Oltre all'effettuazione della pausa pranzo, nell'ambito del pubblico impiego privatizzato, l'attribuzione del beneficio presuppone lo svolgimento di un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore.
La Corte d'Appello di Milano rigettava il gravame avanzato dall'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, riconoscendo a favore di alcune lavoratrici il diritto al pagamento dei buoni pasto con riferimento ai periodi in cui le predette erano state assenti per allattamento.
L'appellante propone ricorso in Cassazione lamentando, tra i motivi...
Svolgimento del processo
La Corte d'Appello di Milano ha disatteso il gravame proposto dall'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli che aveva riconosciuto a favore delle lavoratrici meglio indicate in epigrafe il diritto al pagamento dei buoni pasto, dell'indennità di agenzia e di quella di produttività, con riferimento ai periodi in cui le predette erano state assenti per allattamento, congedo di maternità, interdizione anticipata dal lavoro o congedo parentale;
la Corte territoriale riteneva che il riconoscimento, da parte dell'art. 55 del CCNL applicabile, del diritto agli emolumenti rivendicati nel periodo di astensione obbligatoria per maternità/paternità, ove considerato unitamente al fatto che l'interdizione anticipata fosse esplicitamente ammessa, dall'art. 71 del d.l. 112/2008 conv. in L. 133/2008, all'equiparazione alla presenza in servizio, consentissero in generale di escludere che gli incentivi in questione fossero da parametrare sulla base delle ore ordinarie di servizio effettivamente prestate, come previsto dall'art. 4 del CCNI del 2005;
quanto ai buoni pasto, il riconoscimento andava ricondotto, secondo la Corte territoriale, al disposto dell'art. 39 d. lgs. 151/2001, secondo cui i permessi in questione erano da considerare ore lavorative agli effetti della retribuzione del lavoro, senza che rilevasse l'assenza di una pausa destinata alla consumazione del pasto, trattandosi di presupposto espressamente ritenuto non necessario dal DPCM 18.11.2005, art. 5 lett. e) ed anche sul presupposto che, prevedendo il permesso per allattamento il diritto di uscire dall'azienda, non poteva poi, l'esercizio del corrispondente diritto, comportare la perdita del beneficio dei buoni pasto, pur se ne fosse derivata l'assenza di pausa;
l'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi;
Stefania Romeo è rimasta intimata, mentre le altre lavoratrici hanno resistito con controricorso, depositando infine anche memoria.
Motivi della decisione
Il primo motivo denuncia, in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 7, comma 5, e 45 del d.lgs. n. 165 del 2001; dell'art. 22, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001 e dell'art. 4 del CCNI del 15 novembre 2005 nonché dell'art. 3, comma 2, della "Preintesa sulla utilizzazione delle risorse del Fondo per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività" del 9 dicembre 2008, con riguardo al riconoscimento dell'indennità di produttività;
il secondo motivo denuncia, in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 39 del d.lgs. n. 151 del 2001 e dell'art. 98 del CCNL 28 maggio 2004, in riferimento al riconoscimento dei buoni pasto;
il terzo motivo censura, in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 39, comma 2, del d.lgs. n.151 del 2001, in riferimento al disposto riconoscimento in favore dei dipendenti di tutti gli ulteriori emolumenti richiesti, sempre sulla base dell'erronea premessa dell'equiparazione delle ore di permesso per allattamento all'effettiva presenza in ufficio;
