Le sanzioni disciplinari contenute nel Codice deontologico forense hanno natura amministrativa, pertanto non si applica lo jus superveniens ove più favorevole all'incolpato.
Il Consiglio Distrettuale di Disciplina dell'Aquila adottava la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio della professione per 2 mesi nei confronti dell'odierno ricorrente, avvocato dipendente del Comune e iscritto nell'elenco speciale degli avvocati degli enti pubblici, al quale si imputavano alcune condotte ritenute incompatibili con...
Svolgimento del processo
1. Il 12 ottobre 2017 il Consiglio Distrettuale di Disciplina dell'Aquila adottava nei confronti dell' avvocato D.N. - dipendente del Comune dell'Aquila iscritto nell'elenco speciale degli avvocati degli enti pubblici - la sanzione disciplinare della sospensione dell'esercizio della professione per due mesi, per avere egli violato «i canoni deontologici di cui all'art. 16 (dovere di evitare incompatibilità) del C.D.F. vigente all'epoca dei fatti e attualmente all'art. 6 del C.D.F. approvato il 31/01/2014. Fatti commessi in L'Aquila dal 2010 al 2012» (così recita il capo di incolpazione trascritto a pag. 2 della sentenza qui impugnata).
2. All'avvocato N. erano state contestate le seguenti condotte, ritenute incompatibili con la sua iscrizione nell'elenco speciale degli avvocati degli enti pubblici quale legale del Comune dell'Aquila:
1) avere svolto attività amministrativa con funzioni gestionali per conto del Comune dell'Aquila, percependo la relativa indennità di vigilanza;
2) avere svolto attività difensiva, con corrispettivo, in favore della ASL dell'Aquila - Sulmona;
3) avere svolto attività difensiva in più occasioni in favore dei dirigenti dello stesso Comune dell'Aquila.
Il Consiglio Distrettuale di Disciplina - esclusa la contestata violazione deontologica in relazione all'attività di cui sub 3) - ha ritenuto che le attività di cui sub 1) e sub 2) contrastassero con il dovere degli avvocati iscritti nell'elenco speciale di cui all'art. 3, quarto comma, lett. b), R.D.L. n. 1578/1933 di esercitare esclusivamente attività di patrocinio nell'interesse dell'ente di appartenenza.
3. L'avvocato N. impugnava la decisione del Consiglio Distrettuale di Disciplina dell'Aquila davanti al Consiglio Nazionale Forense (di seguito: C.N.F.), che ha rigettato la sua impugnazione con la sentenza oggetto del presente ricorso per cassazione.
3.1. In primo luogo, il C.N.F. ha disatteso la doglianza proposta dall'avv. N. in ordine alla genericità del capo di incolpazione formulato nei suoi confronti. Al rilievo del ricorrente che tale capo di incolpazione risultava privo, in violazione dell'articolo 59 della legge n. 247/2012, di qualunque specificazione degli incarichi di gestione che l'incolpato avrebbe assunto per il Comune e delle attività difensive che l'incolpato avrebbe svolto in favore dell'ASL, il C.N.F. ha replicato che l'avv. N. aveva preso posizione rispetto a tutti i fatti contestatigli con la memoria difensiva depositata presso il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati dell'Aquila in data 1.9.2011, «formulando le proprie analitiche osservazioni vuoi in merito a ciascuno degli incarichi amministrativi svolti dallo stesso per conto del comune dell'Aquila, ... vuoi in merito alla vicenda relativa all'attività difensiva prestata in favore dell'Azienda Sanitaria Locale» (pag. 4, terzo capoverso, della sentenza); da tale rilevo il C.N.F. ha tratto la conclusione che il capo di incolpazione non poteva ritenersi nullo in quanto lo stesso risultava formulato in termini sufficientemente specifici per consentire il pieno dispiegamento del diritto di difesa dell'incolpato.
