
In caso di pagamenti in acconto, gli interessi compensativi si calcolano sia sull'intero capitale, per il periodo che va dalla data dell'illecito al pagamento dell'acconto, sia sulla somma residua, per il periodo che va dal pagamento dell'acconto alla liquidazione definitiva.
L'attuale ricorrente era un medico che aveva subito un tamponamento mentre era alla guida della sua vettura, a seguito del quale aveva riportato diverse lesioni. I postumi dell'incidente però gli avevano procurato la perdita di occasioni lavorative, danni alla salute e danni alla vita affettiva e familiare, non potendo più svolgere le stesse attività che svolgeva prima del...
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
1.G.V. propone ricorso per Cassazione articolato in quattro motivi ed illustrato da memoria per la cassazione della sentenza della Corte d'appello di Napoli n. 4249 del 2018 nei confronti di G. Italia s.p.a. nonché degli eredi di P.L. ovvero C.R., M., L., E. ed A. L..
2. Resiste G. Italia con controricorso mentre gli altri soggetti regolarmente intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
3. Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale.
4. Il ricorrente, medico chirurgo specialista in oncologia, dottore di ricerca in biologia e patologia molecolare, riferisce di aver subito nel 1997, all'età di 38 anni, un tamponamento mentre era fermo, incolonnato nel traffico, alla guida della sua vettura da parte della vettura condotta da P.L.. A seguito dell'incidente riportava diverse lesioni a carico del rachide ed era costretto ad indossare un busto rigido per nove mesi. L'incidente e i suoi postumi permanenti gli procuravano la perdita di occasioni lavorative, danni alla salute e alla vita affettiva e familiare, non potendo più svolgere le normali attività che un padre di due ragazzi di 11 e quattro anni svolge abitualmente. Chiedeva quindi in primo grado il risarcimento integrale dei danni subiti, comprensivi del danno alla vita affettiva familiare. All'esito del giudizio di primo grado il tribunale dichiarava l'esclusiva responsabilità di P.L. nella causazione dell'incidente e condannava in solido il Lavoro con la sua compagnia di assicurazioni I.A. al pagamento in favore del V. della somma di 52.000 euro. Il ricorrente proponeva appello, perché riteneva che il danno fosse stato liquidato in misura inferiore al dovuto ed anche perché nel corso del giudizio si verificavano, a causa dell'indispensabile e prolungato trattamento delle fratture direttamente provocate dall'incidente stradale mediante busto steccato, dapprima alcune necrosi e poi una neoplasia testicolare che riteneva fosse in rapporto causale con le terapie necessitate dall'incidente. In grado di appello chiedeva quindi un integrale risarcimento di tutti i postumi invalidanti conseguenti all'incidente, inclusi i danni derivanti dalla neoplasia. Effettuata una terza consulenza tecnica sulla persona del danneggiato, affidata a un collegio di tre specialisti, per valutare i danni e il nesso causale tra lo svilupparsi del carcinoma e l'originario sinistro nonché le terapie ad esso conseguenti, la sentenza impugnata accoglieva in parte l'appello principale del ricorrente e, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava il Lavoro e le G., in applicazione delle tabelle adottate dal Tribunale di Milano nel 2018, a pagare oltre all'importo già corrisposto, pari ad euro 88.724, il residuo importo risarcitorio di euro 261.315,49. In particolare, la Corte d'appello condivideva le conclusioni del collegio peritale ritenendo accertata, secondo il criterio probabilistico del più probabile che non, la riconducibilità eziologica della neoplasia testicolare insorta nel V., e trattata chirurgicamente, al necessario trattamento terapeutico con busto steccato in relazione alle lesioni osteoarticolari riportate da quest'ultimo nell'incidente stradale, in particolare al quadro infiammatorio dovuto al cronico sfregamento del busto ortopedico steccato sul testicolo, che aveva agito come concausa nel determinismo del seminioma testicolare. Stimava il danno biologico di pertinenza oncologica per la perdita della capacità di procreare dei testicoli dopo la maturazione sessuale con conseguente impotenza generandi nella misura integrale del 22% senza operare alcuna decurtazione (in base al principio espresso da ultimo da Cass. n. 30521 del 2019, secondo il quale una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile). Sommando a questo danno specifico gli altri postumi invalidanti riportati dal danneggiato a seguito dell'incidente stimava una invalidità permanente nella misura complessiva del 45%, ben superiore rispetto a quanto riconosciuto in primo grado. Liquidava il danno in maniera unitaria; affermava che l'impossibilità di attendere alle normali occupazioni, ed in particolare di seguire le attività dei figli finché il danneggiato portava il busto era stata tenuta in conto e liquidata all'interno dell'importo riconosciuto a titolo di invalidità temporanea; non avendo provato il ricorrente una seria e apprezzabile compromissione delle dinamiche relazionali successiva a questo periodo negava un danno ulteriore; riteneva assorbito, e quindi integralmente liquidato, il danno alla funzione sessuale nella voce di danno riconosciuta relativa al danno oncologico. