Il continuo videocontrollo attuato con telecamera a bassa risoluzione, installata nella cella con inquadratura verso l'area di ingresso del bagno, non costituisce di per sé un trattamento penitenziario inumano e degradante contrario alla Convenzione.
Svolgimento del processo
1. Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Sorveglianza di L'Aquila rigettava il reclamo proposto da B.C. avverso l'ordinanza del Magistrato di Sorveglianza di L'Aquila in materia di rimedi risarcitori ex art. 35 ter ord. pen. Il rimedio risarcitorio era stato chiesto con riferimento alla presenza sul muro della sezione detentiva, in corrispondenza del bagno della cella del detenuto, di un oblò - spioncino, che consente all'agente di guardare all'interno del bagno, all'assenza nella cella del pulsante di spegnimento della luce nonché alle limitazioni subite dal detenuto in forza del regime di cui all'art. 41 bis ord. pen. Secondo il Tribunale di Sorveglianza, lo spioncino, presente in tutti gli istituti penitenziari, assolve a scopi e ad esigenze di sicurezza, essendo diretto ad accertare la presenza del detenuto nel servizio igienico; lo spioncino non permette una osservazione continua e sistematica del detenuto e il suo impiego è occasionale, solo nelle occasioni di emergenza; l'altezza a cui è posto, da una parte costringe l'agente penitenziario a chinarsi, dall'altra impedisce di osservare il detenuto mentre fruisce del WC. Non si è di fronte, quindi, a trattamento inumano e degradante, non ricorrendo una lesione della dignità e della sicurezza del detenuto. Il Tribunale riteneva, ancora, che la mancanza di un interruttore della luce interno alla cella, con conseguente necessità per il detenuto di chiedere alla Polizia penitenziaria di accenderla o spegnerla, non costituisce una situazione inumana o umiliante e risponde ad esigenze di sicurezza e di controllo. Con riferimento, invece, alla limitata possibilità di permanenza negli spazi all'aria aperta, la stessa è prevista dall'art. 41 bis ord. pen.; né era stata prodotta prova che tale limitazione o il divieto di cucinare cibi all'interno della cella avesse pregiudicato la salute del detenuto.
2. Ricorre per cassazione il difensore di B.C., deducendo motivazione apparente e violazione di legge. Il Tribunale aveva omesso di fornire una precisa e puntuale motivazione sulle doglianze avanzate nel reclamo. In particolare, la motivazione dell'ordinanza relativamente alla presenza dell'oblò - spioncino è illogica, atteso che lo stesso lede gravemente la privacy del detenuto e non è giustificabile sulla base di generici motivi di sicurezza. Si tratta di un controllo che non rientra nell'elenco tassativo previsto dall'art. 41 bis ord. pen. Analogamente, la mancanza di interruttore per lo spegnimento della luce viola l'art. 3 CEDU, sottoponendo il detenuto all'umiliazione di dover richiamare l'attenzione dell'agente in piena notte, arrecando disturbo al riposo degli altri detenuti. Infine, la limitazione delle ore d'aria e il divieto di cuocere cibi all'interno della cella sono state dichiarate illegittime: le stesse, pertanto, avevano vessato inutilmente i detenuti sottoposti al regime di cui all'art. 41 bis ord. pen.
3. Il Sostituto Procuratore generale, O.M., nella requisitoria scritta, conclude per il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile.
1. Si deve sottolineare che, avverso la decisione del tribunale di sorveglianza che provvede sul reclamo proposto contro l'ordinanza del magistrato di sorveglianza emessa ex art. 35 bis ord. pen., il ricorso per cassazione è ammesso solo per violazione di legge. Con riferimento ai rimedi risarcitori previsti dall'art. 35 ter ord. pen., la "legge" di riferimento è costituita, in forza del richiamo posto dal primo comma dell'art. 35 ter cit., dall'art. 3 CEDU "come interpretato dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo". Come chiarito, infatti, dalle Sezioni Unite, Commisso (Sez. U, n. 6551 del 24/09/2020, dep. 2021, Rv. 280433), «il giudice nazionale è chiamato ad applicare i rimedi risarcitori a favore del detenuto nei casi in cui la Corte EDU, qualora adita direttamente dal detenuto, potrebbe condannare lo Stato italiano per la violazione dell'art. 3 della Convenzione. Per giungere a questo risultato, il legislatore ha adottato uno strumento innovativo, valorizzando l'interpretazione della Corte EDU come elemento integrativo della norma di legge; (...) In effetti, in base all'art. 35-ter ord. pen., l'interpretazione dell'art. 3 CEDU da parte della Corte diventa parte della norma che il giudice nazionale deve applicare». Le Sezioni Unite hanno, altresì, chiarito, che «è solo un "diritto consolidato", generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo. La nozione di giurisprudenza consolidata trova riconoscimento nell'art. 28 CEDU, che attribuisce maggiore persuasività alle pronunce che seguono un principio costantemente applicato dalla Corte, nonché alle sentenze della Grande Camera che pronuncia su questione di principio (S. U, n. 8544 del 24/10/2019, dep. 2020, G., Rv. 278054). La Corte costituzionale indica anche i criteri per riconoscere la natura non consolidata di un orientamento espresso in una sentenza della Corte EDU: «la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l'avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell'ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano». Infine, si è precisato che «il sistema (...) impedisce al giudice nazionale di adottare un'interpretazione dell'art. 3 della CEDU differente da quella consolidata fornita dalla Corte EDU su uno specifico aspetto, perché ciò violerebbe sia il principio dell'obbligo per il giudice comune di uniformarsi alla giurisprudenza europea consolidata sulla norma conferente, sia lo stesso art. 35-ter ord. pen. che, appunto, ha reso la predetta giurisprudenza consolidata la fonte normativa mediante il rinvio per relationem più volte ricordato».
