Con la sentenza in commento, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato risponde al quesito precisando che si tratta di una mera irregolarità sanabile con la rinotifica dell'atto provvisto di firma digitale.
Con la sentenza n. 6 del 21 aprile 2022, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha affermato il seguente principio: «È configurabile mera irregolarità sanabile, con conseguente applicabilità del regime di cui all'art. 44, comma 2, c.p.a., nel caso di un ricorso notificato privo di firma digitale; in tal caso il ricorrente ben può, in applicazione dei principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale amministrativa (art. 1 c.p.a.) e di ragionevole durata del processo (art. 2, comma 2, c.p.a.), provvedere direttamente a rinotificare l'atto con firma digitale, ancor prima che il giudice ordini la rinnovazione della notifica; il termine per il deposito del ricorso, di cui al combinato disposto degli artt. 94, comma primo, e 45 c.p.a., andrà fatto decorrere dalla data dell'effettiva notifica dello specifico atto concretamente depositato».
Ripercorrendo il paradigma della consumazione del potere di impugnazione, il Consiglio di Stato ricorda la giurisprudenza amministrativa secondo cui «essa presuppone necessariamente l'intervenuta declaratoria di inammissibilità del primo gravame, essendo l'impugnazione riproponibile nel rispetto dei termini in mancanza di detta declaratoria».
Pertanto, affinchè un giudice possa dichiarare l'inammissibilità o l'improcedibilità del gravame, è necessario che quest'ultimo venga iscritto a ruolo, ossia depositato presso la Segreteria (o Cancelleria) del giudice medesimo.
A ciò deve aggiungersi un ulteriore requisito, costituito dalla proposizione di ulteriori gravami, non solo successivi ma anche diversi (quanto a petitum o a causa petendi) rispetto al primo.
L'Adunanza Plenaria esclude che il caso in esame possa essere riconducibile al predetto paradigma, in quanto alla prima notifica dell'atto non era seguito il deposito dello stesso presso la Segreteria del giudice e i diversi mezzi di impugnazione presentavano la stessa identità testuale.
In particolare, risultava che «la seconda notifica dell'atto, effettuata allorchè era ancora pendente il termine di legge per la proposizione dell'appello, era dipesa dall'intento delle amministrazioni appellanti di regolarizzare l'atto introduttivo del giudizio, atteso che la copia originariamente notificata a mezzo PEC, per evidente refuso, non era stata sottoscritta con firma digitale mediante l'utilizzo del formato PAdES, in violazione del combinato disposto degli artt. 136, comma 2.bis, c.p.a.».
Consiglio di Stato, Ad. Plenaria, sentenza (ud. 23 febbraio 2022) 21 aprile 2022, n. 6
Svolgimento del processo
Con ordinanza 25 ottobre 2021, n. 7138, la IV Sezione del Consiglio di Stato rimetteva a questa Adunanza plenaria la causa in esame, affinché la stessa risolvesse “la sola questione interpretativa relativa all’eccezione pregiudiziale di improcedibilità dell’appello principale” – in quanto tale, potenzialmente idonea a definire il giudizio – previa risposta ai seguenti quesiti:
“a) se nel processo amministrativo trovi applicazione e in che limiti il principio di consumazione dei mezzi di impugnazione;
b) più in particolare, se alla medesima parte processuale sia consentito rinnovare la notificazione al solo scopo di emendare vizi dell’atto che ne determinano la nullità o la tardività del suo deposito, oppure se il rinnovo in questione sia consentito anche a prescindere dall’emenda di un vizio e senza apparente ragione, purché sia ancora pendente il termine per impugnare e non sia stata emessa dal giudice una pronuncia di irricevibilità o di improcedibilità dell’impugnazione;
c) se alla parte sia consentito proporre nuovi motivi di impugnazione - al di là dei casi previsti di proposizione dei motivi aggiunti – purché sia ancora pendente il termine per impugnare e non sia stata emessa dal giudice una pronuncia di irricevibilità o di improcedibilità dell’impugnazione;
d) quale sia la corretta interpretazione del combinato disposto di cui agli artt. 94, comma 1 e 45, comma 1 c.p.a., e se cioè - quando si stabilisce che “il ricorso deve essere depositato nella segreteria del giudice adito, a pena di decadenza, entro trenta giorni dall’ultima notificazione ai sensi dell’articolo 45…” e che “Il ricorso e gli altri atti processuali soggetti a preventiva notificazione sono depositati nella segreteria del giudice nel termine perentorio di trenta giorni, decorrente dal momento in cui l’ultima notificazione dell’atto stesso si è perfezionata anche per il destinatario” – essi vadano interpretati nel senso che - purché sia ancora pendente il termine per impugnare e non sia stata emessa dal giudice una pronuncia di irricevibilità o di improcedibilità dell’impugnazione – il ricorso possa essere oggetto di nuova notificazione (ai fini di individuare ‘l’ultima notificazione dell’atto che si è perfezionata anche per il destinatario’) solo per emendare vizi dell’atto o della sua notificazione o del suo deposito, ovvero se, al contrario, sia possibile per la medesima parte prescindere dalla suddetta emenda”.