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'articolo 2059 c.c. e la mancata o errata valutazione dei presupposti probatori a sostegno del danno esistenziale, nonchè contesta il ritenuto assorbimento nei valori del danno biologico della componente di danno esistenziale; rileva inoltre l'esistenza di una contraddittorietà della motivazione sul punto. Il ricorrente ritiene che il danno complessivamente riportato, massicciamente aggravato dagli esiti della necessità di portare per nove mesi il busto, che ha per uniforme parere dei consulenti provocato l'insorgere della neoplasia, non sia stato adeguatamente valutato nella sua eccezionalità, e in particolar modo che sia stata sottovalutata l'incidenza del danno alla sfera sessuale in un uomo ancora giovane. Riporta stralci delle testimonianze assunte nel corso dei giudizi di merito evidenziando che da esse emerge il quadro di un uomo giovane, con una carriera in espansione, che ha dovuto rinunciare alla possibilità di allargare la sua carriera e il suo nucleo familiare, e per almeno un paio d'anni dopo l'incidente non è stato in grado di svolgere una normale vita di relazione con i figli e con gli amici. Il ricorso prosegue criticando direttamente alcuni passaggi contenuti nella CTU quali l'addossare al danneggiato la "colpa" conseguente alla scelta di essere un docente fuori sede, di muoversi dall'una all'altra attività lavorativa utilizzando necessariamente la macchina, e segnala come misconosciuto il fatto che l'essere docente nell'Università del Molise comportava necessariamente una frammentazione di attività didattiche tra le varie sedi. Il ricorrente pone in rilievo inoltre che non sia stato adeguatamente considerato il suo desiderio, come uomo in età ancor giovane, di allargare la sua famiglia, attività preclusa dal danno riportato alla sfera sessuale. In sostanza lamenta che il danno riportato alla persona non sia stato adeguatamente valutato e liquidato nella sua integralità, con valutazione superficiale, appiattita sui valori a punto, senza adeguatamente considerare le particolarità del caso concreto, la sofferenza patita e le effettive perdite ad esso conseguenti, sia sotto il profilo dei rapporti umani che delle prospettive di carriera che delle ricadute sulla vita sessuale e quindi sulle scelte familiari. Il motivo è infondato, ai limiti della inammissibilità, perché si traduce in una diretta critica della consulenza tecnica, le cui conclusioni sono state recepite dalla sentenza di appello che ha formulato una propria autonoma motivazione, che dà una idonea giustificazione dell'avvenuta liquidazione all'interno di un'unica cifra, dell'intero danno alla persona patito, in tutte le sue sfaccettature considerate per giungere sia al riconoscimento di una cospicua inabilità temporanea, che ad una elevata percentuale finale di invalidità e alla complessiva personalizzazione del danno, sotto il profilo del pregiudizio alla vita di relazione, alla salute ed in particolare alla capacità di procreare, che hanno portato, nel passaggio dal primo al secondo grado e nel sopravvenire di un secondo evento di danno, la patologia tumorale, in rapporto causale con il fatto illecito originario dal quale è derivata la necessità di portare un busto rigido per ben nove mesi, ad elevare l'invalidità permanente al 45 %, né il ricorrente segnala specifici errori in diritto nel ragionamento motivazionale della corte d'appello. Con il secondo motivo il ricorrente torna a denunciare la violazione e falsa applicazione dell'articolo 2059 c.c. in particolare in relazione alla errata valutazione del danno esistenziale da perdita della funzionalità procreativa in età ancora giovane e l'errato conglobamento del risarcimento per danno alla funzione sessuale in quello per danno oncologico. Denuncia infine anche la contraddittorietà nel ragionamento adottato a sostegno della motivazione. Lamenta che il danno da perdita della capacità procreativa sia stato sussunto all'interno del danno oncologico e che la liquidazione sia inidonea a risarcire integralmente il pregiudizio eccezionale effettivamente subito, essendo un uomo ancor giovane al momento della perdita della capacità riproduttiva. Assume che la Corte avrebbe liquidato il danno senza tenere in conto l'età del danneggiato. Anche questo motivo è infondato, ai limiti dell'inammissibilità. Il ricorrente, che è stato duramente colpito dagli accadimenti, avendo subito prima un incidente stradale al quale non ha dato alcun apporto causale, e poi rimanendo vittima di una patologia oncologica scatenata dalle cure, pur necessarie, che l'ha danneggiato