L'accettazione, tuttavia, non richiede l'osservanza di specifiche formalità bensì può desumersi anche da atti positivi incompatibili con la volontà di rifiutare l'incarico.
Svolgimento del processo
Viene proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d'appello di Palermo del 25 settembre 2018, che, in parziale riforma della decisione emessa dal Tribunale della stessa città, ha condannato anche M.P. (in solido con R.R. e M.F., già ritenuti responsabili dal tribunale) al pagamento della somma di € 128.006,00, oltre interessi dalla sentenza, quale risarcimento del danno in esito all'azione di responsabilità ai sensi dell'art. 146 l.f., esercitata dal Fallimento B. soc. coop. a r.l., in relazione a fatti di mala gestio. Ha ritenuto la corte territoriale, per quanto ancora rileva, che: a) infondata è l'eccezione di prescrizione dell'azione, posto che il curatore ha agito ai sensi dell'art. 146 l.f., cumulando tale azione i caratteri degli artt. 2393 e 2394 c.c., onde, per quest'ultima, la prescrizione decorre dalla conoscibilità dello squilibrio patrimoniale della società, in via presuntiva collocabile alla data del fallimento, salva la prova contraria di un momento anteriore, nella specie non offerta; b) la P. fu nominata amministratore per un triennio nel 1992 e poi rinnovata nella carica nel 1995, con successivo regime di prorogatio, né ha pregio la sua pretesa di essere rimasta all'oscuro della riconferma nella carica, dal momento che: quale amministratore della società, conosceva la scadenza del mandato, non poteva ignorare il regime della prorogatio, la convocazione dell'assemblea al fine della nomina degli organi sociali è dovere specifico degli amministratori uscenti, non ha semmai esercitato i suoi poteri di socia ed amministratrice per ogni opportuna verifica, né ha reagito al preteso falso nel verbale dell'assemblea sociale del 5 settembre 1995, in cui essa risulta essere stata presente ed avere accettato la nomina, limitandosi a negare tali circostanze solo in giudizio e senza sollecitare, al riguardo, nessuna indagine istruttoria; in definitiva, non è provata la divergenza tra il contenuto del verbale assembleare e l'effettiva composizione del e.d.a. riconfermato nel 1995; inoltre, la mancata partecipazione in concreto alla conduzione societaria, lungi dal costituire un'esimente, si qualifica piuttosto come colpevole disinteresse alla medesima; c) la relazione di consulenza tecnica, espletata in primo grado, ha accertato i fatti di mala gestio, quali la irregolare tenuta delle scritture contabili e dei libri sociali, il compimento di operazioni addirittura dopo la sentenza di fallimento, l'effettuazione di spese in assenza di documenti giustificativi atti a dimostrarne l'inerenza con l'attività sociale; in particolare, risultano pagamenti ingiustificati per L. 121.498.700 ed ammanchi per complessive L. 17.881.160 dopo il fallimento (per un totale di L. 139.379.860), pari ad € 71.983,69, costituente il danno, dunque debito di valore. Resiste con controricorso la procedura.
Motivi della decisione
1. - La parte ricorrente propone avverso la sentenza impugnata sei motivi di ricorso, che possono essere come di seguito riassunti: 1) violazione e falsa applicazione degli artt. 2383 e 2385 c.c., perché la carica gestoria si ricopre solo a seguito dell'accettazione dell'amministratore, nella specie mancata; 2) omesso esame di fatto decisivo, consistente nel mancato svolgimento di attività gestoria della P. dopo il 1995, nonostante che il verbale dell'assemblea ordinaria del 5 settembre di quell'anno recasse la sua presenza e la sua accettazione, senza però che la stessa avesse mai firmato il verbale, con conseguente mancanza del requisito di forma atto a confermarne l'effettiva presenza alla riunione; mentre ulteriore fatto omesso è la sottoscrizione del verbale consiliare del 12 luglio 1996, tuttavia accertata come apocrifa dalla consulenza grafica; infine, la corte territoriale ha omesso anche di valutare che l'istante aveva chiesto l'interrogatorio formale di R.R., ma esso non è stato ammesso, sebbene finalizzato proprio a dare la prova della falsità del verbale assembleare del 5 settembre 1995; 3) violazione e falsa applicazione degli artt. 2392, 2394, 2935 e 2949 c.c., avendo la corte territoriale respinto l'eccezione di prescrizione, mentre l'accoglimento dei due primi motivi condurrà al suo accoglimento, essendo la ricorrente cessata dalla carica sin dal 1995; 4) violazione e falsa applicazione degli artt. 1226 e 2392 c.c., avendo la sentenza impugnata ritenuto irrilevante, ed anzi ragione di responsabilità, l'omessa conduzione della gestione societaria post 1995, laddove, accogliendo i primi tre motivi, anche quell'argomento cadrebbe; 5) nullità della sentenza per motivazione omessa, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e violazione degli artt. 1223, 2056, 2697 c.c. e 113, 115 e 116 c.p.c., avendo la corte del merito ritenuto apoditticamente di liquidare il danno nella misura di€ 71.983,69, in assoluta assenza di motivazione e conteggi; 6) violazione e falsa applicazione dell'art. 92 c.p.c., dal momento che l'accoglimento del ricorso comporterà la soccombenza del fallimento.