La controversia in esame traeva origine dal ricorso proposto al Tribunale amministrativo del Lazio dal sig. Iacoponi Sergio, con il quale veniva impugnata l’ordinanza emessa, ai sensi dell’art. 823 Cod. civ., dall’Agenzia del demanio “per il rilascio, in via amministrativa dell’immobile demaniale sito in via del Quirinale 28, scala C” di proprietà della medesima Agenzia.
L’impugnativa veniva inoltre estesa al decreto del Ministero dell'economia e delle finanze del 29 luglio 2005, con cui il suddetto bene era stato attribuito all'Agenzia del demanio, nella parte in cui (art. 2, comma 2, ultima parte) stabiliva che “Il trasferimento non modifica il regime giuridico previsto dall'art. 823 del codice civile relativamente ai beni demaniali trasferiti ai sensi del presente articolo”.
Il gravame era affidato a quattro motivi di doglianza, con i quali sostanzialmente si eccepiva l’insussistenza dei presupposti per l’autotutela esecutiva ex art. 823 Cod. civ., trattandosi di bene del patrimonio disponibile dello Stato per il quale avrebbe dovuto trovare invece applicazione il regime di diritto comune di cui all’art. 830 Cod. civ.; peraltro, precisava il ricorrente, non si sarebbe potuto comunque parlare di occupazione sine titulo dell’immobile, in quanto quest’ultimo sarebbe stato comunque oggetto di un rapporto di locazione con l’Agenzia, con corresponsione di un canone.
In ogni caso, deduceva il sig. Iacoponi, non sarebbero state esternate le ragioni fondanti la decisione – contestata in giudizio – dell’amministrazione.
Con sentenza 24 luglio 2020, n. 8693, il giudice adito accoglieva il ricorso, ritenendo la natura sostanzialmente privatistica del bene del quale era stato intimato il rilascio.
Avverso tale decisione il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia del demanio interponevano appello, deducendo la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2 del d.m. 29 luglio 2005 del Ministero dell’economia e delle finanze – Decreto di “Individuazione del patrimonio dell’Agenzia del demanio” – pubblicato in G.U. n. 7, Serie generale del 10 gennaio 2006, nonché degli articoli 822 e 823 Cod. civ.
Costituitosi in giudizio, il sig. Iacoponi proponeva a sua volta appello incidentale contro il capo della sentenza di primo grado che aveva dichiarato improcedibile il ricorso in ordine alla richiesta di annullamento del decreto del Ministero dell'economia e delle finanze del 29 luglio 2005, nella parte in cui manteneva il regime giuridico proprio dei beni demaniali e del patrimonio indisponibile sui beni trasferiti al patrimonio disponibile dell’Agenzia, in quanto per legittimamente perseguire un tale obiettivo si sarebbe dovuto procedere con una norma di rango primario, anziché con una mera fonte regolamentare.
Eccepiva inoltre – in via preliminare – l’improcedibilità dell’appello, essendo stato il ricorso depositato nella Segreteria del Consiglio di Stato solamente in data 29 gennaio 2021, ossia oltre il termine di decadenza di trenta giorni stabilito per il deposito delle impugnazioni dall’art. 94 Cod. proc. amm.: al riguardo, nessun rilevo poteva attribuirsi alla circostanza che il medesimo atto di appello, inizialmente notificato senza l’apposizione della firma digitale, fosse stato successivamente “regolarizzato” dalla parte appellante mediante una rituale sottoscrizione e quindi – in questa forma – (ri-)notificato all’appellato prima della scadenza del termine per proporre appello, in quanto il rinnovo della notifica, sia pure alla stessa parte, non avrebbe comunque consentito di eludere l’onere di rispetto del termine di trenta giorni per il deposito.
