L'eccesso di zelo non è una giustificazione idonea per licenziare un capotreno che faceva troppe multe ai viaggiatori. Con la sentenza in commento, la Cassazione ricostruisce i confini della nozione di giusta causa a tal fine.
La Corte d'Appello di Venezia confermava la decisione del Giudice di primo grado e accoglieva la domanda di annullamento del licenziamento per giusta causa intimato da Trenitalia nei confronti di un Capotreno per via del gran numero di irregolarità riscontrate da quest'ultimo su titoli di viaggio dei viaggiatori, procurandosi un vantaggio corrispondente alle provvigioni...
Svolgimento del processo
1. La Corte di appello di Venezia, confermando la sentenza del Tribunale della medesima sede, ha – con sentenza n. 434 depositata l’1.8.2019 – accolto la domanda di annullamento del licenziamento per giusta causa intimato da T. S.p.a., in data 29.7.2016, a F.B., per aver riscontrato – in qualità di Capotreno – un notevole numero di irregolarità su titoli di viaggio dei viaggiatori (175 nel biennio 2014/2016), procurandosi un vantaggio corrispondente alle provvigioni superiori a quelle contrattualmente previste (pari a circa 400 euro in 2 anni).
2. La Corte di appello ha rilevato che, da un punto di vista oggettivo, la condotta assunta dal dipendente – ricostruita attraverso un quadro probatorio presuntivo ed incerto soprattutto sulle modalità di elevazione delle tipologie di irregolarità, sui possibili limiti dell’applicativo, su “prassi” tollerate - ben poteva consigliare maggior cautela al datore di lavoro; da un punto soggettivo, seppur era emerso uno “zelo non comune” del B., inflessibile ed estremamente puntiglioso nell’elevare contravvenzioni, gli elementi probatori raccolti non consentivano di configurare una condotta dolosa o fraudolenta costituente reato con finalità esclusive di lucro né la mala fede contro l’azienda ma semmai un comportamento di imprudenza, negligenza attestata da oggettivi errori nello svolgimento dell’attività di controllo dei biglietti, e la locupletazione di provvigioni (per somma modesta se spalmata nel biennio) era un effetto indiretto “dell’eccesso di zelo”; la violazione di norme regolamentari era sanzionata, dal CCNL di settore, con misura conservativa e, inoltre, non poteva ritenersi sussistente il dolo diretto finalizzato all’appropriazione di somme o a danneggiare l’azienda o i terzi, con conseguente applicazione del regime sanzionatorio dettato dall’art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970.
3. Per la cassazione di tale sentenza la società T. ha proposto ricorso affidato a due motivi, illustrati da memoria. Il lavoratore ha resistito con controricorso.
4. Il Procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., violazione o falsa applicazione degli artt. 2119, 2104, 2105, 2106 cod.civ., 56, 60, 61, 53, 64 CCNL Mobilità del 2012 e CCNL Mobilità Acaf del 2016 avendo, la Corte territoriale, trascurato di valutare se i comportamenti tenuti dal dipendente (come accertati) integrassero comunque il modello legale di giusta causa di licenziamento, a prescindere dalle clausole del CCNL che tipizzano il licenziamento senza preavviso solamente per comportamenti dolosi, pur dovendosi ritenere che anche le clausole negoziali richiamano, nel loro incipit, la nozione legale di giusta causa. E’, invero, grave che – anche a prescindere dall’incasso di premi non dovuti – un Capo treno abbia ripetutamente e deliberatamente applicato tariffe e/o sanzioni a proprio piacimento in spregio ai regolamenti ferroviari, unico caso in tutta la storia societaria, come è emerso dalla prova testimoniale.
2. Con il secondo motivo si denunzia, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 18, commi 4 e 5, della legge n. 300 del 1970, per aver trascurato, la Corte territoriale, applicando il regime reintegratorio, che i fatti sono risultati sussistenti.
3. Il primo motivo di ricorso, che attiene al processo di sussunzione della fattispecie concreta nella nozione legale di giusta causa, non merita accoglimento.