3.2. In secondo luogo, il C.N.F. ha disatteso la doglianza con cui l'avv. N. aveva sostenuto che non fosse stata raggiunta la prova delle attività a lui addebitate, tanto con riferimento alla attività di gestone amministrativa asseritamente svolta in favore del Comune, con percezione dell'indennità di vigilanza, quanto con riferimento alla attività defensionale asseritamente svolta in favore dell'ASL. Al riguardo il C.N.F., dopo aver richiamato il principio di acquisizione della prova, ha affermato che la prima memoria difensiva depositata dall'incolpato presso il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati conteneva ammissioni, aventi portata confessoria, idonee a provare che egli avesse svolto le attività a lui addebitate tanto in favore del Comune quanto in favore della ASL, altresì aggiungendo che la sussistenza di una convenzione con tra il Comune e la ASL non valeva ad esentarlo dalla incompatibilità tra l'esercizio dell'attività di avvocato del Comune e l'esercizio della professione presso altri soggetti.
3.3. In terzo luogo, il C.N.F. ha rigettato la tesi, pure sostenuta dall'avv. N., della retroattività dell'art. 1, comma 221, della Legge n. 208/2015, là dove recita «Allo scopo di garantire la maggior flessibilità della figura dirigenziale nonché il corretto funzionamento degli uffici, il conferimento degli incarichi dirigenziali può essere attribuito senza alcun vincolo di esclusività anche ai dirigenti dell'avvocatura civica e della polizia municipale». Secondo il C.N.F. tale disposizione sarebbe inapplicabile nella specie, per il principio /ex specialis derogat generali. Nell'impugnata sentenza si richiama, in primo luogo, l'insegnamento di queste Sezioni Unite alla cui stregua «uno dei presupposti imprescindibili per la iscrizione, ai sensi dell'art. 3, comma 4, lettera b), del R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 (convertito nella legge 22 gennaio 1934, n. 36, e modificato dalla legge 23 novembre 1939, n. 1949), dell'avvocato e del procuratore nell'elenco speciale, annesso all'albo ordinario, presso il Consiglio dell'Ordine locale, è costituito dalla esclusività dell'espletamento, da parte del professionista dipendente, dell'attività di assistenza, rappresentanza e difesa dell'ente pubblico, presso il quale il professionista presta la sua opera, nelle cause e negli affari propri dell'ente stesso" (così SSUU n. 7084/1995, conf. SSUU n. 19547/2010, non massimata, pag. 4). Sulla scorta di tale premessa, il C.N.F. afferma, ancora, che la disposizione contenuta nell'art. 1, comma 221, della Legge n. 208/2015 (legge di stabilità 2016) deve considerarsi lex generalis rispetto alla lex specialis rappresentata dalla disposizione dettata dal suddetto articolo 3, comma 4, lett. b), R.D.L. n. 1578/1933; con la conseguenza che questa seconda disposizione non può essere derogata dalla prima.
4. Avverso la sentenza del C.N.F. l'avv. N. ha proposto ricorso per cassazione, sulla scorta di cinque motivi (nel ricorso sono sei, ma si tratta di refuso, avendo il ricorrente riportato due volte il motivo di cui alla lett. d - quarto motivo).
5. Il Consiglio dell'ordine degli Avvocati dell'Aquila non ha spiegato difese in questa sede. La causa è stata chiamata alla pubblica udienza del 22 febbraio 2022 - "cameralizzata" ai sensi dell'articolo 23, comma 8 bis, del decreto-legge n. 137 del 2020 e dell'articolo 7 del decreto-legge n. 105 del 2021 (Misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19) - per la quale il ricorrente ha depositato una memoria e il Procuratore Generale ha depositato una requisitoria scritta, concludendo come in epigrafe.
Motivi della decisione
6. Con il primo motivo rubricato: «a) Genericità dell'incolpazione in violazione dell'art. 59 della Legge Forense. Eccesso di potere» - il ricorrente reitera, anche in questa sede, la tesi, già proposta al C.N.F., che la descrizione svolta nel capo di incolpazione delle condotte a lui addebitate, indistintamente riferite al periodo "dal 2010 al 2012", non sarebbe idonea a soddisfare la prescrizione di specificità del capo di incolpazione imposta dall'art. 59, primo comma, lett. b, di cui alla legge n. 247/2012.