Per l’effetto, concludeva l’appellato/appellante incidentale, “sebbene sia valida la seconda notifica dell’atto d’appello del 18.01.2021 poiché anteriore al termine per il deposito del 22.01.2021 (ancorché il ricorso rinotificato sia identico al precedente e alla relata sia stata aggiunta la firma digitale), il termine per il deposito scadeva improrogabilmente il 22.01.2021, mentre è stato effettuato soltanto il 29.01.2021”.
Con ordinanza 25 ottobre 2021, n. 7138, la Sezione remittente deferiva a questa Adunanza plenaria la questione relativa alla corretta interpretazione delle disposizioni e dei principi che regolano le impugnazioni, tra cui quello della cd. consumazione del relativo potere.
In particolare, sul piano sistematico, la Sezione rilevava che:
a) il principio della consumazione del potere di impugnazione non è espressamente codificato nel sistema processuale civile – né in quello amministrativo – di talché il suo effettivo ambito di applicazione è rimesso all’esegesi dell’interprete, sulla base di quanto previsto dagli artt. 358 e 387 Cod. proc. civ.;
b) le disposizioni da ultimo richiamate prevedono, rispettivamente, che l’appello ed il ricorso per cassazione – laddove dichiarato inammissibile o improcedibile – non possa più essere riproposto, anche ove in ipotesi non sia decorso il termine di impugnazione fissato dalla legge;
c) nell’esegesi delle suddette disposizioni si sarebbero registrati orientamenti diversificati da parte della giurisprudenza, giungendosi purtuttavia all’individuazione di criteri e coordinate esegetiche di massima, tra cui in particolare:
c.1) il principio secondo cui, al fine della consumazione del potere di impugnazione, è necessario che la seconda impugnazione sia della stessa specie della prima (così Cass. 17 maggio 2013, n. 12113; 5 giugno 2007, n. 13062; 15 novembre 2002, n. 16162);
c.2) il principio in base al quale la seconda impugnazione può basarsi anche su motivi diversi dalla prima (in termini, Cass. 12 luglio 2006, n. 15873; 27 ottobre 2005, n. 20912; 11 maggio 2001, n. 6560);
c.3) il contrapposto principio secondo cui, invece, la riproponibilità della seconda impugnazione deve essere limitata ai soli casi in cui la medesima verta sugli stessi motivi della prima (Cass. 18 marzo 2005, n. 5953; 8 marzo 2000, n. 2607; 11 novembre 1994, n. 9409), con esclusione della possibilità di integrare o dedurre nuovi motivi (Cass. 11 novembre 2011, n. 23630; 31 maggio 2010, n. 13257; 24 giugno 2008, n. 17246; 2 febbraio 2007, n. 2309; 22 maggio 2007, n. 11870; 2 aprile 1997, n. 2872; 29 marzo 1995, n. 3738; 15 luglio 1993, n. 7841);
c.4) il principio secondo cui l’ammissibilità della seconda impugnazione è subordinata all’esistenza di un vizio formale o sostanziale della prima, idoneo a decretarne la irricevibilità ovvero la improcedibilità, che dunque può essere conseguentemente emendato (Cass. 7 novembre 2013, n. 25047; 17 ottobre 2013, n. 23585);
c.5) il principio secondo cui, malgrado la sentenza non sia stata oggetto di notificazione, la possibilità di riproporre l’impugnazione è ancorata in ogni caso al termine breve decorrente dalla notificazione della prima impugnazione, la quale è idonea a determinare la conoscenza legale del provvedimento medesimo.
Con specifico riguardo al processo amministrativo, la Sezione remittente rilevava poi che il principio della consumazione del potere di impugnazione sarebbe stato applicato sia nel vigore delle leggi del passato sulla giustizia amministrativa (Cons. Stato, n. 775/1986; n. 606/1991; n. 552/1993; n. 184/1995; n. 3818/2000; n. 7021/2005), sia nella vigenza dell’attuale Codice di rito (da ultimi, Cons. Stato, IV, 3 giugno 2021, n. 4266; C.G.A.R.S., 8 luglio 2021, n. 654).
