La convivente superstite di un'unione omoaffettiva, esauritasi prima dell'entrata in vigore della Legge Cirinnà a causa del decesso del partner, chiede il riconoscimento del beneficio previdenziale, lamentando la differente posizione del coniuge superstite rispetto al convivente superstite dello stesso sesso.
La questione in esame ha ad oggetto la configurabilità del diritto alla pensione di reversibilità a favore del partner di una relazione affettiva stabile e di lunga durata con persone dello stesso sesso, svoltasi e conclusasi, a causa del decesso dell'altro partner, prima dell'entrata in vigore della
Svolgimento del processo
La Sig.ra. D.M. ha convenuto in giudizio l’Inps per vedere accertato il diritto di percepire la pensione di reversibilità, quale superstite beneficiaria di G.B. (deceduta nel 2010), deducendo di avere convissuto stabilmente con la B. per trenta anni e di non avere potuto contrarre matrimonio, trattandosi di relazione intercorsa tra persone dello stesso sesso; in via subordinata, per vedere accertato il carattere discriminatorio della normativa italiana, nella parte in cui non prevede il diritto alla pensione di reversibilità in favore del partner superstite dello stesso sesso, in presenza di una relazione affettiva stabile ed equivalente a quella del coniuge. L’adito Tribunale di Bologna, in funzione del giudice del lavoro, ha rigettato le domande. La Corte d’appello di Bologna, con sentenza del 5 marzo 2019, ha rigettato il gravame, escludendo la discriminazione lamentata, in considerazione della differente posizione del coniuge superstite rispetto al convivente superstite dello stesso sesso e dell’insufficienza del quadro probatorio offerto dall’attrice, al fine di dimostrare l’equivalenza o la comparabilità della relazione personale con la B. a quella propria dei coniugi. La M. ha proposto ricorso per cassazione, affidandosi a undici motivi di ricorso. L’Inps ha resistito con controricorso. Le parti hanno depositato memorie. Il Procuratore Generale ha chiesto, nella requisitoria scritta, di rimettere il ricorso alle Sezioni Unite, ravvisandovi una questione di massima di particolare importanza.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la M. denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 36 e 38 della Costituzione, per avere la Corte d’appello errato nella individuazione degli elementi idonei a qualificare una coppia omoaffettiva, in epoca antecedente alla legge n. 76 del 20 maggio 2016, quale formazione sociale di tipo familiare meritevole di tutela anche sotto il profilo previdenziale. La ricorrente sostiene di avere dato prova di tutte le condizioni richieste dalla giurisprudenza come indicative, nella relazione con la defunta B., di caratteristiche analoghe a quelle proprie del rapporto di coniugio. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 117 e 11 Cost, in relazione all’art. 8 Cedu, nell’interpretazione resa dalla Corte Edu (21 luglio 2015, Oliari e altri c. Italia) che aveva condannato l’Italia per non avere introdotto nell’ordinamento italiano forme di tutela delle coppie omoaffettive. Il terzo motivo denuncia la nullità della sentenza impugnata, per violazione e falsa applicazione del principio di ragionevolezza, ex art 3 Cost., per avere negato il diritto alla pensione indiretta a un partner di coppia omoaffettiva, in periodo in cui tale coppia non poteva accedere all’istituto matrimoniale, con l’effetto di riconoscere il diritto al trattamento previdenziale soltanto ai coniugi. Il quarto motivo denuncia violazione del diritto alla vita familiare, in relazione agli artt. 8 e 14 Cedu, per avere – disconoscendo il diritto alla pensione di reversibilità – avallato un comportamento statuale discriminatorio nei confronti delle coppie omoaffettive per motivi legati all’orientamento sessuale. Il quinto motivo denuncia la nullità della sentenza impugnata, per violazione e falsa applicazione degli artt. 14 Cedu e 1 Protocollo addizionale Cedu, reiterando nella sostanza le già espresse censure discriminatorie. Il sesto motivo denuncia violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (artt. 10, 19 e 157 TFUE, 13 e 33); della Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 (in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro), attuata dal d.lgs. n. 216 del 9 luglio 2003 (art. 2, comma 2, lett. a); della Direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006 (in tema di pari opportunità e parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego) (sono richiamate alcune sentenze della Corte di Giustizia in materia di discriminazione: 12 dicembre 2013, C-267/12, H.; 10 maggio 2011, C-147/08, R.; 1 aprile 2008, C-267/06, M., ed altre della Corte Edu), nonché violazione dell’art. 25, comma 1, d. lgs. n. 198 dell’11 aprile 2006 (codice delle pari opportunità). Il settimo motivo denuncia violazione dell’art. 28, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 e dei principi in tema di ripartizione dell’onere della prova nelle controversie in materia di discriminazione, avendo la Corte territoriale