6.1 Il motivo è inammissibile per difetto di pertinenza alle motivazioni della sentenza impugnata. Il ricorrente, infatti, non si misura in alcun modo con l'argomento del C.N.F. che, sulla premessa che I' incolpazione richiamava fatti già descritti nell'esposto che aveva dato origine al procedimento disciplinare, rileva che «la circostanza che i fatti descritti nell'esposto siano stati poi richiamati nel capo di incolpazione esclude in radice la sussistenza dei presupposti per una declaratoria di nullità» (pag. 4 quinto capoverso, della sentenza); cosicché l'incolpato, con la prima memoria difensiva, aveva potuto prendere posizione su tutti gli addebiti a lui mossi sia «in merito a ciascuno degli incarichi amministrativi svolti dallo stesso per conto del comune dell'Aquila», sia «in merito alla vicenda all'attività difensiva prestata in favore dell'ASL» (vedi sopra,§ 3.1).
7. Con il secondo motivo - rubricato: «b) Violazione di legge sotto il profilo dell'assenza di riscontro probatorio dell'incolpazione. Violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.. Violazione dell'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. in relazione agli artt. 115, 116, 228 e 229 c.p.c. e 2375 c.c.. Eccesso di potere e violazione di legge ai sensi dell'art. 36, co. 6, L. 247/2012» - il ricorrente censura la sentenza sia sotto il profilo della violazione di legge, denunciando l'assenza di riscontro probatorio dell'incolpazione, sia sotto il profilo dell'omessa motivazione, citando l'art. 360 n. 5 c.p.c. Secondo il ricorrente, la decisione del C.N.F. avrebbe una motivazione meramente apparente là dove attribuisce alle dichiarazioni da lui svolte nella prima memoria difensiva depositata presso il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati valore di confessione dell'assunzione degli incarichi amministrativi in favore del Comune dell'Aquila e degli incarichi defensionali in favore della ASL.
7.1. Il motivo è inammissibile perché, per un verso, l'evocazione delle norme del codice di procedura civile richiamate nella rubrica non si traduce nella individuazione di regole di diritto applicate nella impugnata sentenza in contrasto col disposto di tali norme; per altro verso, il richiamo all'articolo 360 n. 5 c.p.c. non si sostanzia nella indicazione di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti del quale sia stato omesso l'esame, ma si risolve in una critica di merito dell'apprezzamento operato dal C.N.F. sul contenuto delle dichiarazioni rese dall'incolpato in sede procedimentale; vale a dire, in un dissenso rispetto al giudizio di fatto secondo cui l'odierno ricorrente aveva «espressamente ammesso sia di avere assunto l'incarico di carattere amministrativo per conto del comune dell'Aquila, sia di aver prestato attività difensiva in favore dell'Azienda Sanitaria Locale» (pag. 5, righi 3 e segg. della sentenza). Va qui allora ricordato che questa Corte, in sede di impugnazione delle sentenze del C.N.F., può senz'altro esprimere un sindacato sulla congruità, sulla adeguatezza e sull'assenza di vizi logici della motivazione che sorregge la decisione finale, ma tale giudizio va condotto nei limiti consentiti dall'attuale testo dell'art. 360, n. 5 c.p.c. (come interpretato a partire da SSUU n. 8053/2014), ed è quindi limitato all'accertamento di eventuali anomalie motivazionali che si tramutino in violazione di legge costituzionalmente rilevante, tali da ricomprendere, oltre alla "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico" e alla "motivazione apparente", anche il "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e la "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile" (cfr., in termini, SSUU 42090/2021, in motivazione § 1.1.); anomalie di tal genere non sussistono nella sentenza qui impugnata, la quale dà analiticamente conto del contenuto delle ammissioni dell'incolpato alle quali viene ascritta portata confessoria (vedi pag. 2, della sentenza, righi 6 e segg.).