2. - Il primo motivo è inammissibile.
2.1. - Non vi è dubbio che il rapporto di amministrazione, di natura contrattuale, si instauri mediante l'incontro dei consensi, avendo l'accettazione la funzione di perfezionare il relativo accordo. Invero, come questa Corte ha da tempo chiarito (Cass. 22 maggio 2001, n. 6928), l'accettazione della nomina ad amministratore di una società è necessaria, avendo i poteri degli amministratori fonte contrattuale. L'accettazione della nomina non è oggetto di una specifica disciplina nell'art. 2364 c.c., né nell'art. 2383 c.c., laddove si occupano della nomina e della revoca degli amministratori; lo stesso è a dirsi con riguardo agli artt. 2475 e 2479 c.c., in tema di società a responsabilità limitata. L'accettazione è invece menzionata, per il sistema monistico, dall'art. 2409-septiesdecies c.c., statuendo che, al «momento della nomina dei componenti del consiglio di amministrazione e prima dell'accettazione dell'incarico, sono resi noti all'assemblea gli incarichi di amministrazione e di controllo da essi ricoperti presso altre società». Il comma è stato aggiunto dall'art. 2, comma 2, lett. c), I. 28 dicembre 2005, n. 262, mirante a circoscrivere il numero degli incarichi in capo al medesimo soggetto, per evitarne un cumulo eccessivo, disfunzionale rispetto alle delicate questioni, anche di controllo, ivi assunte. In tema di società in accomandita per azioni all'art. 2457 c.c., laddove, occupandosi della sostituzione degli amministratori da parte dell'assemblea, secondo le maggioranze ex lege previste, stabilisce che il «nuovo amministratore assume la qualità di socio accomandatario dal momento dell'accettazione della nomina». Dell'accettazione discorre anche l'art. 2385 c.c., in tema di cessazione degli amministratori, ed in particolare in ipotesi di rinuncia da parte della maggioranza del consiglio di amministrazione, al fine di stabilire che, in tal caso la rinuncia avrà effetto solo «dal momento in cui la maggioranza del consiglio si è ricostituita in seguito all'accettazione dei nuovi amministratori». In tema di sindaci, l'art. 2400 c.c. si occupa dell'accettazione stabilendo che, al «momento della nomina dei sindaci e prima dell'accettazione dell'incarico, sono resi noti all'assemblea gli incarichi di amministrazione e di controllo da essi ricoperti presso altre società», disposizione introdotta dall'art. 2, comma 2, lett. a), I. 28 dicembre 2005, n. 262, allo scopo di limitare la c.d. incetta degli incarichi, del tutto analoga a quella prevista per i membri del consiglio di amministrazione nel sistema monistico, sopra ricordata. Anche l'art. 34 d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, sull'arbitrato nei procedimenti in materia di diritto societario, nel disciplinare le clausole compromissorie statutarie stabilisce, fra l'altro, al comma 4, che gli atti costitutivi «possono prevedere che la clausola abbia ad oggetto controversie promosse da amministratori, liquidatori e sindaci ovvero nei loro confronti e, in tale caso, essa, a seguito dell'accettazione dell'incarico, è vincolante per costoro». Senza qui approfondire la questione, affatto estranea al thema decidendum, dell'effetto, in tal modo, sancito di una clausola statutaria per chi non sia stato parte del contratto sociale, in forza dell'essere parte del diverso rapporto di amministrazione, resta l'ulteriore menzione, nel diritto positivo, dell'atto di «accettazione» ad opera dei componenti degli organi di gestione e di controllo. Sia le esplicite disposizioni di diritto positivo, sia la struttura del contratto di amministrazione inducono, dunque, a concludere nel senso che l'accettazione dell'amministratore sia necessaria e perfezioni l'accordo: atteso che, come questa Corte ha già affermato nella citata decisione, «la fonte dei poteri degli amministratori ha natura contrattuale, non potendosi ipotizzare che dalla sola nomina possano discendere doveri per un terzo» (Cass. 22 maggio 2001, n. 6928, cit.). Nel