3.1. Questa Corte ha più volte affermato che l'art 2119 c.c. configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell'estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto, precisando che l'operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito nell'applicare clausole generali come quella dell'art. 2119 c.c., non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità (Cass. nn. 1351 del 2016, 12069 del 2015, 6501 del 2013), poiché l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall'ordinamento.
3.2 La relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo (Cass. nn. 1977 del 2016, 1351 del 2016, 12059 del 2015). I fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da lederne irrimediabilmente l'elemento fiduciario e spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi, innanzi tutto, rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente e dalla qualifica rivestita, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla sua particolare natura e tipologia (v. ad es. Cass. nn. 2013 del 2012).
3.3. La Corte territoriale ha valutato - sia prendendo a parametro di riferimento la scala valoriale dettata dal codice disciplinare contenuto nel CCNL applicato in azienda sia alla luce dei parametri dell'intensità dell'elemento intenzionale, del grado di affidamento richiesto dalle mansioni affidate al lavoratore e del numero e della gravità delle condotte tenute - la proporzionalità della sanzione espulsiva adottata nei confronti del ricorrente ed è pervenuta alla conclusione della insussistenza di tale proporzionalità. In particolare, la Corte territoriale, letta la contestazione disciplinare - “tutta centrata sulla violazione di norme regolamentari (an e quantum di tasse e soprattasse) e scontistica (vigente o non più vigente) – e valutate “la peculiarità del caso e la casistica” nonché l’elemento psicologico del lavoratore (delineato quale “intransigenza zelante”, con esclusione della intenzionalità di danneggiare l’azienda con finalità di guadagno) è pervenuta ad un giudizio di non proporzionalità della sanzione rispetto all’infrazione addebitata. Si tratta di una valutazione di merito che, in quanto basata su motivazione esente dalle anomalie denunciabili ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. (nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 54 del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabile nella specie ratione temporis), è insindacabile in sede di legittimità.
4. Il secondo motivo di ricorso non è fondato.
4.1. Questa Corte ha affermato ripetutamente (Cass. n. 13178 del 2017, Cass. 18823 del 2018, Cass. n. 25534 del 2018, Cass. n. 31839 del 2019), che la valutazione di non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato rientra nell'art.18, comma 4, della legge n. 300 del 2018 (come novellata dalla legge n. 92 del 2012) solamente nell'ipotesi in cui lo scollamento tra la gravità della condotta realizzata e la sanzione adottata risulti dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che ad essa facciano corrispondere una sanzione conservativa. Al di fuori di tale caso, secondo la consolidata esegesi dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 in base alla quale il regime risarcitorio del comma 5 deve ritenersi di carattere generale, la sproporzione tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra nelle "altre ipotesi" in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per le quali dell'art. 18, comma 5, della legge n. 300 del 2018 prevede la tutela indennitaria c.d. forte.
4.2. La Corte territoriale ha, nel caso di specie, ritenuto sussumibile la condotta del lavoratore – incentrata, come emerso dalla disamina della lettera di contestazione, sulla violazione di norme regolamentari – nell’ambito delle sanzioni conservative previste dal CCNL applicato in azienda (in specie, conformemente alla valutazione del giudice di primo grado, negli artt. 59, lett. h, 60, lett. h, 62, lett. e) che puniscono la negligenza/inosservanza di leggi/regolamenti/obblighi di servizio con pregiudizio agli interessi dell’azienda o vantaggio per sé o per terzi ed ha escluso la configurabilità di un dolo diretto finalizzato all’appropriazione di somme o a danneggiare l’azienda o i terzi, con conseguente esclusione della sussumibilità delle condotte nella previsione negoziale (artt. 63 e 64) che punisce con il licenziamento la inosservanza di fonti normative che abbia arrecato pregiudizio alla sicurezza dell’esercizio con danni gravi al materiale o alla persona ovvero gravissime violazioni dolose che incrinino irreversibilmente il vincolo fiduciario. In conformità con l’orientamento giurisprudenziale affermato da questa Corte, il giudice di merito, ritenendo sussumibile le condotte nell’ambito delle previsioni punite con sanzioni conservative dal codice disciplinare dettato dal CCNL, ha correttamente applicato la sanzione reintegratoria dettata dall’art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970 (come novellato dalla legge n. 92 del 2012).
5. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ. 6. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013), ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.