8. Con il terzo motivo di ricorso - rubricato: «c) Violazione dell'art. 53 L.F. Eccesso di potere» - viene censurata la statuizione sull'entità della sanzione. Secondo il ricorrente, presupposta la fondatezza del primo motivo (genericità dell'incolpazione) e del secondo motivo (erroneo accertamento del fatto) del ricorso per cassazione, la sanzione concretamente irrogata costituirebbe l'esito non «di un'operazione di dosimetria derivante dall'accertamento dei fatti addebitati e dalla valutazione della loro gravità», bensì di un'operazione «fondata su presupposti illegittimi ed indeterminati» (pag. 11, righi 9 e ss., del ricorso).
8.1. Il motivo in esame costituisce un mero sviluppo argomentativo dei due motivi che lo precedono e dei medesimi non può che seguire le sorti.
9. Con il quarto motivo - rubricato: «d) Violazione dell'art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., in relazione all' art. 112 c.p.c.. Mancata corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Violazione dell'art. 51 R.D.L. 1578/1933» - il ricorrente sostiene di aver eccepito il decorso della prescrizione nell'atto di ricorso dinnanzi al C.N.F. e lamenta la omessa pronuncia su tale eccezione, denunciando altresì la violazione dell'art. 51 R.D.L. 1578/1933 (che recita: «L'azione disciplinare si prescrive in cinque anni»).
9.1. Il motivo è parzialmente fondato.
9.2. Per quanto concerne la denuncia di violazione dell'articolo 112 c.p.c., per omessa pronuncia sull'eccezione di prescrizione sollevata dall'avv. N., la stessa non può trovare accoglimento in ragione del principio, già espresso da queste Sezioni Unite, che l'omessa pronuncia del C.N.F. sull'eccezione di prescrizione sollevata dall'incolpato «non determina, di per sé, l'invalidazione della sentenza impugnata; si tratta infatti di eccezione rilevabile anche in sede di legittimità (Cass. SSUU n.28159/2008) e, comunque, di omissione alla quale può e deve rimediarsi in quest'ultima sede processuale mediante l'applicazione - ad una fattispecie dagli estremi temporali pacifici - di un ormai consolidato orientamento di diritto.» (così SSUU n. 20384/2021, § 2.2. della motivazione).
9.3. E' fondata, per contro, la denuncia di violazione dell'art. 51 del R.D.L. n. 1578/1933, che è la norma applicabile ratione temporis, risalendo i fatti contestati al periodo 2010-2012, interamente anteriore alla entrata in vigore della legge n. 247/2012, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 18 gennaio 2013 (cfr. SSUU 20384/2021, già citata: «in tema di illecito disciplinare degli avvocati, il regime più favorevole di prescrizione introdotto dall'art.56 della I. n. 247 del 2012, il quale prevede un termine massimo di prescrizione dell'azione disciplinare di sette anni e sei mesi, non trova applicazione con riguardo agli illeciti commessi prima della sua entrata in vigore; ciò in quanto le sanzioni disciplinari contenute nel codice deontologico forense hanno natura amministrativa sicché, per un verso, con riferimento alla disciplina della prescrizione, non trova applicazione lo lus superveniens, ove più favorevole all'incolpato, restando limitata l'operatività del principio di retroattività della lex mitior alla fattispecie incriminatrice e alla pena, mentre, per altro verso, il momento di riferimento per l'individuazione del regime della prescrizione applicabile, nel caso di illecito punibile solo in sede disciplinare, rimane quello della commissione del fatto e non quello della incolpazione»). Dall'impugnata sentenza emerge, infatti, che l'apertura del procedimento disciplinare fu comunicata all'incolpato il 3 maggio 2016 (pag. 2, rigo 18; per l'affermazione dell'idoneità dell'apertura del procedimento disciplinare ad interrompere la prescrizione, vedi SSUU 21591/2013, SSUU 24966/2017); l'illecito deontologico sostanziatosi nello svolgimento di attività di gestione amministrativa in favore del Comune e di prestazioni defensionali in favore della ASL in epoca anteriore al 3 maggio 2011 deve quindi ritenersi prescritto, nulla emergendo dall'impugnata sentenza che consenta di qualificare lo svolgimento di diversi incarichi gestionali e di diverse prestazioni defensionali alla stregua di un'unica condotta permanente. Il C.N.F. avrebbe quindi dovuto precisare quali incarichi gestionali e defensionali siano stati affidati all'odierno ricorrente dal Comune dell'Aquila e, rispettivamente, dalla ASL L'Aquila-Sulmona, quando lo svolgimento di tali incarichi sia cessato e, sulla scorta di tale accertamento, considerare - ai fini dell'accertamento dell'illecito e della quantificazione della sanzione - esclusivamente quelli il cui svolgimento si sia protratto dopo la data del 3 maggio 2011. Detti accertamenti di fatto, assenti nella sentenza impugnata, non possono essere effettuati in sede di legittimità e dovranno quindi essere svolti, previa cassazione della sentenza in parte qua, dallo stesso C.N.F. in sede di rinvio.
