La Cassazione risponde al quesito con l'affermazione di nuovi principi di diritto.
La controversia trae origine dalla richiesta di equa riparazione da irragionevole durata del processo avanzata da una società in relazione ad una procedura fallimentare durata diciannove anni. Una volta decretato la chiusura del fallimento, senza soddisfazione dei creditori chirografari (tra cui la società ricorrente), il decreto di chiusura...
Svolgimento del processo
U.L. S.p.A., già I. S.p.A., ha proposto ricorso, nei confronti del Ministero della Giustizia, per la cassazione del decreto con cui la Corte d’appello di Torino in composizione collegiale, confermando il decreto emesso dalla medesima Corte in composizione monocratica, ha dichiarato inammissibile il ricorso per l’equa riparazione da irragionevole durata del processo che essa U. aveva proposto in riferimento ad una procedura fallimentare durata diciannove anni. La procedura riguardava il fallimento della società C. sistemi industriali s.r.l., dichiarata fallita dal Tribunale di Alessandria il 10 ottobre del 1997 (fall. n. 421997, Tribunale di Alessandria). Tra i creditori chirografari ammessi al passivo vi era anche la società I.. A tale società era subentrata U. s.p.a. Il 4 aprile 2016 il Tribunale di Alessandria aveva decretato la chiusura del fallimento, senza soddisfazione per i creditori chirografari (tra cui l’I.). Il decreto di chiusura del fallimento non era stato comunicato ai creditori ma il relativo deposito era stato annotato nel registro delle imprese in data 9 aprile 2016. Il 5 dicembre del 2017 U. proponeva domanda di equa riparazione alla Corte d’appello di Torino, chiedendo la corresponsione dell’indennizzo per i danni derivanti dall’eccedenza di dodici anni rispetto al limite massimo di ragionevole durata della procedura fallimentare. La Corte d’appello di Torino ha dichiarato il ricorso inammissibile per mancato rispetto del termine semestrale di cui all’articolo 4 della legge n. 89 del 2001, in quanto il relativo dies a quo, ossia il giorno di scadenza del termine per proporre reclamo avverso il decreto di chiusura del fallimento da parte dei creditori ammessi al passivo fallimentare, andava individuato nel quindicesimo giorno successivo all’annotazione di tale decreto nel registro delle imprese. Poiché tale annotazione era stata effettuata il 9 aprile del 2016, il termine per il reclamo era spirato, per i creditori ammessi al passivo, il 26 aprile 2016 e da tale data decorreva il termine semestrale per la presentazione della domanda di equa riparazione, ampiamente scaduto alla data del ricorso introduttivo. Il ricorso per cassazione di U. è stato resistito dal Ministero della Giustizia con controricorso. La causa è stata chiamata all’adunanza camerale del 22 ottobre 2020, per la quale parte ricorrente ha depositato una memoria; all'esito di tale adunanza il Collegio ha disposto la rimessione della causa in pubblica udienza e il ricorso è stato infine fissato alla pubblica udienza del 16 dicembre 2021 e ivi - non avendo alcuna delle parti fatto richiesta di discussione orale - è stato trattato in camera di consiglio in base alla disciplina dettata dall’art. 23, comma 8-bis, del decreto-legge n. 137 del 2020, inserito dalla legge di conversione n. 176 del 2020, e dall’art. 7 del decreto-legge n. 105 del 2021, convertito nella legge n. 126 del 2021, previo deposito di una ulteriore memoria della ricorrente e della requisitoria scritta del Procuratore Generale, che ha concluso come in epigrafe.
