La costituzione mortis causa dell'usufrutto su quote di società di persone postula la continuazione della società con gli eredi, la quale postula a sua volta l'accordo tra soci superstiti e eredi del socio defunto.
Il Tribunale di Trento aveva dichiarato la falsità del testamento successivo redatto dal de cuius, riconoscendo la qualità di erede dell'odierno ricorrente per via del testamento anteriore ma rigettando la domanda di quest'ultimo tesa alla consegna del 50% del capitale della società della quale il de cuius era titolare al momento del decesso.
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Svolgimento del processo
La presente vertenza riguarda la successione di C.S., deceduta il 29 novembre 1997, avendo disposto dei propri beni con testamento olografo del 9 luglio 1976, nominando proprio erede S.M. e lasciando l'usufrutto alla sorella G.S.. Fu poi pubblicato un testamento successivo dell'ottobre 2007, contenente la nomina della sorella G.S. quale unica erede. È poi deceduta il 9 dicembre 2011 anche G.S.; suo unico erede testamentario è C.C.. C.S., al momento della morte, era titolare della quota del 50% di una società di persone (C.S. S.n.c., poi divenuta G.S. & C. s.a.s. e, infine, Hotel P. Sr.l.); l'altra quota apparteneva a G.S., designata quale unica erede con il testamento successivo di C.S.. Essendo venuta meno la pluralità dei soci, G.S. ha trasformato l'originaria società in nome collettivo in società in accomandita semplice, intestando 1'1% del capitale a C. C. e assumendo la veste del socio accomandatario. La stessa G.S., poi, con il medesimo testamento che nominava erede C.C., ha legato a M.C. il 45% della società in nome collettivo. Per quanto interessa in questa sede, il Tribunale di Trento, dinanzi al quale S.M. aveva chiamato in giudizio C.C. e C.M., ha riconosciuto, accogliendo la domanda di S.M., la falsità del testamento successivo di C.S. e, quindi, la qualità di erede dello stesso S.M. in forza del testamento anteriore. Tuttavia, ha rigettato la domanda con la quale l'erede aveva chiesto la consegna del 50% del capitale della società di cui C.S. era titolare al momento della morte. La Corte d'appello di Trento ha confermato la decisione. Essa ha riconosciuto che la posizione dell'erede S.M. fosse da valutare secondo la previsione dell'art. 2284 c.c. Egli, in forza del testamento, non aveva acquistato la qualità di socio, ma i diritti riconosciuti all'erede del socio defunto da questa norma. Dal momento che l'altra socia aveva manifestato una volontà contraria rispetto alla prosecuzione della società con l'avv. S., il medesimo non aveva altro diritto se non quello di agire nei confronti della società per la liquidazione della quota appartenuta alla defunta, mentre ciò non era avvenuto. Per la cassazione della sentenza S.M. ha proposto ricorso, affidato a un unico motivo. C.C. e C. M. hanno resistito con controricorso. Essi hanno poi depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con l'unico motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la Corte d'appello di Trento non si è resa conto che, al momento della morte di C.S., la sorella di lei G.S. non liquidò la quota della C.S. S.n.c., di cui era titolare la de cuius, ma se ne appropriò sulla base del testamento falso. Secondo il ricorrente, tolta di mezzo l'apparenza creata dal testamento falso, vale la situazione reale, che ha visto la continuazione della società da parte dell'altra socia, che, in forza del testamento vero, si è ritrovata a possedere l'intero capitale sociale, metà in proprietà, metà in usufrutto. Deceduta l'usufruttuaria, la partecipazione è tornata nella piena titolarità dell'erede. Il senso della censura è che la scelta compiuta dalla G.S. fu nel senso della prosecuzione della società. La scelta compiuta all'epoca avrebbe l'efficacia del fatto compiuto, la cui definitività non sarebbe inficiata dal fatto che la prosecuzione trovava la sua giustificazione nel testamento poi rilevatosi falso. In conseguenza dell'avvenuta prosecuzione, le norme riguardanti gli effetti della morte del socio nelle società personali, cui la Corte d'appello si è riferita nella decisione, erano state messe definitivamente fuori gioco. Nella specie non restava che prendere atto, da un lato, della prosecuzione della società, dall'altro, dell'estinzione dell'usufrutto. Da ciò conseguiva la fondatezza della domanda dell'erede, di essere riconosciuto titolare della quota sociale e non del diritto alla liquidazione della quota stessa.
2. Il ricorso è infondato. Nelle società di persona, in caso di morte del socio, l'art. 2284 c.c. prevede che l'erede non entri, salvo diverso accordo, nella compagine sociale, ma abbia soltanto diritto alla liquidazione della quota (Cass. n. 30542/2011), secondo i criteri fissati dall'art. 2289 c.c., vale a dire un diritto di credito ad una somma di denaro equivalente al valore della quota del socio defunto in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificato lo scioglimento (Cass. n. 10802/2009). Costituisce principio pacifico nella giurisprudenza della Corte che la domanda di liquidazione della quota di una società di persone (o di fatto) da parte del socio receduto o escluso, ovvero degli eredi del socio defunto, fa valere un'obbligazione non degli altri soci, ma della società medesima quale unico soggetto passivamente legittimato (Cass. n. 291/2000; n. 12125/2006; n. 5248/2012n. 16556/2020). Il ricorrente non contesta tali principi, di cui la Corte d'appello ha fatto applicazione, ma deduce che essi non sono pertinenti al caso in esame, essendosi verificata l'ipotesi "del diverso accordo" fra socio superstite ed erede del socio defunto, divenuto quindi socio, ma l'assunto non si può condividere.
