Nel giudizio civile di risarcimento e restituzione, la sentenza penale di patteggiamento non ha efficacia di vincolo né di giudicato, costituendo un indizio utilizzabile solo insieme ad altri indizi qualora ricorrano i tre requisiti di cui all'art. 2729 Codice civile.
L'attrice conveniva in giudizio l'ex fidanzato per sentirlo condannare al risarcimento dei danni per la violenta aggressione subita, in merito alla quale già in sede penale l'uomo era stato parte di un processo per lesioni terminato con sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti
Svolgimento del processo
1. M.R. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma, G.G., al fine di sentirlo condannare al risarcimento dei danni alla persona da quest'ultima subiti a causa della violenta aggressione dallo stesso perpetrata nei suoi confronti il giorno 7 agosto 2004. Espose che il G., suo ex fidanzato, si recò nella sua abitazione e, nel corso di una scenata di gelosia, dopo averla minacciata, la colpì ripetutamente con calci e pugni procurandole gravi lesioni, riscontrate dall'ospedale G.A. dove fu trasportata in ambulanza. In sede penale, il processo per lesioni fu definito con sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, di cui all'art. 444 c.p.p., mentre in merito alle ingiurie e alle minacce subite, fu pronunciata sentenza di condanna penale nei confronti del G.. Si costituì in giudizio il convenuto il quale, contestando la fondatezza di quanto esposto nell'atto di citazione, negò di aver aggredito M.R. e propose con comparsa di costituzione una diversa ricostruzione della realtà storica dedotta in giudizio. Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 3293/2015 accolse integralmente la domanda attorea, ritenendo che dalle risultanze istruttorie, nella specie dalle deposizioni testimoniali assunte, nonché dalla sentenza pronunciata a seguito di patteggiamento ai sensi dell'art. 444 c.p.p., risultasse provata la responsabilità del convenuto per le gravi lesioni subite dall'attrice e il conseguente diritto al risarcimento del danno di M. R.. Conseguentemente, condannò G.G. a corrispondere in favore dell'attrice la somma di 94.276,50 euro, oltre interessi compensativi, a titolo di risarcimento.
2. La pronuncia di primo grado è stata impugnata dal convenuto soccombente il quale, nel corso del giudizio d'appello, ha domandato la sospensione del processo sulla base dell'esposto disciplinare da lui presentato nei confronti del primo giudice, nonché della pendenza di un autonomo giudizio civile per il risarcimento dei danni derivanti dalla pretesa nullità della consulenza tecnica redatta dal Dott. C., nominato dal primo giudice. La Corte d'Appello di Roma, dopo aver escluso la ricorrenza dei presupposti per la sospensione del processo ai sensi dell'art. 295 c.p.c., in quanto le azioni proposte non si porrebbero in rapporto di pregiudizialità necessaria con il presente giudizio, con sentenza n. 3289/2020, del 7 luglio 2020, ha rigettato l'appello, condannando l'appellante alla rifusione delle ulteriori spese del grado.
3. Contro tale sentenza G.G. propone ricorso per Cassazione fondato su sette motivi. La signora M.R. si costituisce per resistere al ricorso senza spiegare alcuna difesa. Deposita procura speciale per la partecipazione all'udienza di discussione orale.