Motivi della decisione
Preliminarmente va disattesa l'eccezione di tardiva del ricorso per cassazione sollevata dalla difesa erariale in ragione dell'asserito superamento del termine semestrale di cui all'articolo 327, primo comma, c.p.c.; l'impugnato decreto è stato infatti depositato il 22 Febbraio 2018, cosicché il suddetto termine semestrale scadeva, tenendo conto della sospensione feriale dei termini, il 22 settembre 2018 come riconosciuto nello stesso controricorso del Ministero (pag. 2, rigo 16). Il 22 settembre 2018 cadeva di sabato e pertanto, ai sensi dell'articolo 155, quinto comma, c.p.c., il termine era prorogato al successivo lunedì 24 settembre, data di spedizione del ricorso a mezzo del servizio postale. L'impugnazione è quindi tempestiva. Con il primo ed unico motivo di ricorso, riferito all'articolo 360 n. 3 c.p.c., la società U. deduce la violazione e/o falsa applicazione, dell’art. 4, legge n. 89/2001, in relazione all’art. 6, paragrafo 1 della CEDU, all’art. 1 del primo protocollo addizionale e agli artt. 111 e 117 della Costituzione; violazione e/o falsa applicazione dell’art. 119, comma secondo, e dell’art. 17, comma primo, l.f.; dell’art. 2193 c.c.; dell’art. 30, comma terzo, l. n. 87/1953. L’U. s.p.a. sostiene che l’ annotazione nel registro delle imprese del decreto di chiusura del fallimento non può considerarsi equivalente ad una comunicazione del decreto alle parti e che, quindi, tale annotazione non è idonea a far decorrere il termine breve di quindici giorni previsto per l'impugnazione di tale decreto dall’art. 119, comma secondo, l.f. (nel testo, applicabile ratione temporis alla fattispecie dedotta in giudizio, anteriore alle modifiche apportate dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5), quale risultante all’esito della sentenza della Corte Costituzionale n. 279 del 2010. Difatti, argomenta la ricorrente, considerare l'iscrizione del decreto di chiusura del fallimento nei registri della camera di commercio, che pur sono accessibili al pubblico, alla stregua di una comunicazione regolarmente notificata, contrasta con il principio processuale di certezza e stabilità dei rapporti che permea la disciplina delle impugnazioni. La ricorrente denuncia quindi l’errore in cui la Corte territoriale sarebbe incorsa individuando la data in cui il decreto di chiusura del fallimento è diventato definitivo (dies a quo del termine di cui all’articolo 4 della legge Pinto) alla scadenza dei quindici giorni dalla relativa annotazione nel registro delle imprese, invece che alla scadenza dell’anno dal relativo deposito, ex art. 327 c.p.c.. Come è stato evidenziato nell'ordinanza di rimessione della presente causa alla pubblica udienza, il ricorso in esame pone due distinte questioni di diritto. La prima questione consiste nello stabilire se, ai fini del decorso del termine di reclamabilità del decreto di chiusura del fallimento, i creditori concorsuali debbano considerarsi "terzi" o "parti" e, quindi, se essi siano o non siano soggetti all'operatività della presunzione assoluta di conoscenza degli atti annotati nel registro delle imprese di cui all'art. 2193 c.c., comma 2. La seconda questione - che si pone esclusivamente nel caso in cui si ritenga che l'annotazione del decreto di chiusura del fallimento nel registro delle imprese non sia idonea a far decorrere il termine breve per la impugnazione di tale decreto da parte dei creditori ammessi al passivo fallimentare, cosicché questi ultimi possano impugnare tale decreto nel termine lungo di cui all'articolo 327 c.p.c. - consiste nello stabilire se il detto termine lungo debba identificarsi in quello semestrale o in quello annuale (nel primo caso, infatti, la domanda di equa riparazione dell’odierna ricorrente risulterebbe comunque tardiva, in quanto posteriore all’esaurimento del termine di cui all’articolo 4 della legge Pinto). Quanto alla prima questione, il Collegio ritiene di dover dare continuità al principio già espressi da questa Corte nella sentenza n. 4020 del 18.2.2020, resa tra le stesse parti del presente giudizio, alla cui stregua «i creditori concorrenti, tali a seguito dell'ammissione al passivo, sono "parti" a pieno titolo della procedura fallimentare, cosicché non possono esser considerati "terzi". Ne discende che, in quanto "parti" e non "terzi", i creditori concorrenti, pur ai fini del decorso del termine entro il quale il decreto con cui il tribunale dichiara la chiusura del fallimento è reclamabile, non sono esposti all'operatività della presunzione assoluta di conoscenza di cui al 2° co. dell'art. 2193 cod. civ., siccome, appunto, presunzione rivolta ai "terzi" (cfr. inoltre Cass. 6.7.2004, n. 12387, secondo cui l'art. 2193 cod. civ. non opera nell'ambito del processo)» (§ 13). Sulla scorta di tale principio va quindi affermato che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello di Torino, l’annotazione nel registro delle imprese del deposito