All'interprete il compito di indagare sull'effettiva essenza del rapporto tra lui e lei nonché di stabilire se la relazione affettiva non tradizionale rientri nelle nozioni di "famiglia" o di "convivenza", intese come elementi fondanti del reato di maltrattamenti.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del Tribunale di Milano del 21 gennaio 2019, G.P. veniva condannato per i delitti di atti persecutori, ex art. 612-bis, cod. pen., e di lesioni personali aggravate, in danno di S.R., nonché al risarcimento dei danni in favore di quest'ultima, costituitasi parte civile nel processo.
2. Respingendo l'appello dell'imputato, la Corte di appello di Milano, con la sentenza in epigrafe indicata, ne ha confermato la condanna, tuttavia riqualificando come maltrattamenti, a norma dell'art. 572, cod. pen., le condotte contestate, nonché ritenute dal primo giudice, come atti persecutori. Diversamente dal Tribunale, infatti, la Corte d'appello ha ritenuto che l'assenza di una stabile convivenza tra l'imputato e la parte civile non fosse ostativa alla configurabilità del delitto di maltrattamenti, essendo sufficiente, a tal fine, l'esistenza di una relazione di «stabile assistenza, morale e affettiva», ravvisata tra costoro in ragione dell'assidua frequentazione, della reciproca assistenza prestatasi durante i periodi di malattia, della comune consuetudine con amici e parenti, della loro coabitazione per un paio di mesi e nei fine settimana.
3. Impugna tale decisione l'imputato, per il tramite del proprio difensore, lamentandone vizi logici di motivazione, sulla base dei seguenti rilievi: episodicità e reciprocità delle condotte aggressive; relazione non dotata di stabilità e protrattasi per un periodo limitato; assenza di sentimenti di reciproca solidarietà. La Corte d'appello, con particolare riguardo a tal ultimo profilo, avrebbe valorizzato il fatto che l'imputato, in occasione degli episodi lesivi, avesse accompagnato la donna in ospedale, non considerando - deduce la difesa - che tanto avveniva soltanto per controllare che ella non lo denunciasse.
4. Ha depositato requisitoria scritta il Procuratore generale, concludendo per l'inammissibilità del ricorso.
5. Ha depositato conclusioni scritte la difesa della parte civile, concludendo per l'inammissibilità od il rigetto del ricorso, con vittoria di spese.
Motivi della decisione
1. La sentenza impugnata dev'essere annullata, poiché si fonda su un'erronea lettura dell'art. 572, cod. pen., nella parte in cui questa disposizione delimita l'àmbito applicativo della fattispecie ai comportamenti maltrattanti tenuti in danno di «una persona della famiglia o comunque convivente».
2. Indiscussa l'inesistenza, tra le parti, di una famiglia tradizionale, quella, cioè, fondata sul coniugio o sulla parentela, secondo la Corte d'appello - peraltro in piena concordia su questo punto con il primo giudice -- non sussisteva tra le medesime neppure una relazione di convivenza: in tali termini, infatti, la sentenza si esprime testualmente a pagina 5. Tuttavia, facendo proprio un robusto indirizzo ermeneutico manifestatosi nella giurisprudenza di legittimità, quei giudici hanno ritenuto che, per la configurabilità del delitto di maltrattamenti, il dato essenziale e qualificante consista nell'instaurazione, tra autore e vittima, di un rapporto connotato da reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza; con il corollario per cui, se un siffatto rapporto esiste, e se, dunque, sussistano tra costoro strette relazioni dalle quali dovrebbero derivare rispetto e solidarietà, non è nemmeno necessaria una stabile o prolungata convivenza, potendo il reato configurarsi anche qualora la coabitazione sia di breve durata, instabile od anomala (fra molte altre, Sez. 6, n. 17888 del 11/02/2021, O., Rv. 281092; Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, C., Rv. 261472; Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, I., Rv. 255628).
