Poiché la finalità alla quale è collegato il consenso richiesto per il trattamento concorre a qualificare il trattamento stesso. Illegittima, dunque, la comunicazione telefonica quando il consenso non sia stato precedentemente prestato.
Il Garante Privacy, sulla base di una segnalazione proveniente da privati, aveva vietato alla compagnia telefonica l'ulteriore trattamento dei dati personali degli utenti per finalità promozionali volte ad acquisire il loro consenso all'effettuazione di attività di marketing.
Il Tribunale di Roma accoglieva il gravame proposto dalla compagnia telefonica, dunque il...
Svolgimento del processo
1. Lo studio PG commercialisti associati e la società S citavano in giudizio, dinanzi il Tribunale di Verbania, SB chiedendo che fosse accertato l'inadempimento per avvenuto dirottamento e distrazione di clientela con conseguente condanna al pagamento delle penali contrattualmente previste per un importo pari a€ 131.701.
2. Il Tribunale adito accoglieva la domanda. In particolare, evidenziava che la clausola 8.2 contenuta nel contratto di prestazione d'opera del 5 marzo 2014 testualmente recitava: in caso di dirottamento della clientela dei committenti o dei soggetti al medesimo riconducibili, durante la vigenza del contratto nei tre anni successivi alla sua eventuale risoluzione, per il tramite del professionista verso altri soggetti di, il professionista dovrà corrispondere una penale agli committenti pari al corrispettivo di un anno dovuto dai clienti dirottati ai committenti. Tale clausola doveva interpretarsi secondo la comune intenzione delle parti, ai sensi dell'articolo 1362 c.c. e secondo buona fede ex articolo 1366 c.c.. L'intero rapporto di collaborazione professionale intercorso tra le parti sintetizzato nel contratto del 12 marzo 2014 si era caratterizzato per la costante tensione volta a tutelare il committente nell'aspetto più sensibile del proprio valore economico costituito dalla clientela che ad esso si affidava per l'erogazione dei servizi fiscali e contabili prestati. In tal senso dovevano essere lette tutte le clausole di divieto di esercizio di attività concorrenziali poste in capo al convenuto fin dall'origine del rapporto di collaborazione e ripetute nei successivi contratti. La clausola di esclusiva presa all'articolo 3.5 del contratto del 5 marzo 2014, ulteriormente confermava la particolare esigenza di tutela espressa., dalla committenza. La ratio doveva individuarsi nel fatto che il committente che riusciva ad avere il professionista più bravo doveva preoccuparsi che questi non svolgesse la sua attività anche in favore di altri in modo tale che i servizi resi fossero qualitativamente superiori sul mercato e in grado di attrarre e di fidelizzare la clientela, Il patrimonio costituito dai clienti dell'impresa, dunque, era posto a tutela anche della previsione di cui all'art. 8.2 della penale da doversi corrispondere a carico del professionista per l'ipotesi dirottamento della clientela. Non poteva accogliersi la tesi difensiva circa il richiamo alla libertà dalla parte dell'utenza di scegliere il proprio professionista in quanto la clausola non incideva sulla libertà di determinazione della clientela ed era stata liberamente concordata tra le parti. Il tenore della clausola confermava il fatto che clienti erano tutti del committente e il professionista era entrato in contatto con gli stessi in occasione dell'esecuzione del contratto di collaborazione professionale. Infatti, l'articolo 5.5 del contratto prevedeva un previo sul compenso del convenuto laddove questi avesse portato alla committenza nuovi clienti a sé riconducibili. Emergeva dunque con chiarezza l'intendimento della clausola nel senso di inibire al convenuto di sottrarre in qualunque modo la clientela ai committenti. Oltre che dal tenore letterale, la medesima interpretazione emergeva anche secondo il canone della buona fede di cui all'articolo 1366 c.c., inteso nel senso di interpretare gli obblighi secondo i principi della salvaguardia dell'altrui interesse. Lo studio associato di commercialisti e ancora di più la società di elaborazione dati "sintesi" svolgevano un'attività economica di consulenza fiscale e contabile che per la maggior parte dei clienti si traduceva in un'attività seriale ed omogenea. Dunque, l'obbligazione formalmente assunta dalle