Poste tali premesse, la Sezione evidenziava un contrasto di giurisprudenza nell’interpretazione e nell’applicazione del suddetto principio, limitatamente alla questione della necessità (o meno) che la “duplicazione” dei gravami (mediante rinnovazione o ripetizione della notifica) fosse motivata in senso assoluto dall’esigenza di riparare a vizi di nullità dell’atto che inevitabilmente avrebbero condotto alla declaratoria di irricevibilità o di improcedibilità, ovvero se, al contrario, il principio trovasse applicazione anche ai casi in cui la ripetizione della notificazione andasse a rimediare ad inerzie processuali della parte, ovvero ancora si fondasse su strategie difensive di quest’ultima, anche non palesate in atti.
In particolare, rilevava la Sezione remittente, la ratio – che giustificherebbe (pendente il termine per l’appello ed in assenza di una declaratoria giudiziale di irricevibilità o improcedibilità del gravame) la possibilità per la medesima parte di riproporre la stessa impugnazione – sarebbe quella di emendare un vizio, sostituendo un atto valido ad uno invalido.
In quest’ottica, la ri-notificazione andrebbe considerata, da un punto di vista classificatorio, alla stregua di un procedimento di rinnovazione – anziché di mera ripetizione – di un atto già esistente nel mondo giuridico, sebbene non validamente formato o improduttivo di effetti.
Con memoria 19 gennaio 2022, le amministrazioni appellanti replicavano alle deduzioni dell’appellato/appellante incidentale, contestandone la fondatezza; in particolare, per quanto più specificamente attiene alla questione rimessa all’esame dell’Adunanza plenaria, evidenziavano che la prima versione dell’atto di appello, notificata ma non sottoscritta digitalmente, non era stata poi depositata presso la Segreteria del Consiglio di Stato.
Per l’effetto, non essendo la sola notifica, ove non seguita dal tempestivo deposito del ricorso, idonea ad instaurare la litispendenza (ex multis Cons. Stato, IV, 21 dicembre 2001, n. 6333), nel caso di specie non si sarebbe costituito alcun rapporto processuale idoneo a “consumare”, in capo all’amministrazione, il potere di impugnazione della sentenza di primo grado.
All’udienza pubblica del 23 febbraio 2022, dopo la rituale discussione, la causa veniva trattenuta in decisione.
Motivi della decisione
Preliminarmente ad ogni considerazione sul merito – nel caso di specie – delle questioni devolute all’esame dell’Adunanza plenaria, vanno definiti gli esatti contorni della vicenda in questa sede controversa.
Viene in particolare deferita all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato “la questione relativa alla corretta interpretazione delle disposizioni e dei principi che regolano le impugnazioni, tra cui quello della cd. consumazione del relativo potere”, alla luce di “un contrasto di giurisprudenza nell’interpretazione e nell’applicazione del suddetto principio limitatamente, […] alla questione della necessità (o meno) che la ‘duplicazione’ dei gravami (mediante rinnovazione o ripetizione della notifica) sia motivata in senso assoluto dall’esigenza di riparare a vizi di nullità dell’atto che inevitabilmente conducono alla declaratoria di irricevibilità o di improcedibilità, ovvero se, al contrario, il principio trova applicazione anche ai casi in cui la ripetizione della notificazione rimedia ad inerzie processuali della parte ovvero si fonda su strategie difensive della parte medesima, anche non palesate in atti”.
All’uopo, è doveroso premettere cosa si intenda per “consumazione del potere di impugnazione”, stante l’esiguità delle fonti normative in materia.
Ai sensi dell’art. 358 Cod. proc. civ., in particolare, “L'appello dichiarato inammissibile o improcedibile non può essere riproposto, anche se non è decorso il termine fissato dalla legge”: detta consumazione, dunque, ai sensi del chiaro tenore della legge consegue solamente alla dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell'appello e presuppone che l'impugnazione sia stata rivolta contro un provvedimento idoneo a costituire giudicato in senso formale.