3. Secondo il Collegio, si tratta di una lettura normativa che merita una riflessione ulteriore. Frutto dello sforzo dell'interprete di ampliare lo spettro di tutela per soggetti tipicamente vulnerabili, poiché vittime di condotte prevaricatrici che maturano nell'àmbito di rapporti affettivi dai quali hanno naturale difficoltà a sottrarsi, essa deve ora misurarsi con i numerosi passi avanti in tal direzione compiuti dalla legislazione più recente, a cominciare dal d.l. n. 11 del 2009, conv. dalla legge n. 38 del 2009, che ha introdotto il delitto di atti persecutori (art. 612-bis, cod. pen.), e dalla stessa legge n. 172 del 2012, che esteso la platea dei soggetti passivi del delitto di maltrattamenti alla persona «comunque convivente» senza altro aggiungere. In tal senso, non può obliterarsi l'espresso monito di recente rivolto dalla Corte costituzionale al giudice penale, affinché rimanga aderente al testo normativo, correndo altrimenti il rischio di violare il divieto di analogia in malam partem che caratterizza le norme incriminatrici. Chiamato a pronunciarsi ex professo su una questione di rito, sorta all'interno di un processo per tal specie di condotte, il Giudice delle leggi ha affidato all'interprete il compito di stabilire se relazioni affettive - per così dire - non tradizionali (in quel caso si trattava di un rapporto sentimentale protrattosi nell'arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro) possano farsi rientrare nelle nozioni di "famiglia" o di "convivenza", alla stregua dell'ordinario significato di queste espressioni. Ma immediatamente dopo ha ammonito che, «in difetto di una tale dimostrazione, l'applicazione dell'art. 572, cod. pen., in casi siffatti - in luogo dell'art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l'ipotesi di condotte commesse a danno di persona "legata da relazione affettiva" all'agente - apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico (...), ma comunque preclusa dall'art. 25, secondo comma, Cost.» (Corte cost., sentenza n. 98 del 2021).
4. Tale sollecitazione è stata raccolta dalla più recente giurisprudenza di legittimità, alla quale il Collegio intende dar seguito. In ipotesi soltanto apparentemente differenti da quella in esame - poiché caratterizzate dal comune denominatore dell'assenza di un rapporto familiare o di convivenza tra autore e vittima al momento dei fatti - questa Sezione ha infatti ritenuto che non sia configurabile il reato di maltrattamenti, bensì l'ipotesi aggravata del reato di atti persecutori, in presenza di condotte poste in essere da parte di uno dei conviventi more uxorio ai danni dell'altro dopo la cessazione della convivenza (Sez. 6, n. 39532 del 06/09/2021, B., Rv. 282254, ribadita da Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, H., Rv. 282398, con la precisazione per cui, terminata la convivenza, vengono meno la comunanza di vita e di affetti nonché il rapporto di reciproco affidamento).
5. In conclusione, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici (art. 14, preleggi), immediato precipitato del principio di legalità (art. 25, Cost.), nonché la presenza di un apparato normativo che amplia lo spettro delle condotte prevaricatrici di rilievo penale tenute nell'àmbito di relazioni interpersonali non qualificate, impongono, nell'applicazione dell'art. 572, cod. pen., di intendere i concetti di "famiglia" e di "convivenza" nell'accezione più ristretta: quella, cioè, di una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale, da una duratura comunanza d'affetti, che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, ma sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché, ovviamente, non necessariamente continua (si pensi, ad esempio, al frequente caso di coloro che, per ragioni di lavoro, dimorino in luogo diverso dall'abitazione comune, per periodi più o meno lunghi ma comunque circoscritti). In applicazione di tale principio, è compito del giudice di merito, al quale va perciò rinviato il processo, verificare se il concreto atteggiarsi dei rapporti intercorsi tra le parti private in lite sia sussumibile nella delineata nozione di "convivenza", rilevando, all'esito di tale indagine di fatto, se le condotte accertate rivestano penale rilevanza e, in caso affermativo, a quale fattispecie incriminatrice debbano ricondursi.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Milano.