introdotto in grado di appello argomenti inerenti ad allegazioni e prove fattuali che non avevano costituito oggetto di eccezione di parte, al fine improprio di paralizzare la valenza dei fatti allegati dalla ricorrente che dimostravano la assimilabilità della sua relazione con la B. a una relazione coniugale. Con l’ottavo motivo la ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 115 c.p.c., per avere la Corte territoriale esercitato poteri probatori ufficiosi al di fuori dei casi consentiti dalla legge. Con il nono motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali, in relazione agli artt. 10, 19 e 157 TFUE e alle Direttive 2000/78/CE e 2006/54/CE, critica la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto non provato che la coppia M.-B. fosse in una posizione equivalente o, comunque, comparabile con quella propria delle relazioni tra coniugi, sebbene tale circostanza fosse stata specificamente dedotta dalla ricorrente e non contestata dall’Inps, con l’effetto di sollevare l’ente pubblico dall’onere di allegazione e prova dei fatti ostativi al riconoscimento del diritto rivendicato. Con il decimo motivo la ricorrente denuncia omesso esame di fatti decisivi e non contestati dalla controparte, indicativi della volontà sua e della B. di formalizzare la loro unione e disciplinarla sul modello delle relazioni fondate sul matrimonio. L’undecimo motivo denuncia la nullità della sentenza e del procedimento, ex art. 101, comma 2, c.p.c., per mancanza del contraddittorio, avendo la Corte deciso la controversia sulla base di fatti alternativi non eccepiti dalla controparte. Preliminarmente, il Collegio ritiene di non accogliere l’istanza del Procuratore Generale di rimessione alle Sezioni Unite, potendo il ricorso essere deciso sulla base di univoca giurisprudenza di legittimità e delle Corti europee. I motivi in esame possono essere esaminati congiuntamente essendo intrinsecamente connessi tra loro, e sono infondati. La questione in esame ha ad oggetto la configurabilità del diritto alla pensione di reversibilità a favore del partner di una relazione affettiva stabile e di lunga durata con persona dello stesso sesso, svoltasi e conclusasi, a causa del decesso dell’altro partner, prima dell’entrata in vigore della legge n. 76 del 2016, che ha regolamentato le unioni civili tra persone dello stesso sesso. A tale questione è stata data risposta in senso negativo, avendo questa Corte stabilito che la pensione di reversibilità non può essere riconosciuta, nella vigenza della disciplina antecedente alla data di entrata in vigore della legge n. 76 del 2016 – che ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto della «unione civile» tra persone dello stesso sesso, disciplinando altresì le convivenze di fatto –, a favore di superstite già legato da stabile convivenza con persona dello stesso sesso poi deceduta, avuto riguardo al principio di irretroattività dettato dall’art. 11 preleggi (vd. Cass., sez. lav., n. 24694 del 2021). Ad analoga conclusione si è pervenuti per escludere il diritto alla reversibilità della pensione di inabilità a favore del convivente more- uxorio in una unione eterosessuale (vd. Cass., sez. lav., n. 22318 del 2016). La ricorrente sostiene, tuttavia, di non voler contestare la mancata previsione della retroattività della legge n. 76 del 2016 e, in tal modo, di non entrare in collisione con il precedente poc’anzi richiamato del 2021, poiché «come ben osserva la Sezione lavoro, non si possono sic et simpliciter retroattivamente unire civilmente le persone» (a pag. 6 della memoria): «nella presente causa, invece, la domanda principale è proprio fondata sulla tutela antidiscriminatoria» (a pag. 8 della memoria). La lamentata discriminazione sarebbe conseguenza del riconoscimento della pensione di reversibilità ai soli coniugi superstiti ai sensi degli artt. 13 del r.d.l. n. 636 del 14 aprile 1939 e 1, comma 41, della legge n. 335 dell’8 agosto 1995, e non alle persone dello stesso sesso unite in relazioni stabili e durature, del tutto comparabili alle relazioni tra i coniugi. La tesi è infondata. La giurisprudenza da tempo ha affermato che le persone dello stesso sesso conviventi in stabile relazione di fatto sono titolari del diritto alla «vita familiare» ex art. 8 della Cedu; pertanto, nell’esercizio del diritto inviolabile di vivere liberamente la condizione di coppia, esse possono adire il giudice per rivendicare un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alle coppie coniugate «in specifiche situazioni» (vd. Cass., sez. I, n. 4184 del 2012). Si tratta, infatti, di formazioni sociali tutelabili ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, cui «spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia e di ottenerne il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri, dovendosi escludere che l’aspirazione a tale riconoscimento sia realizzabile solo attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio e spettando al Parlamento il compito di individuare le forme di garanzia e di riconoscimento delle suddette