del decreto di chiusura del fallimento non fa decorrere il termine breve per il reclamo avverso tale decreto nei confronti dei creditori ammessi al passivo fallimentare. Quanto alla seconda questione - ossia se il termine breve debba individuarsi in un anno, come previsto dal testo dell’articolo 327 c.p.c. anteriore alla modifica recata dall’articolo 46 della legge n. 69 del 2009, o in sei mesi, come previsto dal testo dell’articolo 327 c.p.c. successivo a detta modifica - si osserva che tale questione postula la soluzione del dilemma se, agli effetti dell’articolo 58, primo comma, della legge n. 69 del 2009 («le disposizioni della presente legge che modificano il codice di procedura civile … si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore») debba aversi riguardo alla data di instaurazione della procedura fallimentare – ossia, secondo quanto prospettato dalla ricorrente, alla data, nella specie anteriore al 2009, della sentenza di apertura del fallimento (o, in ulteriore ipotesi, alla data di insinuazione del creditore nel fallimento) - oppure alla data di instaurazione del sub-procedimento camerale di chiusura del fallimento ex art. 119 l.f. , ossia alla data, nella specie posteriore al 2009, della istanza di chiusura del fallimento avanzata dal curatore o dal debitore o dell’atto di impulso ufficioso del tribunale (in quest’ultimo senso, Cass. n. 3824/2019, pagg. 6/7, seguita da Cass. 13237/2019). Anche su questa seconda questione la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di evolversi, superando l'orientamento espresso dalle citate sentenze nn. 3824 e 13237 del 2019, ed affermando, al contrario, che l’individuazione del testo dell'articolo 327 c.p.c. applicabile ratione temporis va operata avendo riguardo (non alla data di apertura del sub-procedimento camerale di chiusura del fallimento, bensì) alla data di apertura del fallimento stesso; si vedano Cass. n. 28496/2020, Cass. n. 32519/2021 e Cass. n. 35793/2021, nella quale ultima si legge (pag. 5): «Ebbene, al fine di stabilire se sia o no applicabile il termine di sei mesi in luogo di quello di un anno, occorre considerare non la data di instaurazione del sub-procedimento culminato con il decreto di chiusura, ma la data di apertura della procedura fallimentare, la quale, del resto, rappresenta il giudizio presupposto di cui si lamenta la non ragionevole durata. Nonostante vi siano precedenti di questa Corte che hanno fatto propria la diversa tesi propugnata dal Ministero della Giustizia (Cass. n. 3824/2018; n. 13237/2019), il Collegio ritiene preferibile il diverso orientamento, in base al quale sull'autonomia del sub- procedimento camerale deve «prevalere, ai fini della pendenza, la data di dichiarazione del fallimento, di cui il decreto in questione costituisce l'esito» (Cass. n. 28496/2020)». Il Collegio ritiene di dover dare conferma e seguito a questo più recente indirizzo, con la precisazione, peraltro, che esigenze di chiarezza, uniformità di trattamento e semplificazione consigliano di privilegiare l'interpretazione secondo cui l'individuazione del testo dell'articolo 327 c.p.c. applicabile ratione temporis va operata avendo riguardo, per tutti i creditori ammessi al passivo, nella data della sentenza di apertura del fallimento e non nelle date di ammissione di ciascun creditore al passivo fallimentare. Vanno quindi, in definitiva, enunciati i due seguenti principi di diritto. Ai sensi dell'articolo 119 della legge fallimentare (R.D. 16/03/1942, n. 267), nel testo precedente le modifiche apportate dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, quale risultante all'esito della sentenza della Corte costituzionale 23/07/2010 n. 279, l'annotazione presso l'ufficio del registro delle imprese del decreto di chiusura del fallimento non è idonea a far decorrere il termine di quindici giorni per il reclamo avverso tale decreto nei confronti dei creditori ammessi al passivo fallimentare. Ai fini della individuazione del termine lungo, di sei mesi o di un anno, per l'impugnazione del decreto di chiusura del fallimento di cui all'articolo 119 della legge fallimentare (R.D. 16/03/1942, n. 267) - nel testo precedente le modifiche apportate dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, quale risultante all'esito della sentenza della Corte costituzionale 23/07/2010 n. 279 - deve aversi riguardo, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 58, primo comma, della legge n. 69 del 2009, al testo dell'articolo 327 c.p.c. vigente alla data della sentenza di apertura del fallimento. Il ricorso va quindi accolto e l'impugnato decreto va cassato con rinvio alla Corte d'appello di Torino in altra composizione, che si atterrà ai suddetti principi e regolerà anche le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa l'impugnato decreto e rinvia alla Corte d'appello di Torino, in altra composizione, che regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.