parti attraverso la clausola 8.2 del contratto in realtà doveva ritenersi come rispondente ai principi di solidarietà e di buona fede nell'esecuzione dei contratti e, dunque, operava a prescindere dall'espressa previsione negoziale come dovere del convenuto di salvaguardare l'interesse della controparte. Peraltro, il convenuto non aveva allegato alcun elemento particolare di professionalità circa le problematiche dei clienti che lo avevano seguito e che solo la sua persona avrebbe potuto offrire. Inoltre, tutte le disdette dei clienti erano redatte secondo un unico schema, con le stesse anomalie formali e con lo stesso schema redazionale con lo stesso errore grammaticale e con luogo di redazione diverso da quello della sede del cliente e spedito da un ufficio postale diverso rispetto alla sede ma identico per tutte e corrispondente a quello del nuovo ufficio di consulenza del professionista e la variazione del depositario delle scritture contabili era avvenuta per quasi tutti i clienti attraverso il ragioniere VT amministratore unico della società con cui il professionista aveva iniziato una nuova collaborazione. Tutti questi fatti concatenati tra loro e oggetto di una relazione investigativa di parte attrice non oggetto di specifica contestazione da parte del convenuto fondavano il dato positivo per cui clienti indicati nell'atto di citazione come assistiti dal B i, in precedenza erano clienti delle parti attrici ed erano stati dirottati verso la società S per la parte relativa all'attività di consulenza e alla società G per la parte relativa all'elaborazione dati. La serialità della condotta illecita posta in essere dal convenuto e il numero ragguardevole di clienti sottratti agli attori, circa 40, rendeva ragione anche della congruità della clausola penale liquidata, avuto riguardo alla circostanza che essa era pari ad una sola annualità di corrispettivo a prescindere dall'importanza del cliente. Non poteva trovare accoglimento neanche l'osservazione della parte convenuta secondo la quale vi era comunque un mancato pagamento dei compensi per la sua collaborazione, né poteva ritenersi accolta la risoluzione del contratto per mutuo dissenso. L'accoglimento della domanda doveva affermarsi tanto in favore dell'associazione professionale di commercialisti denominata studio associato quanto in favore della società " S " definita come proprio CED nello stesso contratto di collaborazione.
3. SB proponeva appello avverso la suddetta sentenza.
4. La Corte d'Appello di Torino dichiarava inammissibile l'appello per non avere una ragionevole probabilità di essere accolto ex art. 348 bis c.p.c.
5. SB ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Verbania ex art. 348 ter c.p.c. sulla base di quattro motivi.
6. Lo studio PG Commercialisti Associati e la società S srl hanno resistito con controricorso.
7. Entrambe le parti con memoria depositata in prossimità dell'udienza hanno insistito nelle rispettive richieste.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione degli articoli 1218 e 1382 c.c., nonché dei criteri ermeneutici, in particolare dell'articolo 1362 c.c.. Il ricorrente premette che non è contestato tra le parti che la clausola in oggetto integri una clausola penale. Ciò premesso sarebbe erronea l'individuazione della Corte d'Appello dell'obbligazione cui essa accede e di cui viene allegato l'inadempimento. L'inadempimento sanzionato, infatti, consisterebbe nel dirottamento della clientela dei committenti verso altri soggetti. Secondo il ricorrente, per dirottamento dovrebbe intendersi coazione della volontà del cliente in contrapposizione al suo libero arbitrio. La stessa, dunque, non comprenderebbe l'ipotesi in cui la clientela liberamente decidesse di recedere dal rapporto con i committenti per affidarsi al B, ciò invece, determinerebbe un inadempimento incolpevole. La clausola, infatti, non integrerebbe un patto di non concorrenza ex articolo 2596 c.c.. In conclusione, il Tribunale, erroneamente interpretando la clausola 8.2, avrebbe omesso di individuare l'obbligazione da essa contemplata e avrebbe applicato la clausola penale imputando al dottor B una libera decisione dei clienti, la quale non costituisce inadempimento colpevole imputabile, ponendo così a suo carico una responsabilità oggettiva estranea all'istituto della clausola penale.
