione della scelta secca connaturale all’abrogazione referendaria».
Motivi della decisione
1.– La richiesta di referendum abrogativo investe le seguenti disposizioni:
a) l’art. 192, comma 6, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), il cui testo recita: «Non sono ammesse domande di tramutamento con passaggio dalle funzioni giudicanti alle requirenti o viceversa, salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del consiglio superiore della magistratura». Il quesito propone l’abrogazione dell’inciso «salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del consiglio superiore della magistratura», in tal modo mirando a lasciare in vigore il disposto che sancisce l’inammissibilità di domande di tramutamento con passaggio dalle une alle altre funzioni;
b) l’art. 18, comma 3, della legge 4 gennaio 1963, n. 1 (Disposizioni per l’aumento degli organici della Magistratura e per le promozioni), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, secondo cui: «La Commissione di scrutinio dichiara, per ciascun magistrato scrutinato, se è idoneo a funzioni direttive, se è idoneo alle funzioni giudicanti o alle requirenti o ad entrambe, ovvero alle une a preferenza delle altre». La disposizione, la cui «permanenza in vigore» è stata dichiarata «indispensabile» dall’art. 1, comma 1, del decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246), è, peraltro, strettamente collegata alla disciplina dei concorsi per la destinazione alle funzioni di appello e di cassazione e risulta perciò desueta, poiché tale disciplina è stata superata dalla legislazione successiva in tema di progressione in carriera dei magistrati;
c) l’art. 23, comma 1, del decreto legislativo 30 gennaio 2006, n. 26, recante «Istituzione della Scuola superiore della magistratura, nonché disposizioni in tema di tirocinio e formazione degli uditori giudiziari, aggiornamento professionale e formazione dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera b), della legge 25 luglio 2005, n. 150». La disposizione prevede che il comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura – anche in vista del «passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa» – approvi annualmente il piano dei corsi di formazione, tenendo conto della diversità delle funzioni svolte dai magistrati. La disposizione, quindi, risulta in stretta correlazione con le previsioni di cui al decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, recante «Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n. 150», che impongono, quale requisito per il passaggio dalle funzioni giudicanti e requirenti e viceversa, la preliminare partecipazione ad un apposito corso di formazione;
d) l’art. 11, comma 2, del d.lgs. n. 160 del 2006, limitatamente alle parole: «riferita a periodi in cui il magistrato ha svolto funzioni giudicanti o requirenti».
Tale articolo disciplina le periodiche valutazioni di professionalità cui i magistrati sono sottoposti nel corso della carriera, in riferimento ai parametri della capacità, laboriosità, diligenza e impegno. Il comma 2 prevede, in particolare, che la valutazione di professionalità, appunto riferita a periodi in cui il magistrato ha svolto funzioni giudicanti o requirenti, non può riguardare in nessun caso l’attività di interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove.
L’abrogazione del frammento normativo mira ad espungere dalla disposizione il riferimento ai periodi di svolgimento, da parte del magistrato, di funzioni sia giudicanti che requirenti, per evitare che dalla permanenza in vigore di tale parte di disposizione possa desumersi la perdurante possibilità di transitare dall’una funzione all’altra;
e) l’art. 13 del d.lgs. n. 160 del 2006, riguardo alla rubrica del medesimo, limitatamente alle parole: «e passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa», e ai commi 1, limitatamente alle parole: «il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti,», 3, 4, 5 e 6;
Le disposizioni contenute nell’art. 13 costituiscono il “cuore” del quesito referendario, disciplinando nei dettagli il passaggio di funzione.
Tale articolo prevede, come regola generale, che il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, importi un cambiamento di sede. Infatti, il mutamento di funzioni, ai sensi del comma 3 del citato art. 13, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa Regione, né infine con riferimento al capoluogo del distretto di corte d’appello determinato ai sensi dell’art. 11 del codice di procedura penale, avuto riguardo al distretto nel quale il magistrato presta servizio al momento della richiesta.
Inoltre, sempre ai sensi del comma 3, tale passaggio può essere richiesto per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera e solo dopo aver svolto la stessa funzione per almeno cinque anni. Occorre, a tal fine, partecipare ad una procedura concorsuale – previa frequentazione, come s’è visto, di appositi corsi di qualificazione professionale presso la Scuola superiore della magistratura – nonché ottenere un giudizio di idoneità espresso dal Consiglio superiore della magistratura, su parere del Consiglio giudiziario (o del Consiglio direttivo della Corte di cassazione, in caso di richiesta di passaggio dalle funzioni giudicanti di legittimità alle funzioni requirenti di legittimità, e viceversa).
La medesima disposizione introduce dei temperamenti a questa disciplina.
Ai sensi del comma 6, infatti, i limiti appena illustrati non operano in caso di conferimento delle funzioni direttive superiori giudicanti e requirenti di legittimità o per le funzioni direttive apicali di legittimità; né è previsto l’obbligo di mutare sede per il conferimento delle funzioni di legittimità e direttive di legittimità che comportino il mutamento da giudicante a requirente e viceversa.
Per tutti i magistrati, il comma 4 prevede che non si debba cambiare Regione, ma trasferirsi in un diverso circondario e in una diversa Provincia rispetto a quella di provenienza, se il giudice che chiede il passaggio alle funzioni requirenti abbia svolto, negli ultimi cinque anni, funzioni esclusivamente civili o del lavoro; o se il pubblico ministero chieda di passare alle funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni – ove vi siano posti vacanti – in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Sono previste, altresì, ulteriori limitazioni in caso di successivi trasferimenti con mutamento di funzioni.
In tutti i casi considerati, il medesimo comma 4 prevede, ancora, una incompatibilità che opera solo nell’ambito dello stesso distretto per coloro che, oltre a cambiare funzione, passino da un organo giudiziario di primo ad uno di secondo grado.
Infine, il comma 5 dispone che, per il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, l’anzianità di servizio è valutata unitamente alle attitudini specifiche desunte dalle valutazioni di professionalità periodiche;
f) l’art. 3, comma 1, del decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario), convertito, con modificazioni, in legge 22 febbraio 2010, n. 24, limitatamente alle seguenti parole: «Il trasferimento d’ufficio dei magistrati di cui al primo periodo del presente comma può essere disposto anche in deroga al divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti e viceversa, previsto dall’articolo 13, commi 3 e 4, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160».