nella sua virilità di uomo nel pieno delle proprie forze, ritiene che la sua particolare situazione sia stata ingiustamente sottovalutata. Ritiene che non si sia tenuto conto del fatto che ha perso la capacità riproduttiva in età ancor giovane in cui queste scelte erano del tutto aperte e che quindi che debba essere maggiormente indennizzata questa perdita ove intervenuta in giovane età rispetto a chi perde questa capacità in età più avanzata. Tuttavia, le critiche agli importi liquidati si traducono in mere affermazioni, non supportate da alcun aggancio alla motivazione della sentenza e non atte ad evidenziare errori nel criterio di quantificazione adottato per il risarcimento del danno seguito dalla corte d'appello, in cui la corte, dopo aver recepito la valutazione del giudice di prime cure e dopo aver verificato il danno biologico in relazione alla percentuale di invalidità permanente direttamente derivante dall'incidente, ha fatto accertare con separato accertamento tecnico le conseguenze permanenti nuove ed aggiuntive, derivanti dal fatto sopraggiunto della patologia tumorale, ha accertato che essa fosse stata concausata dalla necessità di indossare il busto rigido per un periodo prolungato, e le ha quantificate in una ulteriore percentuale del 22 % che, definita sinteticamente danno oncologico, è comprensiva, come si evince chiaramente dal tenore della motivazione, di tutte le ricadute permanenti sulla vita del danneggiato derivanti dalla perdita della capacità riproduttiva, e tale da elevare la percentuale complessiva di invalidità riconosciuta al 45%, ben superiore rispetto a quanto riconosciuto in primo grado. Né emerge che nella quantificazione degli esiti permanenti non si sia tenuto conto dell'età del danneggiato al momento del fatto. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione degli articoli 1282 1284 del codice civile nonché l'erronea applicazione dei principi enunciati da Cass. n. 5013 del 2017. Il motivo è del tutto inammissibile, non riporta né richiama, né evoca chiaramente, il contenuto del motivo di appello che lamenta non sia stato preso in considerazione, non consentendo neppure alla Corte di comprendere la reale natura della censura. Con il quarto motivo denuncia la violazione dell'articolo 1223 c.c. nonché l'erronea applicazione dei principi enunciati dalla Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 1712 del 1995. Lamenta che la Corte napoletana non avrebbe correttamente applicato i criteri indicati dalla suddetta decisione per effettuare il calcolo degli interessi di mora dovutigli, perché nel conteggio effettuato dalla Corte d'appello sarebbero stati riconosciuti gli interessi di mora esclusivamente sulla differenza tra il valore del credito liquidato all'attualità e poi devalutato al momento del sinistro e l'acconto erogato medio tempore anch'esso devalutato al momento del sinistro. Aggiunge che, pur richiamando il principio corretto, ovvero quello indicato dalle Sezioni Unite del '95, il procedimento poi seguito per la concreta quantificazione del dovuto non sarebbe ad esso conforme, perché la Corte d'appello avrebbe utilizzato il criterio di calcolo idoneo a determinare la somma residua da pagare in caso di versamenti in acconto sul dovuto e non il criterio di calcolo da utilizzare per il calcolo degli interessi, secondo le indicazioni operative impartite più recentemente da Cass n. 9950/2017, in coerenza con i principi enunciati da Cass. S.U. n. 1712 del 95, che impone di riversare al danneggiato creditore il cosiddetto lucro cessante finanziario ossia i frutti del denaro dovutigli a titolo di risarcimento sin dal giorno del sinistro. Il motivo è fondato. La corte d'appello, pur richiamando, ai fini della integrale liquidazione del danno, i criteri di calcolo enunciati da Cass. n. 1712 del 1995, non vi ha poi, incorrendo in violazione di legge, tenuto fede, ed in questo modo non ha integralmente restituito il ricorrente, seppur necessariamente per equivalente, nella situazione quo ante. La liquidazione del danno da mora nelle obbligazioni di valore deve, per così dire, simulare quel che il creditore avrebbe potuto ricavare dall'investimento della somma a lui dovuta, se fosse stato tempestivamente soddisfatto. Nel caso di pagamenti in acconto, il creditore:
I) nel periodo compreso tra il danno e il pagamento dell'acconto, a causa della mora ha perduto la possibilità di investire e far fruttare il denaro dovutogli: e dunque il danno da mora deve, per questo periodo, replicare il lucro che gli avrebbe garantito l'investimento dell'intero capitale dovutogli;
II) Solo dopo il pagamento dell'acconto, e per effetto di quest'ultimo, il creditore non può più dolersi di avere perduto i frutti finanziari teoricamente derivanti dall'investimento dell'intero capitale dovutogli; dopo il pagamento dell'acconto, infatti, il lucro cessante del creditore si riduce alla perduta possibilità di investire e far fruttare il capitale che residua.