2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione del principio gerarchico dei canoni di interpretazione e del principio di buona fede. Il ricorrente evidenzia che i criteri ermeneutici di cui agli articoli 1366-1370 c.c., detti di interpretazione oggettiva o integrativi in quanto non riconducibili alla comune volontà delle parti, trovino applicazione solo in caso di insuccesso della ricerca della volontà in concreto. Nella specie, invece, il dato letterale della clausola sarebbe chiaro e consentirebbe di ricostruire la comune intenzione delle parti. Dunque, il Tribunale non avrebbe dovuto fare applicazione del criterio della buona fede, dilatando il contenuto del contratto e facendovi rientrare obblighi diversi da quelli ivi contemplati. Inoltre, il tribunale avrebbe fatto anche un'erronea applicazione del principio della buona fede che trova il proprio limite nell'interesse del soggetto obbligato il quale non può essere tenuto al compimento di atf che comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico. Nella specie il ricorrente ha svolto l'intera propria carriera professionale in esclusiva presso lo studio a partire dal 1998 e, pertant-0, i suoi contatti professionali sono sorti in quel contesto, Ne consegue che l'interpretazione data dalla Corte d'Appello altera sensibilmente l'equilibrio degli interessi delle parti ponendo a carico del ricorrente un obbligo di non concorrenza non voluto e senza alcuna limitazione a tutela dell'obbligato.
3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione degli articoli 1362 e 1372 c.c. nonché dei principi in tema di scioglimento del contratto per mutuo dissenso. Il ricorrente osserva che nella specie non vi è stata risoluzione del contratto ma un mutuo dissenso, ex articolo 1372 c.c., ovvero una libera decisione delle parti di sciogliere il contratto per un sopravvenuto diverso interesse. La clausola in oggetto, invece, sarebbe applicabile solo in caso di risoluzione del contratto. Il fatto che il contratto sia cessato per mutuo dissenso sarebbe non., contestato e anche provato dagli atti istruttori.
3.1 I primi tre motivi di ricorso che stante la loro evidente connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati. Le censure attengo tutte alla violazione delle regole di interpretazione del contratto che la Corte d'Appello avrebbe posto in essere nell'interpretazione della clausola che disciplinava il divieto di sottrazione della cliente a in caso di risoluzione del rapporto contrattuale che legava il B allo studio professionale PG e alla Società S trattandosi di censure che veicolano e danno corpo ad una "questione" ermeneutica devono richiamarsi i principi consolidati di questa Corte in materia di interpretazione negoziale. Innanzitutto deve ribadirsi che: «Ai fini della ricostruzione dell'accordo negoziale, l'attività del giudice del merito si articola in due fasi; la prima diretta ad interpretare la volontà delle parti, ossia ad individuare gli effetti da esse avuti di mira, che consiste in un accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo della motivazione, la seconda volta a qualificare il negozio mediante l'attribuzione di un "nomen iuris", riconducendo quell'accordo negoziale ad un tipo legale o assumendo che sia atipico, fase sindacabile in cassazione per violazione di legge, e segnatamente dei criteri ermeneutici indicati dagli artt. 1362 e ss. c.c.» (Sez. 6-3, Ord. n. 3590 del 2021). L'interpretazione di un atto negoziale, pertanto, è un tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, normalmente incensurabile in sede di legittimità, salvo che, come accennato, nelle ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, alla stregua del c.d. "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione, ai sensi del n. 5 dell'art. 360 c.p.c., nella formulazio11e attualmente vigente, ovvero, ancora, ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c., per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, previsti dall'art. 1362 ss. c.c. (Cass. n. 14355 del 2016, in motiv.). Il sindacato di legittimità può avere, quindi, ad oggetto solamente l'individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di