3. Nella specie il testamento di C.S. lasciava l'usufrutto generale dei propri beni alla sorella G.. La testatrice, al tempo della morte, era titolare di una quota di società di persone. La dottrina è orientata da diverso tempo per la ammissibilità della costituzione di usufrutto su quote di società di persone, compresa anche quella dell'accomandatario. Secondo l'orientamento più recente la quota di società di persone può formare oggetto di diritti ai sensi dell'art. 810 c.c., e rientrerebbe nella categoria residuale dei beni mobili immateriali di cui all'art. 812, terzo comma, c.c. (Cass. n. 934/1997). La giurisprudenza di merito riconosce che, così come la quota sociale è alienabile, allo stesso modo essa può formare oggetto di atti di disposizione "minori", quali la costituzione di diritti reali minori, in quanto la partecipazione in società di persone è considerata res mobile. Dal canto suo la Suprema Corte ha ribadito che «le quote sociali, sia delle società di capitali che delle società di persone, costituiscono posizioni contrattuali obiettivate, suscettibili, come tali, di essere negoziate in quanto dotate di un autonomo valore di scambio che consente di qualificarle come beni giuridici>> (Cass. n. 15605/2002). Ora, senza che sia minimamente necessario prendere posizione su tale questione, per i nostri fini è sufficiente rilevare che, in ipotesi si riconosca la possibilità della costituzione di usufrutto su una quota di una società non personificata, la qualità di socio permarrebbe comunque in capo al nudo proprietario. La costituzione mortis causa dell'usufrutto incontra allora gli ostacoli derivati dall'art. 2284 c.c., che attribuisce agli eredi del socio defunto il diritto alla liquidazione della quota, a meno che i soci superstiti non preferiscano sciogliere la società o continuarla con gli eredi stessi, qualora vi acconsentano. Quindi la costituzione dell'usufrutto, nella sua configurazione di diritto reale minore sulla quota della società personale, si avrà solo nel caso di continuazione della società con gli eredi; diversamente, in caso di liquidazione della quota, il diritto si realizza sulle somme ricavate dalla liquidazione della partecipazione del socio defunto. In sintesi, la costituzione dell'usufrutto sulla quota della società di persone postula la continuazione della società; questa postula a sua volta l'accordo fra socio superstite e l'erede del socio defunto (non con l'usufruttuario), secondo quando sopra detto.
4. La Corte d'appello ha affermato che l'accordo per la prosecuzione non era intervenuto. Qui si inserisce la censura. Male avrebbe fatto la Corte d'appello a ragionare in questi termini, essendo un fatto oggettivo che la quota non fu liquidata, ma se ne appropriò, m forza del testamento falso, G.S., socia superstite. Secondo il ricorrente la condotta di G. Sirk dovrebbe essere valutata non in forza del testamento apparente, ma in forza del testamento vero, in quanto destinato a regolare fin dall'inizio la successione di C.S.. Ma è facile obiettare che G.S. proseguì la società, nella veste di socia superstite e unica erede della socia defunta, previa ricostituzione della pluralità dei soci. Il fatto che il titolo che regolava la successione non la vedesse nella posizione dell'erede del socio defunto, ma quale usufruttuaria generale, non consente di ipotizzare, ora per allora, un accordo con il nudo proprietario, erede vero del socio defunto, per la prosecuzione della società. Non si tratta di negare che l'accertamento della falsità del testamento successivo ne ha comportato la definitiva eliminazione dal mondo giuridico, come se non fosse mai esistito e mai avesse regolato la successione della socia defunta. Si tratta di prendere atto che, in base alla situazione apparente, un accordo del genere non era configurabile, ne lo diventa, ex· post, m conseguenza dell'accertamento giudiziale della situazione vera. Non è consentito, in altre parole, valutare il comportamento della socia superstite, manifestatosi in base al testamento falso, come se fosse stato tenuto nella diversa situazione che derivava dal testamento vero. Ciò vuol dire che, in assenza di un accordo fra socio superstite ed erede del socio defunto, G.S. non conseguì il godimento della quota in forza dell'usufrutto, lasciatole dalla sorella per testamento, venendo quindi a mancare l'essenziale presupposto della domanda dello S., costituito dall'estinzione di un usufrutto che non si è mai costituito, perché la quota non fu acquistata dall'erede, nudo proprietario. In definitiva, come sostengono i controricorrenti, la presente fattispecie pone essenzialmente una questione di fatto, non di diritto. Si tratta di stabilire se G.S., quale socia superstite della società in nome collettivo, abbia mai espresso l'assenso a che lo S. entrasse a far parte della compagine sociale. Secondo la Corte d'appello la condotta posta in essere da G.S., di ritenersi, sia pure in forza di testamento falso, piena proprietaria della quota già appartenuta alla sorella, esprime una volontà di esclusione. In verità, il ricorrente si duole anche di tale giudizio, ma, sotto questo profilo, le relative deduzioni, censurate in verità genericamente sotto il profilo della motivazione, si risolvono nella richiesta di una valutazione dei fatti diversa da quella fatta propria dai giudici di merito, il cui apprezzamento, in quanto immune da vizi logici e giuridici, è incensurabile in questa sede.
5. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, con addebito di spese. Ci sono le condizioni per dare atto ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater d.P.R. n. 115/02, della "sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto".
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 7.800.00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in€ 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi dell'art. 13 comma 1-qttater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.