unioni» (in tal senso vd. Corte cost. n. 170 del 2014, la quale ha anche precisato che «sebbene sia possibile ricavare dall’interpretazione in via estensiva degli artt. 8 e 12 Cedu il diritto a contrarre matrimonio anche per le coppie omosessuali, è riservata alla discrezionalità del legislatore nazionale – in assenza di un consensus europeo [su tali] unioni – la possibilità di prevedere eventuali forme di tutela per le coppie appartenenti al medesimo sesso, in virtù del margine di apprezzamento riconosciuto ai singoli Stati, v. le citate sentenze H. c. Finlandia, 13 novembre 2012 e S. and K. c. Austria, 22 novembre 2010»). Nella stessa direzione questa Corte, prima dell’intervento del legislatore del 2016, ha ritenuto legittima la mancata estensione del regime matrimoniale alle unioni omoaffettive, che non rientrano tra le ipotesi legislative di unione coniugale – in linea con quanto affermato dalle sentenze n. 138 del 2010 e n. 170 del 2014 della Corte costituzionale, il cui approdo non contrasta con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che non impone una siffatta equiparazione (vd. sentenza 24 giugno 2010, S. e K. e, recentemente, 16 luglio 2014, H. c. Finlandia) –, ancorché il rilievo costituzionale ex art. 2 Cost. di tali formazioni sociali, e del nucleo affettivo-relazionale che le caratterizza, comporta che queste unioni possano acquisire un adeguato grado di protezione e tutela anche ad opera del giudice ordinario (vd. Cass., sez. I, n. 2400 del 2015). Il legislatore nel 2016 ha colmato la lacuna presente nell’ordinamento italiano e già segnalata dalla Corte Edu (sentenza Oliari c. Italia del 21 luglio 2015), riconoscendo piena tutela alle coppie omoaffettive che siano parti della «unione civile» – che si costituisce attraverso una dichiarazione effettuata davanti all'ufficiale di stato civile e alla presenza di due testimoni – alle quali è esteso il diritto ai trattamenti previdenziali, ai sensi dell’art. 1, comma 20, della legge n. 76 del 2016. E tuttavia, il grado di tutela somministrabile dal giudice ordinario non può consistere in una applicazione retroattiva della stessa legge del 2016 (ipotesi ritenuta impraticabile dalla stessa ricorrente), in una vicenda svoltasi interamente ed esauritasi (con il decesso del partner) prima dell’entrata in vigore della stessa, con l’effetto che la relazione personale è configurabile come convivenza di fatto; né – come vorrebbe la ricorrente – può consistere in una operazione ermeneutica orientata a rimuovere gli effetti di quella che è denunciata come discriminazione, mediante il riconoscimento del trattamento previdenziale mancato, ai fini del ripristino in forma specifica della parità di trattamento, in thesi, violata. Entrambe le opzioni non sono percorribili. Come rilevato da questa Corte anche successivamente all’entrata in vigore della legge n. 76 del 2016, la scelta del modello di unione riconosciuta tra persone dello stesso sesso negli ordinamenti facenti parte del Consiglio d’Europa è rimessa al libero apprezzamento degli Stati membri, purché garantisca a tali unioni uno standard di tutela adeguato (cfr. Cass., sez. I, n. 11696 del 2018). E tuttavia, da ciò non è possibile inferire la necessità di riconoscere in via giurisprudenziale alle coppie omoaffettive, indipendentemente dall’intervento del legislatore, tutti i diritti anche patrimoniali e previdenziali riconosciuti alle coppie coniugate solo dal 2016, con l’effetto di annullare di fatto quel margine di discrezionalità che è, invece, riservato al legislatore anche nella scelta dei tempi e delle modalità con cui realizzare le istanze di tutela provenienti dalla società, trovandosi il legislatore nella migliore posizione per valutare i confliggenti interessi (pubblici e privati) che vengono di volta in volta implicati (nel senso che le unioni omosessuali hanno il diritto di ottenere «nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri», vd. Corte cost. n. 138 del 2010). In altri termini, l’impossibilità per la coppia omoaffettiva di beneficiare del trattamento previdenziale, nel contesto normativo antecedente alla legge n. 76 del 2016, trova giustificazione nella impossibilità di contrarre il vincolo matrimoniale, trattandosi di una scelta del legislatore che è espressione del margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati. Ne consegue, allora, la necessità di correggere le motivazioni in diritto della sentenza impugnata, ex art. 384, comma 4, c.p.c., nella parte in cui la Corte territoriale si sofferma sulla mancata dimostrazione di fatti non rilevanti ai fini della decisione (indicativi della manifestazione della volontà o dell’impegno della coppia ad ottenere il riconoscimento della loro unione in Italia o all’estero o del compimento di atti negoziali sostitutivi del vincolo formale), venendo qui in rilievo una questione di diritto, concernente l’ambito della tutela di una unione non formalizzata ex lege n. 76 del 2016, qual è la relazione affettiva tra la M. e la B., non equivalente a una unione coniugale, ai fini – per quanto