2. Ciò premesso, si deve innanzitutto rilevare che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, l'ordinanza impugnata ha fornito adeguata motivazione in ordine all'insussistenza delle violazioni denunciate, cosicché le censure mosse dal ricorrente, oltre a riproporre quelle su cui il Tribunale di Sorveglianza aveva provveduto, attaccano la "logicità" della motivazione e, quindi, sono inammissibili in questa sede ("La motivazione addotta dal Tribunale relativamente alla presenza dell'oblò/spioncino privo di sportellino posto nel locale bagno è illogica"). Del resto, nel prosieguo della trattazione, il ricorrente sollecita direttamente la Corte di legittimità a valutare gli effetti della presenza dello spioncino, dell'assenza dell'interruttore nella cella o della limitazione nelle ore d'aria: in sostanza, viene sollecitato un giudizio di merito, di fatto che si sovrapponga a quello del Tribunale di Sorveglianza.
3. Soprattutto, non risulta alcuna giurisprudenza consolidata della Corte EDU relativa alla violazione dell'art. 3 CEDU relativamente a questi aspetti né il ricorrente richiama pronunce della Corte, la cui giurisprudenza consolidata - si deve ribadire - è l'unica norma di riferimento per il riconoscimento dei rimedi risarcitori ex art. 35 ter ord. pen. In effetti, come si evince dal combinato disposto degli artt. 69, comma 6 lett. b) e 35 ter ord. pen., non è sufficiente l'inosservanza da parte dell'Amministrazione penitenziaria delle norme dell'ordinamento penitenziario e del regolamento per accedere al rimedio risarcitorio: occorre che il "grave pregiudizio all'esercizio dei diritti" del detenuto consista, per un periodo non inferiore a quindici giorni, in condizioni tali da violare l'art. 3 CEDU, come interpretato dalla Corte EDU. In ogni caso, come segnala il Procuratore generale, le precedenti pronunce di questa Corte escludono la violazione dell'art. 3 CEDU per circostanze come quelle denunciate dal ricorrente: si è affermato che la continua videosorveglianza del detenuto attuata con telecamera a bassa risoluzione, idonea a riprodurre solo immagini non a fuoco, installata nella cella con inquadratura verso l'area di ingresso del locale bagno, non costituisce di per sé un trattamento penitenziario inumano e degradante contrario alla disposizione di cui all'art. 3 della CEDU (Sez. 1, n. 44972 del 16/04/2018, M., Rv. 273983), ricordando anche una sentenza della Corte EDU (P. c. Italia, 1/9/2015). Più in generale, si è sottolineato che non costituisce trattamento inumano o degradante, rilevante ai sensi dell'art. 3 della CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, la situazione di" mero disagio" collegata a contesti di vita intramuraria poco confortevoli o alla necessità di subire, per periodi non prolungati, disagi non previsti, né prevedibili (Sez. 1, n. 14258 del 23/01/2020, I., Rv. 278898).
4. Anche con riferimento alle limitazioni derivanti dal regime di cui all'art. 41 bis ord. pen., non è sufficiente il richiamo alla sentenza della Corte Costituzionale che ha cancellato il divieto di cucinare i cibi in cella (Corte Cost., n. 186 del 2018) per ritenere sussistenti i presupposti per il rimedio risarcitorio, a fronte della considerazione secondo cui l'Amministrazione penitenziaria aveva sempre garantito il vitto ai detenuti: manca, comunque, qualsiasi richiamo ad una giurisprudenza consolidata della Corte EDU che stigmatizzi il divieto come trattamento inumano e degradante.
5. Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende, emergendo profili di colpa nella presentazione del ricorso.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.