In termini più ampi, Cons. Stato, IV, 3 giugno 2021, n. 4266 rileva che ove l’atto invalido sia oggettivamente inidoneo a consumare il diritto di impugnazione – come nel caso di specie – è consentito alla parte di proporre una nuova impugnazione sostitutiva della precedente, seppur a due condizioni: la prima è che i termini per l’appello non siano già decorsi e la seconda è che non sia stata già emessa una sentenza dichiarativa dell'inammissibilità o dell’improcedibilità della prima impugnazione proposta.
Il principio in esame trova un presupposto logico nel divieto di frazionamento delle impugnazioni (ex multis, Cons. Stato, IV, n. 4266 del 2021, cit) ed è affermato da costante giurisprudenza di legittimità nell’ambito del processo civile: comporta, in estrema sintesi, che l’impugnazione di una parte, una volta ritualmente proposta, preclude alla stessa di formulare in un successivo momento degli altri profili di gravame o di riproporre le stesse censure, anche se il relativo termine non sia ancora scaduto, attraverso un nuovo atto di impugnazione.
Quest’ultimo, quindi, se proposto, andrà dichiarato inammissibile e della validità o invalidità dell’impugnazione si dovrà giudicare avuto riguardo esclusivamente al primo atto.
A tale regola si farebbe eccezione in un solo caso, ossia quando il primo atto di impugnazione notificato presenti dei vizi che lo rendano addirittura inammissibile o improcedibile: in questo caso l’atto sarebbe oggettivamente inidoneo a consumare il diritto di impugnazione, ragione per cui sarebbe possibile per la parte proporre una nuova impugnazione sostitutiva della precedente, a condizione ovviamente che i relativi termini non siano decorsi e non sia nel frattempo intervenuta una sentenza dichiarativa dell'inammissibilità o improcedibilità della prima impugnazione proposta.
In questi termini si pone la costante giurisprudenza di legittimità (ex multis, Cass. civ., III, 16 novembre 2005, n. 23220; III; 22 marzo 2005, n. 1197, secondo cui, anche nell’ottica di salvaguardia di fondamentali esigenze processuali legate all'attuazione dei principi di cui agli artt. 24 e 113 Cost., “deve ritenersi che fino a quando non sia intervenuta una declaratoria di improcedibilità o di inammissibilità del gravame, può sempre essere proposto un secondo atto di appello, sempre che la seconda impugnazione risulti tempestiva e si sia svolto regolare contraddittorio tra le parti”).
Quanto alla giurisprudenza amministrativa, già Cons. Stato, IV, 15 settembre 2009, n. 5523 rileva che “costituisce principio giurisprudenziale pacifico che ai sensi dell'art. 358 c.p.c. (disposizione applicabile anche al processo amministrativo) la consumazione del potere di impugnazione presuppone necessariamente l'intervenuta declaratoria di inammissibilità del primo gravame, essendo l'impugnazione riproponibile nel rispetto dei termini in mancanza di detta declaratoria; ne deriva che il mancato rispetto del termine di deposito del ricorso comporta la irritualità dell'appello, ma non ne impedisce la reiterazione nel rispetto del termine di legge nelle more della declaratoria di irritualità. […] Nel caso di specie, il secondo appello è stato pacificamente proposto e depositato nei termini di legge, e per altro verso il primo atto di impugnazione – ancorché notificato – non è mai stato depositato, sicché giammai avrebbe potuto esserne dichiarata l’inammissibilità: pertanto, si applicano “a fortiori” i principi appena richiamati”.
In effetti, condicio sine qua non affinché un giudice possa dichiarare l’inammissibilità o improcedibilità del gravame – o, più in generale, pronunciarsi su di esso – è che quest’ultimo venga iscritto a ruolo, ossia depositato presso la Segreteria (o Cancelleria) del giudice medesimo.
Deposito che, nel caso del processo amministrativo, ai sensi dell’art. 45 Cod. proc. amm. segue la notifica alle controparti e solo successivamente al quale può parlarsi di litispendenza (dovendo trovare conferma il principio – su cui Cons. Stato Ad. plen., 28 luglio 1980, n. 35 e valevole anche alla luce del sopravvenuto d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 – secondo cui la litispendenza nel processo amministrativo è l’effetto di una fattispecie complessa, i cui co-elementi possono ritenersi costituiti dalla notifica e dal deposito: la sola notifica quindi, non seguita dal tempestivo deposito del ricorso, è inidonea a provocare la litispendenza. In termini, anche Cons. Stato, IV, 21 dicembre 2001, n. 6333; IV, 7 gennaio 2013 n. 22; IV, 19 dicembre 2016, n. 5363).