Motivi della decisione
4.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 360, co. 1 n. 4 c.p.c. "la violazione o falsa applicazione dell'art. 295 c.p.c.", per avere il giudice di secondo grado rigettato l'istanza di sospensione del processo, sostenendo che, nel caso di specie, non sussistesse un rapporto di pregiudizialità necessaria tra il presente giudizio e le azioni proposte dal ricorrente. La Corte d'Appello avrebbe erroneamente ancorato il rapporto di pregiudizialità idoneo a dar luogo alla sospensione alla identità delle parti e delle causae petendi dei giudizi pendenti. Così operando, il giudice di secondo grado sarebbe incorso nella violazione della norma processuale sulla sospensione, la cui operatività non dipenderebbe dall'identità delle parti o delle causae petendi ma dall'esistenza di una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa. La ratio dell'istituto della sospensione del processo risiede infatti nella necessità di evitare il conflitto di giudicati, conflitto che, secondo il ricorrente, certamente si verificherebbe qualora una delle azioni proposte trovasse accoglimento; infatti l'accertamento della responsabilità disciplinare del giudice istruttore di primo grado, ovvero la nullità o falsità della perizia redatta dal Dott. C., si porrebbero in contrasto con le sentenze di primo e di secondo grado. La Corte avrebbe inoltre errato poiché l'esistenza del nesso di causalità tra il danno psichico di M.R., non potrebbe ritenersi dimostrato, in quanto implicitamente escluso dalla valutazione tecnica resa dal Prof. F.. Il motivo è inammissibile. La sospensione del processo presuppone che il rapporto di pregiudizialità tra due cause sia concreto ed attuale, nel senso che la causa ritenuta pregiudiziale deve essere pendente, non giustificandosi diversamente la sospensione, che si tradurrebbe in un inutile intralcio all'esercizio della giurisdizione. Sicché, quando una sentenza viene impugnata in cassazione per non essere stato il giudizio di merito sospeso in presenza di altra causa pregiudiziale, è onere del ricorrente provare che la causa pregiudicante sia pendente e resti presumibilmente tale sino all'accoglimento del ricorso, mancando, in difetto, la prova dell'interesse concreto e attuale all'impugnazione, perché nessun giudice, di legittimità o di rinvio, può disporre la sospensione del giudizio in attesa della definizione di altra causa non più effettivamente in corso (Cass. n. 26716/2019; Cass. n. 22878/2015). Ebbene nel caso di specie, il ricorrente, 1n violazione del predetto principio, non ha dimostrato l'esistenza di procedimenti attualmente pendenti e asseritamente pregiudicanti.
4.2 Con il secondo motivo, il ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione, in riferimento all'art. 360, co. 1 n. 3 c.p.c., degli artt. 444, 445 co. 1 bis, 530 e 533 c.p. La Corte d'Appello avrebbe erroneamente consentito che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, di cui all'art. 444 c.p., fosse considerata quale ulteriore elemento di prova della responsabilità dell'odierno ricorrente. Ciò in palese contrasto non solo con la lettera della legge, che escluderebbe radicalmente l'efficacia della sentenza ex art. 444 nel giudizio civile, ma anche con la finalità deflattiva del contenzioso, sottesa all'istituto processual-penalistico. Nella diversa ipotesi si rischierebbe di minare la volontà legislativa di favorire il ricorso al rito alternativo. L'impossibilità di desumere la responsabilità del convenuto dalla sentenza di cui all'art. 444 c.p.p. dipenderebbe anche dalla circostanza che ad essa non è sotteso alcun accertamento del fatto storico e, secondo il ricorrente, al pari della condanna penale, anche la condanna al risarcimento del danno dovrebbe essere sostenuta dalla certezza "oltre ogni ragionevole dubbio". Il secondo motivo è infondato. La sentenza penale di patteggiamento, nel giudizio civile di risarcimento e restituzione, non ha efficacia di vincolo né di giudicato e neppure inverte l'onere della prova, costituendo, invece, un indizio utilizzabile solo insieme ad altri indizi se ricorrono i tre requisiti previsti dall'art. 2729 c.c., atteso che una sentenza penale può avere effetti preclusivi o vincolanti in sede civile solo se tali effetti siano previsti dalla legge, mentre nel caso della sentenza penale di patteggiamento esiste, al contrario, una norma espressa che ne proclama l'inefficacia agli effetti civili (art. 444 c.p.p.) (Cass. n. 20170/2018 e Cass. 7014/2020). Ebbene nel caso di specie il giudice del merito ha utilizzato la sentenza ex 444 esclusivamente come elemento ulteriore e di riscontro del quadro probatorio, coerentemente all'indirizzo più recente di questa Corte che gli conferisce valenza meramente indiziaria. Tale orientamento non si pone in contrasto con il pur condivisibile indirizzo di questa Corte che esclude l'efficacia vincolante o di prova piena dell'ammissione di responsabilità (Cass. n. 27835/2017 e 8421/2011). In tal modo la sentenza ex 444 non supera i confini dell'area del libero apprezzamento da parte del giudice.