verificare se sia il corso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (Cass. n. 2370! del 2016). Inoltre, al fine di riscontrare l'esistenza dei denunciati errori di diritto o vizi di ragionamento, non basta che il ricorrente faccia, com'è accaduto nel caso di specie, un astratto richiamo alle regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., occorrendo, invece, che specifichi, per un verso, i canoni in concreto inosservati e, per altro verso, il punto e il modo in cui il giudice di merito si sia da essi discostato (Cass. n. 1472 del 2011; più di recente, Cass. n. 27136 del 2017). Ne consegue l'inammissibilità dei motivi di ricorso che, come quelli in esame, pur denunciando la violazione delle norme ermeneutiche, si risolvano, in realtà, nella mera proposta di una interpretazione diversa rispetto a quella adottata dal giudice di merito (Cass. n. 24539 del 2009), così come è inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella sola prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati (Cass. n. 2465 del 2015, in motiv.). In effetti, per sottrarsi al sindacato di legittimità sotto i profili di censura dell'ermeneutica contrattuale, quella data dal giudice al contratto non dev'essere l'unica interpretazione possibile o la migliore in astratto, ma solo una delle possibili e plausibili interpretazioni, per cui, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di merito dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l'altra (Cass. 16254 del 2012; conf., più di recente, Cass. 27136 del 2017). Quanto alla censura dj violazione del principio gerarchico nell'interpretazione della eia ola, deve ribadirsi che nell'ambito del processo interpretativo l'espressione "deve", di cui all'art. 1366 c.c., attribuisce al principio di buona fede particolare importanza, in quanto vale a connotarlo alla stregua di un passaggio imprescindibile e necessario (cfr. Cass. sez. lav. 6.10.2008, n. 24652). Su tale scorta si soggiunge che il criterio della buona fede nella interpretazione dei contratti deve ritenersi di certo funzionale ad escludere il ricorso a significati unilaterali o contrastanti con un criterio di affidamento dell'uomo medio (cfr. Cass. 15.3.2004, n. 5239). Dunque, l'elemento letterale, pur assumendo funzione fondamentale nella ricerca della effettiva volontà delle parti, deve invero essere riguardato alla stregua degli ulteriori criteri ermeneutici e, segnatamente, di quelli dell'interpretazione funzionale ex art. 1369 c.c. e dell'interpretazione secondo buona fede ex art. 1366 c.c., avuto riguardo allo "scopo pratico" perseguito dalle parti con la stipulazione del contatto, e quindi della relativa "causa concreta". Tutto ciò premesso, venendo al caso di specie, deve richiamarsi la motivazione della Corte d'Appello secondo cui l'intero rapporto di collaborazione professionale intercorso tra le parti, sintetizzato nel contratto del marzo 2014, si era caratterizzato per la costante tensione volta a tutelare il committente nell'aspetto più sensibile del proprio valore economico costituito dalla clientela che ad esso si affidava per l'erogazione dei servizi fiscali e contabili prestati. In tal senso dovevano essere lette tutte le clausole di divieto di esercizio di attività concorrenziali poste in capo al convenuto fin dall'origine del rapporto di collaborazione e ripetute nei successivi contratti. La clausola di esclusiva presa all'articolo 3.5 del contratto in esame ulteriormente confermava la particolare esigenza di tutela espressa 9alla committenza. Il patrimonio costituito dai clienti de l'impresa, dunque, era posto a tutela anche della previsi0ne di cui all'art. 8.2 della penale da doversi corrispondere a carico del professionista per l'ipotesi di dirottamento della clientela. Non poteva accogliersi la tesi difensiva circa il richiamo alla libertà dalla parte dell'utenza di scegliere il proprio professionista in quanto la clausola non incideva sulla libertà di determinazione della clientela ed era stata liberamente concordata tra le parti. Il tenore della clausola confermava il fatto che i clienti erano tutti del committente e il professionista era entrato in contatto con gli stessi