La disposizione regola la copertura delle sedi rimaste vacanti «per difetto di magistrati richiedenti» (così la rubrica dell’art. 3).
Si tratta delle sedi individuate quali “disagiate” ai sensi dell’art. 1 della legge 4 maggio 1998, n. 133 (Incentivi ai magistrati trasferiti d’ufficio a sedi disagiate e introduzione delle tabelle infradistrettuali). La disposizione prevede che – «[f]ino al 31 dicembre 2014» – per tali sedi, rimaste vacanti per difetto di aspiranti e per le quali non siano intervenute dichiarazioni di disponibilità o manifestazioni di consenso al trasferimento, il Consiglio superiore della magistratura possa provvedere alla copertura con il trasferimento d’ufficio dei magistrati che abbiano conseguito la prima o la seconda valutazione di professionalità o che, se pure abbiano conseguito una valutazione di professionalità superiore, abbiano oltrepassato il limite decennale di permanenza nell’incarico presso lo stesso ufficio e nell’esercizio delle medesime funzioni, previsto dall’art. 19 del d.lgs. n. 160 del 2006. L’ultimo periodo della disposizione in esame prevede che, nei casi illustrati, il trasferimento d’ufficio possa essere disposto anche in deroga ai limiti al passaggio di funzioni dettati dai commi 3 e 4 dell’art. 13 del d.lgs. n. 160 del 2006: e proprio per tale ragione è ricompresa tra le norme soggette a referendum abrogativo.
2.– In via preliminare, occorre rilevare che, nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, questa Corte ha consentito – come più volte avvenuto in passato (da ultimo, sentenza n. 10 del 2020) – l’illustrazione orale delle memorie depositate dai soggetti presentatori del referendum ai sensi dell’art. 33, terzo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), nonché la presentazione di scritti da parte di un soggetto ulteriore – nella specie, il Presidente della Regione autonoma Sardegna – in quanto interessato alla decisione sull’ammissibilità delle richieste referendarie (ex plurimis: sentenze n. 10 del 2020, n. 5 del 2015, n. 13 del 2012, n. 28, n. 27, n. 26, n. 25 e n. 24 del 2011, n. 17, n. 16 e n. 15 del 2008).
L’ammissione di soggetti diversi dai presentatori, orientata ad acquisirne le argomentazioni, non si traduce in un diritto degli stessi a partecipare al procedimento – che, comunque, «deve tenersi, e concludersi, secondo una scansione temporale definita» (sentenze n. 10 del 2020 e n. 31 del 2000) – né in quello di illustrare le relative tesi in camera di consiglio. Con l’ammissione di tali soggetti, invece, questa Corte consente brevi integrazioni orali degli scritti, come appunto è avvenuto nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022.
3.– Questa Corte è chiamata a giudicare sull’ammissibilità della richiesta di referendum alla luce, sia dei criteri desumibili dall’art. 75 Cost., sia del complesso dei «valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie», stabilendo se, ad integrazione delle ipotesi che il secondo comma dell’art. 75 Cost. ha previsto in maniera puntuale ed espressa, «non s’impongano altre ragioni, costituzionalmente rilevanti, in nome delle quali si renda indispensabile precludere il ricorso al corpo elettorale» (sentenza n. 16 del 1978; da ultimo, nello stesso senso, sentenza n. 10 del 2020).
4.– Ciò posto, è già stata ritenuta ammissibile in passato la richiesta di referendum popolare avente ad oggetto disposizioni – o parti di disposizioni – delle leggi di ordinamento giudiziario relative al passaggio dei magistrati dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa.
Nella sentenza n. 37 del 2000, infatti, è stata innanzitutto affermata l’estraneità della disciplina in questione alle categorie di leggi per le quali l’art. 75, secondo comma, Cost. preclude espressamente il ricorso all’abrogazione referendaria.
Questa valutazione deve essere confermata con riferimento alle disposizioni, o parti di disposizioni, ricomprese nell’odierno quesito. Non sussistono, pertanto, sotto questo profilo, ostacoli all’ammissibilità del referendum.
5.– Sempre nel solco del precedente appena citato, va anche escluso che il quesito investa disposizioni il cui contenuto normativo risulti costituzionalmente vincolato.
Le disposizioni oggetto di referendum ben potrebbero essere private di efficacia senza che ne risultino lesi specifici disposti della Costituzione o di altre leggi costituzionali (sentenza n. 16 del 1978). Nella sentenza n. 37 del 2000 questa Corte, infatti, ha chiarito che la Costituzione, «pur considerando la magistratura come un unico “ordine”, soggetto ai poteri dell’unico Consiglio superiore (art. 104), non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni».
6.– Nel caso all’odierno esame, come emerge anche dal titolo assegnato al quesito dall’Ufficio centrale («Separazione delle funzioni dei magistrati. Abrogazione delle norme in materia di ordinamento giudiziario che consentono il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa nella carriera dei magistrati»), l’intento dei proponenti, obiettivato nelle disposizioni ricomprese nel quesito, è quello di rendere irreversibile, attraverso l’abrogazione referendaria, la scelta operata dal magistrato, all’inizio della carriera, circa le funzioni (giudicanti o requirenti) da esercitare.
Occorre, peraltro, precisare che l’eventuale esito positivo del referendum avrebbe altresì, quale effetto, la “cristallizzazione” immediata delle funzioni attualmente esercitate dai magistrati in servizio.
In ogni caso, il quesito referendario presenta carattere omogeneo e completo, matrice unitaria, nonché struttura binaria (sentenza n. 47 del 1991; più recentemente, sentenza n. 27 del 2017).
Pur coinvolgendo una pluralità di disposizioni contenute in diversi testi normativi, esso chiama univocamente il corpo elettorale a pronunciarsi su una chiara alternativa: se i magistrati possano continuare a mutare di funzione nel corso della carriera, oppure se tale possibilità debba essere eliminata.