contempo, si è ivi anche sottolineato che l'accettazione, ed in genere il contratto di amministrazione societario, non richiede l'osservanza di specifiche formalità. Da ciò consegue che l'accettazione può desumersi anche da atti positivi incompatibili con la volontà di rifiutare la nomina: l'accettazione della nomina può essere anche tacita, né dipende in sé dall'adempimento degli oneri pubblicitari, previsti dall'art. 2383, comma 4, c.c. Se, dunque, essa non richiede l'osservanza di specifiche formalità, l'accettazione può essere desunta da atti positivi incompatibili con la volontà di rifiutare la nomina. Il relativo accertamento, concernendo una questione di fatto, non è censurabile in sede di legittimità, se non nei ristretti limiti permessi in tale sede dalla tassatività dei vizi, contemplati nell'art. 360 c.p.c.
2.2. - Nella specie, la corte del merito ha accertato, sulla base di numerosi elementi in atti, che la ricorrente ricoprì la carica anche per il secondo triennio e, poi, fu in prorogatio sino al fallimento. Si tratta di un giudizio di fatto, cui il giudice del merito è giunto dopo una complessa attività di ricostruzione della vicenda concreta, sulla base dei documenti e delle prove presuntive tratte dall'istruttoria, secondo gli elementi in motivazione ampiamente illustrati, sopra riferiti. Tale accertamento - che sotto nessun profilo contrasta con i principi di diritto sopra affermati - non può essere rimesso in discussione, dunque, in punto di fatto, ed il motivo al riguardo si palesa inammissibile.
3. - Il secondo motivo è infondato. Esso lamenta l'omesso esame di fatto decisivo del giudizio, che sarebbe integrato dalle circostanze secondo cui la stessa non gestì di fatto la società dopo il 1995, non firmò il verbale contenente la deliberazione di nomina e neppure quello consiliare del 12 luglio 1996, la cui apocrificità è stata accertata in giudizio. Tuttavia, la corte del merito ha ampiamente considerato tutte queste circostanze, onde il vizio del loro omesso esame non sussiste. Quanto alla deduzione concernente la mancata ammissione dell'interrogatorio formale di R.R., parimenti non si tratta di fatto storico omesso, ma di prova non ammessa: per la quale decisione, parimenti, la corte del merito ha adeguatamente motivato la mancanza dei presupposti ex art. 230 c.p.c., non trattandosi di circostanze tali da condurre, già in astratto, ad una possibile confessione dell'interrogando, quale dichiarazione di fatti a sé sfavorevoli e favorevoli all'altra parte. Al riguardo, questa Corte ha già chiarito (cfr. Cass. 12 ottobre 2015, n. 20476; Cass. 24 febbraio 2011, n. 4486; Cass. 3 dicembre 2004, n. 22753) che l'interrogatorio formale, reso in un processo con pluralità di parti, è pur sempre volto a provocare la confessione giudiziale di fatti sfavorevoli alla parte confitente e favorevoli al soggetto che si trova, rispetto ad essa, in posizione antitetica e contrastante: per tale ragione, esso non può essere deferito, su un punto dibattuto in quello stesso processo, tra il soggetto deferente ed un terzo diverso dall'interrogando, non avendo valore confessorio le risposte, eventualmente affermative, fornite dell'interrogato. Ciò, alla stregua del noto meccanismo, secondo cui, mirando l'interrogatorio formale a provocare la confessione giudiziale (art. 228 c.p.c.), questa è atta a produrre effetti nei confronti della parte che la rende e di quella che l'abbia provocata: ma non può acquisire il valore di prova legale nei confronti di persone diverse dal confitente, in quanto costui non ha alcun potere di disposizione relativamente a situazioni giuridiche facenti capo ad altri, distinti soggetti del rapporto processuale e, se anche il giudice ha il potere di apprezzare liberamente la dichiarazione e trarne elementi indiziari di giudizio nei confronti delle altre parti, tali elementi non possono prevalere rispetto alle risultanze di prove dirette. La corte del merito ha ampiamente motivato come