4.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione, in riferimento all'art. 360, co. 1 n. 3, degli artt. 2697 c.c., 24 Cost., 210 e 230 c.p.c. La Corte d'Appello avrebbe violato la norma relativa all'onere della prova, in quanto, anziché accertare l'eventuale adempimento dell'onere della prova gravante sulla R., ne avrebbe giustificato immotivatamente le contraddizioni. Anche tale motivo è infondato. Ebbene, il giudice di merito, mediante l'esame sia delle allegazioni e deduzioni di entrambe le parti sia del complesso delle risultanze istruttorie, all'esito dell'istruttoria effettuata ha positivamente accertato le circostanze allegate dalla R.. Sicché, la lamentata violazione della regola sull'onere della prova non sussiste nel caso di specie. Tra l'altro, la violazione di tale regola viene in rilievo solo all’esito dell'istruttoria e nell'ipotesi in cui le circostanze di fatto poste a fondamento del giudizio siano rimaste ignote. E non è questo il caso (cfr. 6 e 7 sentenza impugnata).
4.4 Con il quarto motivo, il ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione, in riferimento all'art. 360, co. 1 nn. 3 e 4 c.p.c., degli artt. 185 c.p., 2043 c.c. e 2059 c.c. e 112 c.p.c. La Corte d'Appello avrebbe erroneamente condannato il G. al risarcimento del danno derivante da reato, poiché la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, in quanto pronunciata in assenza di un compiuto accertamento del fatto storico e della responsabilità dell'imputato, non potrebbe essere equiparata alla sentenza di condanna penale ai fini del risarcimento del danno in sede civile. La Corte avrebbe inoltre omesso del tutto di pronunciarsi sul presente motivo di gravame, specificamente proposto in sede d'appello. Anche tale motivo è infondato là dove non è inammissibile. Infatti, non risulta dal ricorso quando, dove, come e tramite quali atti, la domanda sia stata proposta in primo grado e ribadita in appello. Perché possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronunzia è necessario, da un lato, che al giudice del merito fossero state rivolte una domanda od un'eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si rendesse necessaria ed ineludibile; dall'altro lato che tale domanda od eccezione sia riportata puntualmente nel ricorso per Cassazione, con l'indicazione specifica dell'atto difensivo e/ o del verbale d'udienza nei quali è stata proposta, onde consentire al giudice di verificarne la ritualità e la tempestività, oltre che la decisività. Ed infatti, anche quando si deduca la violazione dell'art. 112 c.p.c., quindi un errore processuale - per il quale la Corte di cassazione è giudice anche dell'"atto processuale" - i principi di specificità dei motivi e di autosufficienza del ricorso per cassazione richiedono che il potere-dovere del giudice di legittimità d'esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato all'adempimento da parte del ricorrente dell'onere d'indicare compiutamente gli estremi degli atti medesimi, ed il tempo ed il luogo in cui siano stati prodotti (Cass. civ. Sez. 2, 24 novembre 2003 n. 17859, in motivazione). Nella specie, il ricorrente nulla ha specificato in proposito (Sez. 3, Sentenza n. 26900 del 19/12/2014). E comunque, il motivo sarebbe infondato perché la Corte d'Appello ha dato rilievo alla sentenza di condanna ex art. 444 c.p.p., valutato il complessivo quadro probatorio ed ha richiamato la motivazione effettuata dal Tribunale 'già ripercorsa in precedenza' e valutata alla luce dei motivi di appello. Pertanto, tale affermazione va valutata in tutta la sua ampiezza ed in relazione al complesso quadro probatorio esaminato dalla sentenza del Tribunale prima, e dalla Corte territoriale dopo, e va ad integrare la pronuncia della sentenza impugnata (cfr. pag. 8 sentenza impugnata).