Del resto, la circostanza che la domanda referendaria riguardi molteplici disposizioni, anche di diversi atti legislativi, è, da un lato, inevitabile conseguenza della frammentarietà dello stesso contesto normativo di riferimento, dall’altro, ossequio al requisito della completezza del quesito, che non sarebbe soddisfatto se il principio o la regola oggetto di referendum sopravvivesse all’abrogazione perché costituente oggetto di norme non sottoposte al voto popolare, determinando una contraddizione e un conseguente difetto di chiarezza verso gli elettori (sentenze n. 42 e 38 del 1997).
Né comporta di per sé disomogeneità del quesito la circostanza che siano sottoposte a referendum una pluralità di disposizioni, proprio in quanto le previsioni da esso coinvolte sono certamente accomunate dalla eadem ratio (sentenza n. 28 del 2011).
7.– Ancora, come pure era stato deciso nella sentenza n. 37 del 2000, il quesito in esame ha «un carattere effettivamente abrogativo e non “introduttivo”».
Esso non manifesta, infatti, alcun intento surrettiziamente propositivo, poiché la domanda referendaria mira ad eliminare in toto la possibilità del mutamento delle funzioni, senza sostituire la disciplina vigente con altra, diversa ed estranea al contesto normativo di partenza (sentenza n. 34 del 2000).
8.– Infine, non è di ostacolo all’ammissibilità del referendum la circostanza che – tra le disposizioni che governano il percorso professionale dei magistrati – possano essere rimaste estranee al quesito referendario alcune di esse, astrattamente compatibili con il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti, e viceversa. Vale il rilievo, desumibile dalla costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui non inficia l’operazione referendaria il fatto che non siano ricompresi nella domanda sottoposta agli elettori elementi normativi marginali, «rimanendo comunque affidato alla discrezionalità del legislatore ed all’interpretazione sistematica della giurisprudenza, in caso di esito positivo del referendum, il compito di ricondurre la disciplina ad unità ed armonia» (ex multis: sentenza n. 38 del 1997).
9.– Rimane del resto ferma la possibilità – rientrante tra i compiti del legislatore – che, a seguito dell’eventuale abrogazione referendaria, si pongano in essere gli interventi legislativi necessari per rivedere organicamente la normativa “di risulta”, e per l’introduzione di discipline transitorie e conseguenziali, onde evitare, in particolare, la immediata “cristallizzazione” delle funzioni attualmente in essere.
10.– Non ostandovi alcuna ragione di ordine costituzionale, la richiesta di referendum deve dunque essere dichiarata ammissibile.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione delle seguenti disposizioni: art. 192, comma 6, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), limitatamente alle parole: «, salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del consiglio superiore della magistratura»; art. 18, comma 3, della legge 4 gennaio 1963, n. 1 (Disposizioni per l’aumento degli organici della Magistratura e per le promozioni); art. 23, comma 1, del decreto legislativo 30 gennaio 2006, n. 26, recante «Istituzione della Scuola superiore della magistratura, nonché disposizioni in tema di tirocinio e formazione degli uditori giudiziari, aggiornamento professionale e formazione dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera b), della legge 25 luglio 2005, n. 150», limitatamente alle parole: «nonché per il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa»; art. 11, comma 2, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, recante «Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n. 150», limitatamente alle parole: «riferita a periodi in cui il magistrato ha svolto funzioni giudicanti o requirenti»; art. 13 del d.lgs. n. 160 del 2006, riguardo alla rubrica del medesimo, limitatamente alle parole: «e passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa», e ai commi 1, limitatamente alle parole: «il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti,», 3, 4, 5 e 6; art. 3, comma 1, del decreto-legge 29 dicembre 2009 n. 193 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario), convertito, con modificazioni, in legge 22 febbraio 2010, n. 24, limitatamente alle parole: «Il trasferimento d’ufficio dei magistrati di cui al primo periodo del presente comma può essere disposto anche in deroga al divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti e viceversa previsto dall’articolo 13, commi 3 e 4, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160»; richiesta dichiarata legittima dall’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Corte costituzionale, sentenza (ud.16 febbraio 2022) 8 marzo 2022, n. 59
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza del 1° dicembre 2021, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, a norma dell’art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge la richiesta di referendum popolare abrogativo, promossa dai Consigli regionali delle Regioni Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte, sul seguente quesito:
«Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 (Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei Consigli giudiziari, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera c) della legge 25 luglio 2005 n. 150), risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 8, comma 1, limitatamente alle parole “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 7, comma 1, lettera a)”; art. 16, comma 1, limitatamente alle parole: “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 15, comma 1, lettere a), d) ed e)?”».
2.– L’Ufficio centrale, con la stessa ordinanza, ha ritenuto opportuno, per maggior chiarezza e tenuto conto delle osservazioni espresse dagli stessi Consigli promotori, integrare la denominazione del quesito, originariamente individuata in «Abrogazione di norme in materia di composizione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari e delle competenze dei membri laici che ne fanno parte», anteponendovi la locuzione «Partecipazione dei membri laici a tutte le deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari».
L’Ufficio centrale per il referendum ha, quindi, disposto di attribuire alla richiesta referendaria la seguente denominazione: «Partecipazione dei membri laici a tutte le deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari. Abrogazione di norme in materia di composizione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari e delle competenze dei membri laici che ne fanno parte».
3.– Il Presidente di questa Corte, ricevuta comunicazione dell’ordinanza, ha fissato, per la conseguente deliberazione, la camera di consiglio del 15 febbraio 2022, dandone comunicazione ai sensi dell’art. 33 della legge n. 352 del 1970.
4.– Nell’imminenza della camera di consiglio, i Consigli regionali promotori della richiesta referendaria hanno depositato una memoria a sostegno della sua ammissibilità.
I Consigli promotori premettono che le disposizioni di cui si chiede l’abrogazione sono contenute nel d.lgs. n. 25 del 2006, che, in attuazione della delega di cui all’art. 1, comma 1, lettera c), della legge 25 luglio 2005, n. 150 (Delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario di cui al R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, per il decentramento del Ministero della giustizia, per la modifica della disciplina concernente il Consiglio di presidenza, della Corte dei conti e il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, nonché per l’emanazione di un testo unico), ha istituito il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, determinandone le competenze, e ha ridefinito composizione e attribuzioni dei Consigli giudiziari. Elemento di rilievo, evidenziato dalla difesa dei promotori, è la presenza, nell’uno e negli altri organi, di una componente non togata, costituita anche da professori universitari e avvocati, in possesso di specifici requisiti.