in occasione dell'esecuzione del contratto di collaborazione professionale. Infatti, l'articolo 5.5 del contratto prevedeva un premio sul compenso del convenuto laddove questi avesse portato alla committenza nuovi clienti a sé riconducibili. Emergeva, dunque, con chiarezza l'intendimento della clausola nel senso di inibire al convenuto di sottrarre in qualunque modo la clientela ai committenti. Oltre che dal tenore letterale, la, medesima interpretazione emergeva anche secondo il canone della buona fede di cui all'articolo 1366 c.c., inteso nel senso di interpretare gli obblighi secondo i principi della salvaguardia dell'altrui interesse. Dunque, l'obbligazione formalmente assunta dalle parti attraverso la clausola 8.2 del contratto in realtà doveva ritenersi come rispondente ai principi di solidarietà e di buona fede nell'esecuzione dei contratti e, dunque, operava a prescindere dall'espressa previsione negoziale come dovere del convenuto di salvaguardare l'interesse della controparte. Risulta evidente, pertanto, che la Corte d'Appello, nell'interpretazione della clausola negoziale 8.2 in esame, ha enucleato la comune intenzione dei contraenti indagando il senso letterale delle parole, anche in relazione al contesto in cui la stessa era chiamata ad operare ed alla luce delle altre disposizioni contrattuali, a1 sensi dell'art. 1363 c.c., e ha trovato ulteriore conferma dell'interpretazione data nel criterio di interpretazione di cui all'art. 1366 c.c., volto a consentire l'accertamento del significa o è dell'accordo in coerenza con la relativa ragione pratica o causa concreta e ad escludere, mediante un comportamento improntato a lealtà e salvaguardia dell'altrui interesse, interpretazioni in contrasto con gli interessi che le parti abbiano inteso tutelare con la stipulazione negoziale. Si impone, infatti, all'interprete, dopo aver compiuto l'esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l'intenzione dei contraenti e di verificare se quest'ultima sia coerente con le restanti disposizioni dell'accordo e con la condotta tenuta dai contraenti medesimi. Anche l'interpretazione della clausola come operante in qualsiasi ipotesi di scioglimento del rapporto è coerente con canoni interpretativi sopra esposti, sicché sulla base delle enunciate indicazioni giurisprudenziali l'interpretazione patrocinata dalla corte di merito non diverge da alcun criterio legale di ermeneutica contrattuale e, pertanto, sì sottrae al sindacato dì questa Corte, non essendo lamentato alcun omesso esame di un fatto rilevante per il giudizio oggetto dì discussione ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c..
4. Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione degli articoli 81, 99 e 100 c.p.c. La sentenza sarebbe erronea nella parte in cui ha respinto l'eccezione dì difetto di legittì azione dì interesse ad agire in capo allo studio mentre sarebbe documentato l'intervenuto recesso dei clienti dai contratti di assistenza professionale solo nei confronti della società S Sussisterebbe, dunque, il difetto di legittimazione in capo allo studio con ogni conseguenza sotto il profilo della liquidazione delle spese di lite.
4.1 Il quarto motivo di ricorso è infondato. La Corte d'Appello di Torino ha evidenziato che il dirottamento della clientela si era realizzato in favore della società s per la parte relativa all'attività di consulenza e della società G per la parte relativa all'elaborazione dati. Lo studio Associato era la parte contrattuale nei cui confronti il B aveva assunto l'obbligazione prevista alla clausola 8.2 del contratto, sicché non può dubitarsi della sua legittimazione attiva ad agire in giudizio.
5. Il ricorso è rigettato.
6. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
7. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell'art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità nei confronti della parte controricorrente che liquida i euro 7500 più 200 per esborsi, oltre al rimborso forfettario al 15% IVA e CPA come per legge; ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall'art. 1, co. 17, I. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell'art. 1 bis dello stesso ar.t. 13.