4.5 Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione, in riferimento all'art. 360, co.1 n. 3, dell'art. 115 c.p.c., per avere la Corte omesso di considerare alcuni fatti che sarebbero rimasti pacifici tra le parti e dei quali, alla luce del principio di non contestazione, il convenuto non avrebbe dovuto fornire prova ulteriore. La Corte avrebbe dovuto fondare la decisione su tali fatti rilevanti, conferenti e risolutivi ai fini del decidere, dal momento che l'evento di danno su cui si fonda la richiesta risarcitoria della R. è avvenuto in assenza di testimoni. Il motivo è inammissibile. 'Ove con il ricorso per cassazione si ascriva al giudice di merito di non avere tenuto conto di una circostanza di fatto che si assume essere stata "pacifica" tra le parti, il principio di autosufficienza del ricorso impone al ricorrente di indicare in quale atto sia stata allegata la suddetta circostanza, ed in quale sede e modo essa sia stata provata o ritenuta pacifica' (Cass. n. 24062/2017). Nel caso di specie, il ricorrente si è limitato ad affermare che la non contestazione, ovvero ammissione, sarebbe avvenuta con la memoria ex art. 183 n. 1, ma non ha specificatamente indicato come, all'interno di tale atto, si sia perfezionata la fattispecie processuale della non contestazione, ripercorrendone i passaggi rilevanti, secondo la prospettazione del ricorrente, ai fini della dedotta non contestazione. Da ciò consegue che il ricorrente, con le censure poste nella seconda parte del motivo, richiede una rivalutazione dei dati fattuali e in particolare probatori, il cui giudizio rimane nella piena discrezionalità del giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità.
4.6 Con il sesto motivo, il ricorrente si duole della "violazione o falsa applicazione degli artt. 112, 115 c.p.c. e 2697 c.c., in riferimento all'art. 360, co.1 n. 5 c.p.c.", in quanto la Corte d'appello avrebbe omesso la motivazione su un punto decisivo della controversia, nonché genericamente adottato un provvedimento viziato da motivazione apparente o perplessa. Il motivo è infondato. In disparte il rilievo che, quanto alla doglianza imperniata sulla violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., il ricorso non è in linea con le chiare indicazioni di Cass. 11892/16 e, in motivazione, di Cass. Sez. U. n. 16598/16, neppure è rispettato il canone, fissato da Cass. Sez. U. n. 1785/18. Ma nel caso di specie, non sussiste il vizio lamentato dal ricorrente. La motivazione c'è, non è apparente, ed è scevra da qualsivoglia vizio logico giuridico. La censura di apparenza, inoltre, viene formulata confutando in realtà un giudizio di fatto. In materia di ricorso per cassazione, la violazione dell'art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (Cass. n. 23940 del 2017).
4.7 Con il settimo motivo, il ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione degli artt. 191 e 197 c.p.c., della nullità della sentenza ex artt. 122 e 116 c.p.c., in relazione all'art. 360, co. 1 nn. 3, 4, 5 nonché dell'omessa pronuncia e omesso esame di un punto decisivo della controversia, poiché la Corte d'Appello, confermando la sentenza di primo grado, avrebbe ritenuto sussistente il nesso di causalità tra il dedotto evento di aggressione e il danno psicologico riscontrato dal Prof. F., nonostante nella perizia non vi sia alcun riferimento espresso a tale nesso di causalità, ma piuttosto il predetto danno psichico sembrerebbe derivare da un generico evento traumatico. Il motivo è inammissibile. La censura riguarda la valutazione che il giudice del merito ha fatto delle risultanze della CTU. Tale valutazione è riservata al giudice del merito e non sindacabile nel giudizio di legittimità.
5. La sostanziale indefensio della ricorrente che ha depositato solo la procura speciale, non richiede la condanna alle spese.
5.1. Infine, poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono i presupposti processuali (a tanto limitandosi la declaratoria di questa Corte: Cass. Sez. U. 20/02/2020, n. 4315) per dare atto - ai sensi dell'art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1-quater all'art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. n. 115 del 2002 (e mancando la possibilità di valutazioni discrezionali: tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra le innumerevoli altre successive: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) - della sussistenza dell'obbligo di versamento, in capo a parte ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17 della L n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis del citato art. 13.