Quanto alle competenze del Consiglio direttivo della Corte di cassazione, stabilite dall’art. 7 del citato d.lgs. n. 25 del 2006, si sottolinea che toccano ambiti rilevanti, in quanto «riguardano l’emissione di “pareri sull’attività dei magistrati” (lettera b), la “vigilanza sul comportamento dei magistrati” (lettera c), l’adozione di provvedimenti relativi allo stato giuridico ed economico dei magistrati (lettera e), la formulazione di pareri “inerenti a collocamenti a riposo, dimissioni, decadenze dall’impiego, concessioni di titoli onorifici e riammissioni in magistratura dei magistrati” (lettera f)».
Quanto alle competenze dei Consigli giudiziari, individuate dall’art. 15, comma 1, del medesimo decreto legislativo, si segnala che rispecchiano, in larga misura, quelle di cui all’art. 7, proprie del Consiglio direttivo della Corte di cassazione. In particolare, viene espressamente precisato che i pareri sull’attività dei magistrati riguardano il profilo della preparazione, della capacità tecnico-professionale, della laboriosità, della diligenza, dell’equilibrio nell’esercizio delle funzioni, nei casi previsti da disposizioni di legge o di regolamento o da disposizioni generali del Consiglio superiore della magistratura o a richiesta dello stesso Consiglio. I Consigli giudiziari, inoltre, eserciterebbero la vigilanza sul comportamento dei magistrati in servizio presso gli uffici giudiziari del distretto e, nel caso di notizia di fatti suscettibili di valutazione in sede disciplinare, dovrebbero fare rapporto al Ministero della giustizia e al Procuratore generale presso la Corte di cassazione.
La difesa dei promotori osserva che il legislatore – che ha inteso attribuire al Consiglio direttivo e ai Consigli giudiziari competenze ausiliarie rispetto a quelle del CSM, di particolare rilievo quanto alle valutazioni dell’attività dei magistrati – ha invece limitato al massimo grado l’apporto dei membri non togati. Una tale osservazione si basa su quanto stabilito dagli artt. 8 e 16 del citato d.lgs. n. 25 del 2006, secondo cui i componenti “laici” (avvocati e professori universitari) partecipano esclusivamente alle discussioni e deliberazioni relative all’esercizio di competenze concernenti profili organizzativi nella trattazione degli affari e nell’andamento degli uffici.
Fine intrinseco della richiesta referendaria sarebbe, pertanto, quello di eliminare la norma limitativa della competenza dei componenti non togati, consentendo loro di esercitare la totalità delle attribuzioni riconosciute agli organi di cui fanno parte, al pari dei membri togati.
Il quesito riguarderebbe disposizioni estranee, anche sulla base di un’interpretazione logico-sistematica, alle materie di cui all’art. 75 della Costituzione e dotate di una matrice razionalmente unitaria. Sarebbe, inoltre, formulato in maniera tale da determinare un effetto di mera abrogazione, senza creare alcun vuoto normativo.
Esso sarebbe, quindi, ammissibile.
5.– Nell’imminenza della camera di consiglio, la Regione autonoma Sardegna ha depositato un atto di intervento a sostegno delle ragioni dell’ammissibilità della richiesta referendaria.
Quest’ultima – volta all’abrogazione delle parti delle disposizioni che limitano la competenza attribuita alla componente laica nelle discussioni e votazioni dei Consigli giudiziari e del Consiglio direttivo della Corte di cassazione concernenti la valutazione dei magistrati – sarebbe in linea con l’art. 104 Cost., che, con riguardo ai membri del CSM, non fa distinzioni di competenze fra componenti togati e laici. Questo dato si evincerebbe anche dalla legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio Superiore della magistratura).
La Regione autonoma Sardegna sostiene che il quesito è formulato in modo tale che dall’eventuale esito positivo della consultazione residui una disciplina adeguata alle prescrizioni costituzionali. Esso sarebbe, inoltre, chiaro e omogeneo, se solo si considera l’evidente finalità di riconoscere anche ai membri laici di partecipare, senza le limitazioni previste, alle discussioni e deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari. Il quesito sarebbe anche univoco, poiché non contiene una pluralità di domande eterogenee.
Motivi della decisione
1.– La richiesta di referendum abrogativo su cui questa Corte deve pronunciarsi in base all’art. 75, secondo comma, della Costituzione, dichiarata legittima con ordinanza del 1° dicembre 2021 dell’Ufficio centrale per il referendum, riguarda parti delle disposizioni degli artt. 8 e 16 del decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25, recante «Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei Consigli giudiziari, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera c), della legge 25 luglio 2005 n. 150».
2.– In via preliminare, occorre rilevare che, nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, questa Corte ha consentito – come più volte avvenuto in passato (da ultimo, sentenza n. 10 del 2020) – l’illustrazione orale delle memorie depositate dai soggetti presentatori del referendum ai sensi dell’art. 33, terzo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo) e ha ammesso gli scritti presentati da soggetti diversi da quelli contemplati dalla disposizione citata – nella specie della Regione autonoma Sardegna – in quanto interessati alla decisione sull’ammissibilità delle richieste referendarie (ex plurimis: sentenze n. 10 del 2020, n. 5 del 2015, n. 13 del 2012, n. 28, n. 27, n. 26, n. 25 e n. 24 del 2011, n. 17, n. 16 e n. 15 del 2008).
Tale ammissione, orientata ad acquisire ulteriori argomentazioni svolte da soggetti diversi dai presentatori, non si traduce in un diritto degli stessi a partecipare al procedimento, che, comunque, «deve tenersi, e concludersi, secondo una scansione temporale definita» (sentenza n. 31 del 2000). Né si sostanzia nel diritto di illustrare le relative tesi in camera di consiglio. Con l’ammissione di tali soggetti questa Corte consente brevi integrazioni orali degli scritti, come è avvenuto nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, in cui essi, sulla base del già citato art. 33, hanno chiarito le rispettive posizioni.