interessa – del trattamento previdenziale invocato dalla ricorrente. Le disposizioni a tutela delle «unioni civili» sono state introdotte nel 2016 senza una espressa previsione di retroattività, in tal modo avendo il legislatore inteso implicitamente ribadire nello specifico la irretroattività della legge che, per essere derogata, avrebbe richiesto una adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza, anche tenendo conto dei valori lesi dall’efficacia a ritroso della norma (vd., a livello di principio generale, Corte cost. n. 73 del 2017). Per altro verso, non è ravvisabile una discriminazione nel mancato riconoscimento della pensione di reversibilità alle coppie omo-affettive. La valutazione concernente l’esistenza di una discriminazione sfugge ad automatismi e ricade nella competenza del giudice nazionale (vd. Corte di giustizia, 10 maggio 2011, Romer, in tema di pensione complementare di vecchiaia; Corte di giustizia, 1° aprile 2008, Maruko, in tema di prestazioni ai superstiti), il quale non può prescindere dal considerare, in concreto, le prassi e le tradizioni costituzionali dello Stato, specialmente quando vengono in rilievo gli obblighi positivi finalizzati a garantire il rispetto effettivo dei diritti tutelati dall’art. 8Cedu (cfr. artt. 6, comma 3, TUE e 52, comma 3, Carta dei diritti fondamentali). In tale contesto valutativo si inquadra l’importante sentenza della Corte Edu (T.A. c. Spagna, 14 giugno 2016) che, decidendo su un ricorso di un uomo che aveva avuto una convivenza di fatto, per molti anni, con un partner dello stesso sesso e che non aveva potuto regolarizzare la propria situazione perché la legge che avrebbe consentito il matrimonio era entrata in vigore dopo la morte del partner, lo ha rigettato, rilevando che nessuna violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare sussiste se lo Stato non riconosce la pensione di reversibilità al partner di una coppia dello stesso sesso in una situazione come quella esaminata. La Corte ha chiarito che l’art.8 Cedu, nell’ambito della tutela della vita privata e familiare, non assicura il diritto di beneficiare di uno specifico regime di previdenza sociale, come il diritto alla pensione di reversibilità, tanto più che nel periodo considerato gli Stati godevano di un certo margine di apprezzamento e mancava un consenso degli Stati circa i diritti da attribuire alle coppie same sex. E quindi, ha escluso una violazione del principio di non discriminazione in base all’orientamento sessuale, atteso che il partner che rivendicava la pensione non si trovava nella stessa situazione del coniuge e il diniego di riconoscimento della pensione era basato unicamente sul fatto che la coppia non era sposata, circostanza che costituiva una condizione per ottenere la pensione di reversibilità. Si aggiunga che la Corte costituzionale, nel riconoscere la legittimità costituzionale delle disposizioni che non includono anche i conviventi «more uxorio» tra i soggetti beneficiari del trattamento pensionistico di reversibilità, ha escluso la violazione del principio di tutela delle formazioni sociali in cui si sviluppa la persona umana, tale principio non comportando necessariamente il riconoscimento del trattamento di reversibilità al convivente (vd. sentenza n. 461 del 2000); analogamente, ha ritenuto infondata la questione di costituzionalità concernente la mancata equiparazione del convivente al coniuge, agli effetti della corresponsione della rendita Inail in caso di infortunio sul lavoro, sul presupposto che i vincoli e gli obblighi derivanti dalle disposizioni eurounitarie in tema di condotte discriminatorie non sono individuati in modo preciso (vd. sentenza n. 86 del 2009). La mancata inclusione della persona unita ad un’altra dello stesso sesso, in una relazione deformalizzata, fra i soggetti beneficiari del trattamento di reversibilità, rinviene allora una non irragionevole giustificazione nella circostanza che tale pensione si ricollega geneticamente ad un preesistente rapporto giuridico formalizzato che qui per definizione manca, con la conseguenza che deve ribadirsi la diversità delle situazioni poste a raffronto e, quindi, la non illegittimità di una differenziata disciplina delle stesse. Ne consegue la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995, in tema di riconoscimento della pensione ai superstiti per i dipendenti pubblici. Si rivela analogamente non necessario il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per la corretta interpretazione del diritto dell’Unione (artt. 47 e 48 Carta dei diritti fondamentali, 10,19 e 157 TFUE e Direttive 2000/78/CE e 2006/54/CE), la quale s’impone invece con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi. In conclusione, il ricorso è rigettato. Le spese devono essere compensate, in considerazione della complessità delle questioni controverse.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese. Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del dPR n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13. Oscuramento dei dati personali.