10. Con il quinto motivo di ricorso - rubricato: «e) Violazione dell'art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., in relazione ali' art. 1, co. 221, L. 208/2015 e all'art. 14 delle preleggi» - l'avv. N. censura l'impugnata sentenza nella parte in cui gli ha ascritto la violazione dell'obbligo deontologico di evitare incompatibilità per aver assunto incarichi gestionali conferitigli dal Comune dell'Aquila. Ad avviso del ricorrente il C.N.F. avrebbe errato a non ritenere applicabile in via retroattiva la disposizione di cui all'art. 1, comma 221, della legge n. 208/2015, che prevede espressamente la possibilità di attribuire incarichi dirigenziali ai dirigenti dell'avvocatura civica.
10.1. Il motivo è inammissibile per difetto di specificità, in quanto la relativa formulazione non offre a questa Corte le indicazioni necessarie per apprezzare la astratta pertinenza della disposizione di cui all'art. 1, comma 221, I. n. 208/2015 alla fattispecie in esame; apprezzamento, questo, che precede logicamente sia la questione della retroattività di detta disposizione, sia la questione, affrontata nella sentenza impugnata, della sua capacità di derogare al disposto (ritenuto dal C.N.F. lex specialis) dell'art. 3, comma 4, lettera b), R.D.L. n. 1578/1933. Il citato comma comma 221 (trascritto sopra, cfr. § 3.3.), fa infatti specifico riferimento alla possibilità di conferimento di "incarichi dirigenziali" a "dirigenti dell'avvocatura civica" e dalla sentenza impugnata non emerge né che gli incarichi de quibus fossero dirigenziali (circostanza, questa, non precisata nemmeno nel ricorso per cassazione), né che l'avv. N. fosse dirigente dell'avvocatura del Comune dell'Aquila. Quest'ultima circostanza, può aggiungersi, risulta dedotta nel ricorso per cassazione (a pag. 13, ultimo capoverso), ma si tratta di deduzione inammissibile perché il relativo accertamento di fatto non emerge dalla sentenza impugnata e non può essere svolto nel giudizio di legittimità. In proposito va qui ricordato l'insegnamento di questa Corte alla cui stregua «il ricorrente per cassazione che riproponga una determinata questione giuridica - che implichi un accertamento di fatto - non trattata in alcun modo nella sentenza impugnata né indicata nelle conclusioni ivi epigrafate, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa, senza che rilevi che la circostanza integri una nullità rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado, atteso che essa non può essere oggetto di esame ove comporti accertamenti di fatto» (così Cass. Sez. II, 7048/2016).
11. In definitiva, il quarto motivo di ricorso va parzialmente accolto, mentre gli altri motivi vanno dichiarati inammissibili. La sentenza gravata va cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio al C.N.F. affinché operi gli accertamenti di cui al precedente § 9.3.
12. Le spese del giudizio di legittimità si compensano, in ragione del limitato accoglimento del ricorso.
P.Q.M.
La Corte accoglie parzialmente il quarto motivo di ricorso, dichiara inammissibili gli altri e cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, con rinvio al C.N.F..