3.– Occorre, inoltre, precisare che l’oggetto della richiesta referendaria è costituito da alcuni frammenti delle disposizioni di cui agli artt. 8 e 16 del d.lgs. n. 25 del 2006, che limitano la partecipazione dei membri “laici” (avvocati e professori universitari) del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari alle sole discussioni e deliberazioni inerenti all’organizzazione degli uffici, espressamente individuate, rispettivamente, all’art. 7, comma 1, lettera a), e all’art. 15, comma 1, lettere a), d) ed e), del medesimo decreto legislativo.
3.1.– Tali disposizioni si inseriscono nel tessuto normativo della riforma che, in attuazione della delega conferita al Governo dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge 25 luglio 2005, n. 150 (Delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario di cui al R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, per il decentramento del Ministero della giustizia, per la modifica della disciplina concernente il Consiglio di presidenza, della Corte dei conti e il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, nonché per l’emanazione di un testo unico), quest’ultimo ha adottato, ridefinendo composizione, competenze e durata in carica dei Consigli giudiziari e istituendo, sulla falsariga di questi ultimi, il Consiglio direttivo della Corte di cassazione.
Fra le più rilevanti novità introdotte dalla riforma, vi è, da un lato, l’ampliamento delle competenze dei Consigli giudiziari e l’attribuzione al neoistituito Consiglio direttivo della Corte di cassazione di un novero di funzioni – mutatis mutandis – sostanzialmente corrispondenti; dall’altro, la previsione, sia per gli uni che per l’altro, di una composizione allargata a componenti non togati.
Più precisamente, quanto ai Consigli giudiziari, istituiti presso i distretti delle Corti d’appello e chiamati a svolgere, sin da epoca risalente, funzioni ausiliarie dell’organo di governo della magistratura mediante attività prettamente consultive, la moltiplicazione delle competenze, sebbene ridimensionata a seguito delle modifiche apportate al citato d.lgs. n. 25 del 2006 dalla legge 30 luglio 2007, n. 111 (Modifiche alle norme sull’ordinamento giudiziario), ha riguardato sia questioni tabellari e, più in generale, relative all’organizzazione degli uffici giudiziari presenti nei distretti, sia provvedimenti inerenti alla carriera e allo status dei magistrati dei distretti. Alla moltiplicazione delle competenze si è affiancato l’aumento del numero complessivo dei componenti dei Consigli, variabile in relazione alla dimensione degli organici degli uffici di ciascun distretto. Si è poi determinata una nuova composizione degli stessi, allargata a componenti esterne alla magistratura.
L’art. 9 del citato d.lgs. n. 25 del 2006 – anche a seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 111 del 2007 – stabilisce che facciano parte dei Consigli in questione professori universitari in materie giuridiche, «nominati dal Consiglio universitario nazionale su indicazione dei presidi delle facoltà di giurisprudenza delle università della regione o delle regioni sulle quali hanno, in tutto o in parte, competenza gli uffici del distretto, in numero variabile da 1 a 2, in relazione all’organico degli uffici presenti nei distretti», nonché avvocati «con almeno dieci anni di effettivo esercizio della professione con iscrizione all’interno del medesimo distretto, nominati dal Consiglio nazionale forense su indicazione dei consigli dell’ordine degli avvocati del distretto, in un numero variabile da 2 a 4, in relazione all’organico degli uffici presenti nei distretti».
Al fine di scongiurare qualunque condizionamento dell’esercizio della funzione giudiziaria, il legislatore ha, sin dall’inizio, modulato il funzionamento dei Consigli, limitando la partecipazione dei membri laici alle delibere in materia tabellare (art. 15, comma 1, lettera a), all’esercizio del potere di vigilanza sull’andamento degli uffici (art. 15, comma 1, lettera d), nonché alla formulazione di pareri e proposte sull’organizzazione e sul funzionamento degli uffici del giudice di pace del distretto (art. 15, comma 1, lettera e), con conseguente esclusione dalle delibere relative a carriera e status dei magistrati (in specie relative ai pareri sulle valutazioni di professionalità, su collocamenti a riposo, dimissioni, decadenze dall’impiego, concessioni di titoli onorifici e riammissioni in magistratura dei magistrati in servizio presso gli uffici giudiziari del distretto o già in servizio presso tali uffici al momento della cessazione dal servizio medesimo, nonché ai pareri, su richiesta del Consiglio superiore della magistratura, su materie attinenti alle competenze a essi attribuite e alle eventuali proposte al comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura in materia di programmazione dell’attività didattica della Scuola: art. 15, comma 1, lettere b, g, h e i).
Con riferimento alla composizione e alle competenze del Consiglio direttivo della Corte di cassazione – organo di nuova istituzione, omologo ai Consigli giudiziari – si è disposto che fra gli undici membri elettivi vi siano due professori universitari di ruolo di materie giuridiche nominati dal Consiglio universitario nazionale, nonché un avvocato con almeno venti anni di effettivo esercizio della professione, nominato dal Consiglio nazionale forense, e, fra i tre membri di diritto, vi sia il Presidente del medesimo Consiglio (art. 1). Quanto alla partecipazione, essa è stata limitata alle sole discussioni e deliberazioni inerenti a questioni tabellari e di organizzazione degli uffici (art. 7, comma 1, lettera a), con esclusione di quelle relative ai pareri sulle valutazioni di professionalità dei magistrati, e ai pareri resi, a seguito di richiesta del Consiglio superiore della magistratura, su materie attinenti alle competenze a esso attribuite, nonché alle eventuali proposte al comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura in materia di programmazione dell’attività didattica della Scuola (art. 7, comma 1, lettere b, g e h).
4.– Il contesto normativo di riferimento così delineato è quello in cui questa Corte è chiamata a collocare il giudizio sull’ammissibilità del quesito referendario, giudizio che, per costante giurisprudenza costituzionale, si propone di «verificare che non sussistano eventuali ragioni di inammissibilità sia indicate, o rilevabili in via sistematica, dall’art. 75, secondo comma, della Costituzione, attinenti alle disposizioni oggetto del quesito referendario; sia relative ai requisiti concernenti la formulazione del quesito referendario, come desumibili dall’interpretazione logico-sistematica della Costituzione (sentenze n. 174 del 2011, n. 137 del 1993, n. 48 del 1981 e n. 70 del 1978): omogeneità, chiarezza e semplicità, completezza, coerenza, idoneità a conseguire il fine perseguito, rispetto della natura ablativa dell’operazione referendaria» (sentenza n. 17 del 2016).