i plurimi indizi ivi riassunti - ovvero: la necessaria conoscenza della scadenza del suo primo mandato conferito nel 1992, il preciso dovere della stessa amministratrice uscente di provvedere alla convocazione dell'assemblea per la nomina dei nuovi amministratori, l'essere la medesima anche socia con i relativi poteri di verifica, la delibera assembleare del 1995 il cui verbale recava inequivoca sia la presenza, sia la nomina della stessa alla carica di amministratrice, la mancanza di qualsiasi reazione alla pretesa falsità del verbale de quo - costituiscano la prova piena dell'assunzione della carica anche per il triennio successivo alla rinnovazione nella carica, avvenuta nell'assemblea sociale del 5 settembre 1995. Resta, a quel punto, nell'ambito dei poteri discrezionali del giudice del merito escludere la prova per interrogatorio formale non della parte confitente, ma di un terzo, la cui eventuale dichiarazione contraria al contenuto di quel verbale ed ai plurimi elementi probatori già raccolti non avrebbe condotto a diverso esito, secondo l'apprezzamento a quel giudice riservato dalla legge.
4. - Il terzo, il quarto ed il sesto motivo sono inammissibili, in quanto costituiscono dei "non motivi", per difetto di riconducibilità ad uno dei vizi di cui all'art. 360, comma 1, c.p.c.: essi, invero, si limitano a prevedere una diversa soluzione delle due questioni poste - l'eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, la responsabilità per l'omessa gestione societaria post 1995, la pronuncia sulle spese in appello - in conseguenza dell'accoglimento dei primi due motivi, ad opera della S.C.
5. - Il quinto motivo è infondato. Premesso che il vizio di motivazione insufficiente non è più previsto dall'attuale art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., occorre osservare che la liquidazione del risarcimento nel quantum è stata adeguatamente giustificata dalla corte territoriale, che ha considerato solo le voci di danno specificamente provate, disattendendo il criterio della mera differenza tra attivo e passivo patrimoniale. Sulla base della relazione di consulenza tecnica espletata in primo grado, la corte territoriale ha dunque accertato sia le condotte di mala gestio, fra cui il compimento di nuove operazioni, sia la distrazione di fondi sociali: in particolare, ha calcolato sia i pagamenti ingiustificati, come evidenziati nella predetta relazione (pari a L. 121.498.700), sia gli ammanchi dalle casse sociali (pari a L. 17 .881.160). Sommati, dunque, tali due importi, essi ammontano a L. 139.379.860, dunque esattamente pari all'importo liquidato dalla corte in€ 71.983,69. In tal modo, né alla sentenza impugnata può imputarsi un difetto motivazionale, né un errore di diritto, al contrario essendosi essa così conformata al principio enunciato da questa Corte (Cass., sez. un., 6 maggio 2015, n. 9100), secondo cui nell'azione di responsabilità promossa dal curatore ex art. 146 l.f., la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili non giustifica di per sé che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede fallimentare, potendo, peraltro, tale criterio essere utilizzato quale parametro per una liquidazione equitativa. Nel caso in esame, come esposto, il pregiudizio patrimoniale è stato quantificato avendo riguardo agli specifici elementi probatori risultati dal processo, senza nessuna indebita presunzione o imputazione dell'intero deficit fallimentare agli amministratori colpevoli di mala gestio, ma previa analitica accertata colpevole dispersione di elementi dell'attivo patrimoniale da parte degli amministratori.
6. - Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al rimborso delle spese di lite in favore della parte controricorrente, liquidate in € 5.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie al 15% sui compensi ed agli accessori, come per legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.p.r. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.