Questo essendo il criterio che deve presiedere alla liquidazione del danno da mora nelle obbligazioni di valore, ne segue che nel caso di pagamento di acconti, tale pagamento va sottratto dal credito risarcitorio attraverso le seguenti operazioni:
- rendere omogenei il credito risarcitorio e l'acconto (devalutandoli entrambi alla data dell'illecito, ovvero rivalutandoli alla data della liquidazione);
- detrarre l'acconto dal credito;
- calcolare gli interessi compensativi applicando un saggio scelto in via equitativa:
- sull'intero capitale, per il periodo che va dalla data dell'illecito al pagamento dell'acconto;
- sulla somma che residua dopo la detrazione dell'acconto, per il periodo che va dal suo pagamento fino alla liquidazione definitiva (così già Sez. 3, Sentenza n. 6347 del 19/03/2014).
La corte d'appello di Napoli, invece, dopo aver effettuato correttamente la prima operazione, devalutando l'intero credito e l'acconto percepito fino alla data dell'illecito, per rendere i due valori omogenei, ha errato nel compiere la seconda operazione, perché non ha riconosciuto al danneggiato il diritto agli interessi compensativi sull'intera somma via via rivalutata dal momento dell'illecito e fino al pagamento dell'acconto, e soltanto dal pagamento dell'acconto al saldo sulla somma residua, ma li ha riconosciuti sulla sola differenza tra intero credito e acconto fin dalla data del sinistro. Il collegio napoletano ha finito in questo modo per sottostimare il danno da mora, in quanto per i primi tredici anni successivi al sinistro era stato l'intero capitale a produrre interessi compensativi, i quali per tale periodo di tempo si sarebbero perciò dovuti conteggiare sull'intero credito risarcitorio, e non sulla somma residuata dopo la detrazione dell'acconto. In tal modo, ha confiscato al danneggiato il diritto di percepire gli interessi compensativi sull'importo di 82.000,00 euro percepiti in acconto, a partire dalla data dell'illecito e fino al suo pagamento, nonché sulle dovute rivalutazioni del capitale. Il motivo va quindi accolto e la sentenza cassata sul punto, rimanendo ferme le altre statuizioni, relative alla liquidazione delle spese legali e di consulenza tecnica. Deve rinnovarsi il calcolo degli interessi e rivalutazione spettanti, attenendosi al seguente principio, già enunciato da Cass. n. 9950 del 2017 : "La liquidazione del danno da ritardato adempimento di un'obbligazione di valore, ove il debitore abbia pagato un acconto prima della quantificazione definitiva, deve avvenire: a) devalutando l'acconto ed il credito alla data dell'illecito; b) detraendo l'acconto dal credito; c) calcolando gli interessi compensativi individuando un saggio scelto in via equitativa, ed applicandolo prima sull'intero capitale, rivalutato anno per anno, per il periodo intercorso dalla data dell'illecito al pagamento dell'acconto, e poi sulla somma che residua dopo la detrazione de/l'acconto, rivalutata annualmente, per il periodo che va da quel pagamento fino alla liquidazione definitiva.". Non essendo necessari altri accertamenti in fatto, peraltro, sulla base del principio di diritto enunciato, questa Corte può avvalersi della facoltà, prevista dall'art. 384 secondo comma, c.p.c. di decidere la causa nel merito, disponendo che sull'importo globale liquidato in favore dal V. a titolo di risarcimento del danno dal capo a) della sentenza impugnata, devalutato alla data del sinistro ed annualmente rivalutato secondo gli indici ISTAT, siano dovuti gli interessi compensativi in misura pari al saggio legale sull'intera somma via via rivalutata, fino alla data di versamento dell'acconto, e poi gli interessi, sempre al saggio legale, sulla differenza tra il credito capitale devalutato alla data del sinistro e l'acconto percepito, anch'esso devalutato al momento del sinistro, differenza da rivalutarsi di anno in anno secondo gli indici ISTAT. In ragione del solo parziale accoglimento del ricorso, le spese del presente giudizio di legittimità sono compensate.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i primi tre motivi, accoglie il quarto, cassa e, decidendo nel merito, ferme le altre statuizioni, dispone che sull'importo globale liquidato in favore dal V. a titolo di risarcimento del danno dal capo a) della sentenza impugnata, devalutato alla data del sinistro ed annualmente rivalutato secondo gli indici ISTAT, siano dovuti gli interessi compensativi in misura pari al saggio legale sull'intera somma via via rivalutata, fino alla data di versamento dell'acconto, e poi gli interessi, sempre al saggio legale, sulla differenza tra il credito capitale devalutato alla data del sinistro e l'acconto percepito, anch'esso devalutato al momento del sinistro, differenza da rivalutarsi di anno in anno secondo gli indici ISTAT. Compensa le spese del giudizio di legittimità tra le parti.