4.1.– La richiesta referendaria in esame è ammissibile.
Non sussiste alcuna delle cause di inammissibilità indicate nell’art. 75 Cost. Le disposizioni oggetto del quesito – inerenti alla composizione e alle competenze dei Consigli giudiziari e del Consiglio direttivo della Corte di cassazione – non sono riconducibili a nessuna delle leggi ivi elencate, neppure in via di interpretazione logico-sistematica.
Sono inoltre rispettati i requisiti di chiarezza, omogeneità e univocità del quesito, costantemente ritenuti da questa Corte necessario presupposto affinché il corpo elettorale possa esercitare una scelta libera e consapevole. Essi sono desumibili dalla «finalità incorporata nel quesito, cioè dalla finalità obiettivamente ricavabile in base alla sua formulazione e all’incidenza del referendum sul quadro normativo di riferimento» (sentenza n. 24 del 2011; nello stesso senso sentenze n. 28 del 2017 e n. 17 del 2016).
I frammenti delle disposizioni degli artt. 8 e 16 del d.lgs. n. 25 del 2006, di cui si chiede l’abrogazione, sono contraddistinti da un’eadem ratio, quella che preclude la partecipazione dei membri laici del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari – organi accomunati da analoghe funzioni – alle deliberazioni inerenti a carriere e status dei magistrati. Risulta dunque evidente la matrice razionalmente unitaria del quesito.
Il fine perseguito mediante la richiesta di abrogazione dei richiamati frammenti normativi è far sì che i membri laici sia del Consiglio direttivo della Corte di cassazione, sia dei Consigli giudiziari siano inclusi nelle discussioni e deliberazioni che la riforma introdotta dal d.lgs. n. 25 del 2006 e poi in parte modificata dalla legge n. 111 del 2007, ha espressamente riservato ai rispettivi organi in composizione ristretta, circoscritta ai soli membri togati.
Infine, la proposta referendaria, pur utilizzando la tecnica del ritaglio di frammenti normativi e di singole parole, non contraddice la natura abrogativa dell’istituto.
Questa Corte ha riconosciuto che una simile tecnica, se si risolve in una abrogazione parziale della legge, non è di per sé causa di inammissibilità del quesito (ex plurimis, sentenza n. 28 del 2011). A volte, essa è «necessaria per consentire la riespansione di una compiuta disciplina già contenuta in nuce nel tessuto normativo, ma compressa per effetto dell’applicabilità delle disposizioni oggetto del referendum (sentenze n. 16 e n. 15 del 2008, n. 34 e n. 33 del 2000, n. 13 del 1999)» (sentenza n. 26 del 2017). Allorquando, invece, attraverso il ritaglio dei frammenti normativi, si persegue l’effetto di sostituire la disciplina investita dalla domanda referendaria «con un’altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo, che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo né direttamente costruire» (sentenza n. 13 del 1999), risulta tradita la funzione meramente abrogativa assegnata all’istituto di democrazia diretta previsto dall’art. 75 Cost. e la richiesta referendaria si rivela inammissibile, perché surrettiziamente propositiva.
Nella specie, non ricorre quest’ultima ipotesi. Infatti, attraverso l’abrogazione delle parole che delimitano la partecipazione dei membri laici del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari, si produrrebbe l’effetto di estendere la portata applicativa delle previsioni relative al coinvolgimento dei membri laici nelle questioni inerenti all’amministrazione della giurisdizione, previsioni già presenti nel tessuto normativo del d.lgs. n. 25 del 2006. La richiesta referendaria appare dunque diretta a sottrarre dall’ordinamento un certo contenuto normativo – la limitazione della sfera di competenza dei componenti laici dei Consigli in questione – affinché esso venga sostituito con quanto sopravvive all’abrogazione, per effetto della «fisiologica espansione delle norme residue» (sentenza n. 36 del 1997).
5.– Non ostandovi alcuna ragione di ordine costituzionale, la richiesta di referendum deve dunque essere dichiarata ammissibile.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione del decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25, recante «Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei Consigli giudiziari, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera c) della legge 25 luglio 2005 n. 150», limitatamente alle seguenti parti: art. 8, comma 1, limitatamente alle parole «esclusivamente» e «relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 7, comma 1, lettera a)»; art. 16, comma 1, limitatamente alle parole: «esclusivamente» e «relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 15, comma 1, lettere a), d) ed e)», richiesta dichiarata legittima, con ordinanza pronunciata il 1° dicembre 2021 dall’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione.
Corte Costituzionale, sentenza (ud.16 febbraio 2022) 8 marzo 2022, n. 60
Svolgimento del processo
1.– I Consigli regionali delle Regioni Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Piemonte, Umbria, Veneto e Sicilia – con atto depositato presso la Corte di cassazione il 21 settembre 2021 – hanno promosso un referendum abrogativo con riguardo al seguente quesito: «Volete voi che sia abrogata la Legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: articolo 25, comma 3, limitatamente alle parole “unitamente ad una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. I magistrati presentatori non possono presentare più di una candidatura in ciascuno dei collegi di cui al comma 2 dell’articolo 23, né possono candidarsi a loro volta”?».
La disposizione interessata dall’iniziativa referendaria concerne in generale la «[c]onvocazione delle elezioni, uffici elettorali e spoglio delle schede», relativamente alla designazione dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura. Il comma 3 regola la presentazione delle candidature, subordinandola tra l’altro al sostegno, mediante apposita sottoscrizione, di un gruppo di magistrati elettori, in numero non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. Ai sottoscrittori è preclusa la presentazione di una propria candidatura, ed è preclusa altresì la sottoscrizione di sostegno per più di un candidato.
Il 29 novembre 2021, deliberando in via definitiva dopo una ordinanza interlocutoria del 26 ottobre precedente, l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione ha dichiarato conforme alla legge la proposta referendaria in questione, ed ha stabilito per essa una intitolazione del seguente tenore: «Abrogazione di norme in materia di elezioni dei componenti togati del Consiglio Superiore della Magistratura».