Presupposto imprescindibile – in primis di carattere logico – perché possa in ipotesi configurarsi la fattispecie su cui si verte è dunque che un’impugnazione in senso tecnico sia stata effettivamente proposta, nei termini in precedenza evidenziati.
Soddisfatta tale ineludibile premessa, va poi detto che – per evidenti ragioni logiche e giuridiche – in tanto può parlarsi di “consumazione” del potere di impugnazione, in quanto alla proposizione del (primo) gravame la medesima parte processuale ne abbia fatti seguire degli altri, ossia uno o più ulteriori gravami non solo – ovviamente – successivi al primo, ma in tutto o in parte diversi da questo, quanto a petitum o a causa petendi.
Diversamente argomentando non potrebbe parlarsi di nuovi atti di appello – solo relativamente ai quali può posi il problema della persistenza o meno, in capo all’appellante, del potere di proporli in aggiunta al primo – ma solo, quanto ad effetti concreti, di rinnovazione degli incombenti processuali (notifica e deposito) relativi al medesimo atto, idonei non certo a modificare l’oggetto del giudizio – aspetto che il principio in esame mira in qualche modo a regolamentare – bensì, al più, a sanare eventuali vizi di carattere formale e/o processuale degli stessi.
Alla luce dei rilevi che precedono deve dunque escludersi che la vicenda sottoposta all’esame di questa Adunanza plenaria sia riconducibile al paradigma della consumazione del potere di impugnazione, difettandone entrambi i presupposti.
Da un lato, infatti, alla prima notifica dell’atto non era seguito il deposito dello stesso presso la Segreteria del giudice, ragion per cui, non essendo sorta alcuna litispendenza, non poteva ancora ritenersi esercitata – e quindi, in ipotesi, “consumata” – la facoltà di impugnazione.
Dall’altro, l’identità testuale – quanto al petitum ed alla causa petendi – degli atti notificati non consentiva di configurare una successione di diversi mezzi di gravame, essendosi semplicemente in presenza di una reiterata notifica del medesimo atto, irrilevante ai fini su cui si controverte.
Deve quindi concludersi che nel caso attualmente controverso il giudizio sulla correttezza o meno del comportamento processuale tenuto dalla parte appellante – e, quindi, sulla tempestività o meno della proposizione del relativo gravame – esula dal contesto della cd. consumazione del potere di impugnazione delle parti del processo.
Nella specie, risulta dagli atti che la seconda notifica dell’atto, effettuata allorché era ancora pendente il termine di legge per la proposizione dell’appello, era dipesa dall’intento delle amministrazioni appellanti di regolarizzare l’atto introduttivo del giudizio, atteso che la copia originariamente notificata a mezzo PEC, per evidente refuso, non era stata sottoscritta con firma digitale mediante l’utilizzo del formato PAdES, in violazione del combinato disposto degli artt. 136, comma 2-bis, Cod. proc. amm. (a tenore del quale “[…] tutti gli atti e i provvedimenti del giudice, dei suoi ausiliari, del personale degli uffici giudiziari e delle parti sono sottoscritti con firma digitale”) e 9 (Atti delle parti e degli ausiliari del giudice), comma primo, d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 (Regolamento recante le regole tecnico-operative per l’attuazione del processo amministrativo telematico, in base al quale gli atti processuali “sono redatti in formato di documento informatico sottoscritto con firma digitale conforme ai requisiti di cui all’articolo 24 del CAD”).
Al riguardo, va ribadito (in termini, Cons. Stato, V, ord. 24 novembre 2017, n. 5490; IV, 4 aprile 2017 n. 1541) che, ancorché non conforme alle predette disposizioni, purtuttavia la predisposizione ed il deposito del ricorso in formato non digitale non incorre in espressa comminatoria legale di nullità (ex art. 156, comma primo, Cod. proc. civ.), tanto più che lo stesso avrebbe comunque raggiunto il suo scopo tipico (ex art. 156, comma 3, Cod. proc. civ), essendone certa l’attribuibilità ad un soggetto determinato e la natura di strumento deputato alla chiamata in causa ed alla articolazione delle proprie difese: ne consegue la sola oggettiva esigenza della regolarizzazione, anche laddove sia avvenuta la costituzione in giudizio della parte cui l’atto era indirizzato (Cons. Stato, III, 11 settembre 2017, n. 4286; in termini anche Cons. Stato, V, ord. n. 5490 del 2017, cit.; IV, n. 1541 del 2017, cit.).