Il quesito referendario è stato così approvato: «Volete voi che sia abrogata la legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e il funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: articolo 25, comma 3, limitatamente alle parole “unitamente ad una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. I magistrati presentatori non possono presentare più di una candidatura in ciascuno dei collegi di cui al comma 2 dell’art. 23, né possono candidarsi a loro volta”?».
2.– Ricevuta comunicazione dell’ordinanza dell’Ufficio centrale, il Presidente della Corte costituzionale ha fissato, per la conseguente deliberazione, la camera di consiglio del 15 febbraio 2022, disponendo (ai sensi dell’art. 33, secondo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352, recante «Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo») che ne fosse data comunicazione ai promotori della richiesta di referendum e al Presidente del Consiglio dei ministri.
3.– Avvalendosi della facoltà prevista dall’art. 33, terzo comma, della legge n. 352 del 1970, i delegati dei Consigli regionali che hanno richiesto il referendum hanno depositato, in data 11 febbraio 2022, una memoria per illustrare le ragioni a sostegno dell’ammissibilità dello stesso. In particolare, l’iniziativa referendaria si propone lo scopo di favorire candidature individuali dei magistrati, al fine di ridurre l’influenza dei gruppi associativi sulla procedura elettorale. Il quesito referendario, di autentica natura abrogativa e non propositiva, paleserebbe una ratio omogenea e puntuale ed il suo accoglimento non inciderebbe né su contenuti costituzionalmente vincolati, né sulla capacità della disciplina residua di garantire il rinnovo della componente togata del Consiglio superiore della magistratura.
4.- Sempre in data 11 febbraio 2022, il Presidente della Regione autonoma Sardegna ha depositato, a sua volta, una memoria a sostegno dell’ammissibilità del referendum. Da un lato, rileva che le disposizioni indicate nel quesito non rientrano tra le materie per le quali l’art. 75 della Costituzione esclude il ricorso al referendum. Dall’altro, la richiesta sarebbe compatibile con i limiti “ulteriori” individuati dalla giurisprudenza costituzionale: la necessità, cioè, che il quesito referendario sia chiaro, univoco ed omogeneo, che non attenga a contenuti costituzionalmente necessari e che non dia luogo, in caso di accoglimento, ad una disciplina di risulta non suscettibile di autonoma applicazione.
5.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, invece, non si è avvalso della facoltà di intervento nel giudizio di ammissibilità.
Motivi della decisione
1.– La richiesta di referendum abrogativo ha per oggetto una porzione del comma 3 dell’art. 25 della legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura), articolo dedicato, in generale, al procedimento per l’elezione dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura.
Per quel che qui rileva, a partire dalle modifiche introdotte con legge 18 dicembre 1967, n. 1198 (Modificazioni alla legge 24 marzo 1958, n. 195, sulla costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), il citato art. 25 è specialmente dedicato alla presentazione di liste e candidature.
In particolare, la previsione del necessario sostegno di un certo numero di elettori per l’esercizio del diritto a candidarsi è stata introdotta, nel corpo del suddetto articolo, mediante l’art. 5 della legge 22 dicembre 1975, n. 695 (Riforma della composizione e del sistema elettorale per il Consiglio superiore della magistratura), nell’ambito di un sistema elettorale che contemplava la competizione tra liste contrapposte, ciascuna delle quali, appunto, doveva raccogliere firme di presentazione presso almeno centocinquanta magistrati. La prescrizione è rimasta immutata, pur nel variare del quadro generale di riferimento, in occasione dell’approvazione della legge 3 gennaio 1981, n. 1 (Modificazioni alla legge 24 marzo 1958, n. 195 e al decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre 1958, n. 916, sulla costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), e della legge 22 novembre 1985, n. 655 (Modifiche al sistema per l’elezione dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura).
Il numero delle sottoscrizioni per la presentazione delle liste è stato invece modificato in occasione del frazionamento della base territoriale dei collegi elettorali, mediante la creazione di un collegio nazionale per la designazione dei componenti con funzioni di legittimità e di collegi più ristretti per l’elezione degli ulteriori componenti togati: l’art. 7 della legge 12 aprile 1990, n. 74 (Modifica alle norme sul sistema elettorale e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura) richiedeva, così, almeno cinquanta firme per la candidatura al collegio nazionale e almeno trenta per quella presso i collegi territoriali.
Con l’art. 7 della legge 28 marzo 2002, n. 44 (Modifica alla legge 24 marzo 1958, n. 195, recante norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura) la disciplina raggiunge il suo assetto attuale. Il voto è organizzato in base a tre collegi nazionali e non è possibile la presentazione di liste contrapposte, dovendosi invece aver riguardo alle candidature di singoli magistrati. Nel testo così riformato, la disposizione oggetto dell’odierno quesito referendario prescrive che le candidature individuali siano sostenute mediante sottoscrizione di almeno venticinque e non più di cinquanta elettori. I sottoscrittori non possono essere candidati a loro volta, né accordare sostegno a più di un candidato.
In caso di accoglimento del quesito referendario, quindi, le candidature individuali sarebbero proposte senza la sottoscrizione di presentatori. Verrebbero conseguentemente meno – anche formalmente, grazie alla concorrente abrogazione dell’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 25 della legge n. 195 del 1958 – le preclusioni poste per i presentatori, il cui intervento sarebbe appunto soppresso.
2.– In via preliminare, occorre rilevare che, nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, questa Corte ha consentito – come più volte avvenuto in passato (da ultimo, sentenza n. 10 del 2020) – l’illustrazione orale delle memorie depositate dai soggetti presentatori del referendum ai sensi dell’art. 33, terzo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), nonché la presentazione di scritti di un soggetto ulteriore – nella specie, il Presidente della Regione autonoma Sardegna – in quanto interessato alla decisione sull’ammissibilità delle richieste referendarie (ex plurimis: sentenze n. 10 del 2020, n. 5 del 2015, n. 13 del 2012, n. 28, n. 27, n. 26, n. 25 e n. 24 del 2011, n. 17, n. 16 e n. 15 del 2008).
L’ammissione di soggetti diversi dai presentatori, orientata ad acquisirne le argomentazioni, non si traduce in un diritto degli stessi a partecipare al procedimento – che, comunque, «deve tenersi, e concludersi, secondo una scansione temporale definita» (sentenza n. 31 del 2000) – né in quello di illustrare le relative tesi in camera di consiglio. Questa Corte consente soltanto brevi integrazioni orali degli scritti, come appunto è avvenuto nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022.
3.– Questa Corte è chiamata a giudicare sull’ammissibilità della richiesta di referendum alla luce, sia dei criteri desumibili dall’art. 75, secondo comma, della Costituzione, sia del complesso dei «valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie», stabilendo se, ad integrazione delle ipotesi che la disposizione costituzionale ricordata ha previsto in maniera puntuale ed espressa, «non s’impongano altre ragioni, costituzionalmente rilevanti, in nome delle quali si renda indispensabile precludere il ricorso al corpo elettorale» (sentenza n. 16 del 1978; da ultimo, sentenza n. 10 del 2020).
4.– Altre volte, in passato, è stata valutata l’ammissibilità di referendum popolari concernenti la disciplina per l’elezione dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura. E anche quando questa Corte ha concluso nel senso dell’inammissibilità della specifica iniziativa (in particolare, con le sentenze n. 28 del 1997 e n. 29 del 1987), la preclusione non è stata fatta discendere dalla lettera o dalla ratio dell’art. 75 Cost., secondo un giudizio che va qui confermato.
5.– I precedenti finora citati fanno parte di una complessiva giurisprudenza costituzionale che – per quanto qui particolarmente interessa – ha considerato ammissibili referendum abrogativi di disposizioni di legge relative all’elezione dei componenti di organi costituzionali o di rilevanza costituzionale ad una essenziale condizione, legata al funzionamento degli organi in parola, tra i quali certamente figura il Consiglio superiore della magistratura (sentenze n. 10 del 2020, n. 13 del 2012, n. 17, n. 16 e n. 15 del 2008, n. 34 e n. 33 del 2000, n. 13 del 1999, n. 28 e n. 26 del 1997, n. 10 e n. 5 del 1995, n. 33 e n. 32 del 1993, n. 47 del 1991 e n. 29 del 1987).
Tale condizione consiste nel carattere necessariamente auto-applicativo della disciplina di risulta: l’abrogazione referendaria non può infatti esporre l’organo alla eventualità, anche solo teorica, di paralisi di funzionamento (sentenza n. 29 del 1987). Occorre, in altre parole, che il voto popolare eventualmente favorevole all’abrogazione lasci in vigore una disciplina che consente il rinnovo dell’organo di rilievo costituzionale (sentenze n. 13 del 2012, n. 16 e n. 15 del 2008, n. 5 del 1995, n. 32 del 1993 e n. 29 del 1987), indipendentemente da un ipotetico, successivo intervento del legislatore (tra le altre, sentenze n. 5 del 1995 e n. 29 del 1987).
Ciò posto, è evidente che, nella specie, la richiesta referendaria si riferisce ad un segmento della disciplina la cui rimozione non ostacolerebbe la procedura per l’elezione dei nuovi componenti togati del Consiglio superiore della magistratura.
Le candidature individuali per i collegi nazionali dovrebbero, infatti, essere presentate, entro venti giorni dal provvedimento di convocazione delle elezioni, all’Ufficio centrale elettorale, mediante apposita dichiarazione con firma autenticata dal Presidente del tribunale nel cui circondario il magistrato esercita le sue funzioni. Tale dichiarazione, in cui l’interessato darebbe atto dell’assenza di cause di ineleggibilità riconducibili all’art. 24 della stessa legge n. 195 del 1958, non dovrebbe più essere accompagnata da sottoscrizioni di presentatori.
Correlativamente, tra le cause di non candidabilità, verrebbe meno quella fondata sulla sottoscrizione prestata per il sostegno ad una candidatura altrui, così come verrebbe meno la causa di esclusione della candidatura prevista dal comma 4 dell’art. 25 per insufficienza o irregolarità delle sottoscrizioni di presentazione.
Non crea, inoltre, ostacolo all’ammissibilità del referendum la circostanza che l’abrogazione proposta riguardi una regola di frequente inserita nelle discipline elettorali, al fine di prevenire un’eccessiva frammentazione delle candidature e una scarsa decifrabilità dell’offerta elettorale (in senso analogo, da ultimo, sentenza n. 48 del 2021). In disparte ogni comparazione, su questo specifico aspetto, tra natura e scopo dell’elezione dei componenti di organi con funzioni di rappresentanza politica o politico-amministrativa, per un verso, e le peculiarità proprie dell’elezione dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura, per l’altro verso, quel che solo conta, nell’odierno giudizio di ammissibilità, è, infatti, che l’abrogazione della regola che prescrive le firme di presentazione (in numero peraltro assai contenuto, nel minimo e nel massimo) non inciderebbe su contenuti costituzionalmente necessari o vincolati della legge interessata dal referendum.
6.– Il quesito referendario, ancora, ha struttura binaria, carattere omogeneo, ed è semplice e chiaro.
La domanda riguarda l’abrogazione o il mantenimento in vigore di due proposizioni normative strettamente connesse l’una all’altra, accomunate perciò dalla medesima ratio, ponendo l’elettore di fronte all’alternativa di mantenere le firme di sostegno alle candidature o, al contrario, di eliminarle, consentendo candidature a mera iniziativa individuale.
Al tempo stesso, risulta evidente il carattere realmente abrogativo, e non surrettiziamente propositivo, del quesito, volto solo ad eliminare una porzione del sistema elettorale vigente (ex multis, ma con specifico riguardo alla stessa materia interessata dall’iniziativa odierna, sentenza n. 34 del 2000).
7.– In definitiva, non ostandovi alcuna ragione di ordine costituzionale, la richiesta di referendum deve essere dichiarata ammissibile.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’art. 25, comma 3, della legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura), nel testo risultante dalle successive modificazioni e integrazioni ad esso apportate, limitatamente alle parole: «unitamente ad una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. I magistrati presentatori non possono presentare più di una candidatura in ciascuno dei collegi di cui al comma 2 dell’articolo 23, né possono candidarsi a loro volta», dichiarata legittima dall’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, con ordinanza del 29 novembre 2021.