In ragione delle considerazioni che precedono, va pertanto condiviso l’orientamento che qualifica il vizio del ricorso depositato pur privo di firma digitale come un’ipotesi di mera irregolarità sanabile, con conseguente applicabilità del regime di cui all’art. 44, comma 2, Cod. proc. amm. (che prevede la fissazione, da parte del giudice, di un termine perentorio entro il quale la parte deve provvedere alla regolarizzazione dell’atto, nelle forme di legge).
Nel caso in esame, dunque, una volta preso atto della irregolarità dell’atto (laddove, ovviamente, si fosse provveduto al suo deposito, il che qui non è avvenuto), la sua regolarizzazione avrebbe dovuto essere ordinata dal giudice ed eseguita dalla parte nel termine ad essa assegnato; nondimeno – va detto – l’autonoma regolarizzazione dell’atto da parte dell’appellante (evitando il deposito del primo atto notificato e procedendo direttamente ad una nuova notifica, con successivo deposito di quest’ultima) rende inutile – superandola – la ripetizione di ciò che è stato già spontaneamente eseguito, in pacifica applicazione dei principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale amministrativa (art. 1 Cod. proc. amm.) e di ragionevole durata del processo (art. 2, comma 2 Cod. proc. amm.).
Non ha del resto fondamento la tesi dell’appellato secondo cui, nel caso di plurime notifiche dell’atto volte ad emendare vizi dello stesso, della sua notificazione o del suo deposito, il dies a quo per il deposito dell’atto di appello decorrerebbe comunque dalla prima notifica, dovendosi intendere la formula degli artt. 94, comma primo e 45 Cod. proc. amm. (a mente dei quali, rispettivamente, “il ricorso deve essere depositato nella segreteria del giudice adito, a pena di decadenza, entro trenta giorni dall’ultima notificazione ai sensi dell’articolo 45 […]” e “Il ricorso e gli altri atti processuali soggetti a preventiva notificazione sono depositati nella segreteria del giudice nel termine perentorio di trenta giorni, decorrente dal momento in cui l’ultima notificazione dell’atto stesso si è perfezionata anche per il destinatario”) come idonea a legittimare ulteriori notificazioni del medesimo atto, purché ovviamente sia ancora pendente il termine per impugnare. In tal caso, in ordine alla “ultima notificazione dell’atto che si è perfezionata anche per il destinatario” il termine per il deposito andrà fatto decorrere dalla data dell’effettiva notifica dello specifico atto concretamente depositato.
Riepilogando, l’Adunanza, in risposta ai quesiti sottoposti dalla Sezione rimettente, formula i seguenti principi di diritto:
1) vi è mera irregolarità sanabile, con conseguente applicabilità del regime di cui all’art. 44, comma 2, Cod. proc. amm., nel caso di un ricorso notificato privo di firma digitale;
2) in tal caso il ricorrente ben può, in applicazione dei principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale amministrativa (art. 1 Cod. proc. amm.) e di ragionevole durata del processo (art. 2, comma 2 Cod. proc. amm.), provvedere direttamente a rinotificare l’atto con firma digitale, ancor prima che il giudice ordini la rinnovazione della notifica;
3) in ordine infine al termine per il deposito del ricorso, di cui al combinato disposto degli artt. 94, comma primo e 45 Cod. proc. amm., lo stesso andrà fatto decorrere dalla data dell’effettiva notifica dello specifico atto concretamente depositato.
Ritenuta pertanto, alla luce dei rilievi che precedono, l’ammissibilità dell’appello proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze e dall’Agenzia del demanio, la controversia va rimessa alla Sezione remittente, affinché definisca nel merito la lite e statuisca sulle spese.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, dichiara ammissibile l’appello proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze e dall’Agenzia del demanio e restituisce – per la sua definizione nel merito – il giudizio alla Sezione, cui va rimessa anche la statuizione sulle spese.