i motivi vanno definiti sulla base del precedente di questa S.C., qui condiviso e cui si intende dare continuità ed alle cui motivazioni si fa richiamo ai sensi dell'art. 118, co. 1, disp. att. c.p.c., secondo cui «in tema di pubblico impiego privatizzato, le misure di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al d.lgs. n. 151 del 2001, hanno la funzione di proteggere la salute della donna ma anche quella di soddisfare le esigenze puramente fisiologiche del minore, nonché di appagare i bisogni affettivi e re/azionali del bambino per realizzare il pieno sviluppo della sua personalità, sicché devono essere riconosciuti anche ai genitori adottanti, adottivi e agli affidatari, con modalità adeguate alla peculiarità della loro rispettiva situazione, e, in linea generale, non possono avere incidenza negativa sul trattamento retributivo complessivo degli interessati» (Cass. 28 novembre 2019, n. 31137), il che comporta la conferma della pronuncia per quanto attiene alle varie indennità rivendicate e riconosciute dalla Corte territoriale, con rigetto quindi del primo e del terzo motivo di impugnazione;
quanto ai buoni pasto va invece confermato il principio, espresso nel contesto della medesima pronuncia di cui sopra, secondo cui «in tema di pubblico impiego privatizzato, l'attribuzione del buono pasto è condizionata all'effettuazione della pausa pranzo che, a sua volta, presuppone, come regola generale, che il lavoratore osservi un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore ( oppure altro orario superiore minimo indicato dalla contrattazione collettiva); ne consegue che i buoni pasto non possono essere attribuiti ai lavoratori che, beneficiando delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità di cui al d.lgs. n. 151 del 2001, osservano, in concreto, un orario giornaliero effettivo inferiore alle suddette sei ore, né può valere l'equiparazione dei periodi di riposo alle ore lavorative di cui al comma 1 dell'art. 39 dello stesso d.lgs., che vale "agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro", in quanto l'attribuzione dei buoni pasto non riguarda né la durata né la retribuzione del lavoro ma è finalizzata a compensare l'estensione dell'orario lavorativo disposta dalla P.A., con una agevolazione di carattere assistenziale diretta a consentire il recupero delle energie psico-fisiche degli interessati»;
sul punto, in questa sede, deve peraltro prendersi posizione sulle difese svolte dalle lavoratrici in sede di memoria conclusiva;
sotto un primo profilo, esse insistono sulla necessaria equiparazione dei permessi di allattamento alle ore lavorative, ma va ribadito quanto già argomentato da Cass. 31137/2019, cit., nel senso che il diritto ai buoni pasto ha natura assistenziale e quindi non ha rilievo l'assimilazione delle ore di permesso a quelle di lavoro ai fini della «retribuzione», di cui all'art. 39, co. 2, d. lgs. 151/2001, perché il riconoscimento dei buoni pasto non ha appunto valenza retributiva;
pertanto, le ore di permesso non sono utili all'integrazione del requisito del superamento delle sei ore di cui all'art. 98 del CCNL sotto altro profilo, le controricorrenti sottolineano la non necessaria coincidenza tra buono pasto ed esistenza nell'orario di lavoro di una pausa pranzo, ma anche tale difesa non può trovare accoglimento;
il CCNL di riferimento, all'art. 98 cit., subordina infatti il diritto all'effettuazione di un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore, con la relativa pausa, al cui interno va consumato il pasto e dunque non vi è luogo a discorrere di altri e diversi presupposti, anche rispetto alla pausa, solo astrattamente possibili ma che qui comunque non ricorrono, perché il CCNL così prevede ed in ogni caso non è stata superata la necessaria soglia oraria;
né ha rilievo il fatto che i permessi consentissero l'uscita dal luogo di lavoro, in quanto ciò non significa, né vi sono ragioni per ritenerlo, che essi avessero la natura di pausa per pranzare;
infine, come già ritenuto dal precedente citato, è mal richiamato il disposto dell'art. 5 lett. c) del DPCM 18 novembre 2005 secondo cui i buoni pasto «sono utilizzati, durante la giornata lavorativa anche se domenica/e o festiva, esclusivamente dai prestatori di lavoro subordinato, a tempo pieno e parziale, anche qualora l'orario di lavoro non prevede una pausa per il pasto»;
potendosi qui aggiungere, ad integrazione, che quella norma, come è, sempre con testi tra loro sostanzialmente del medesimo tenore, per la legge che la prevede (art. 14 viciester ci.I. 115/2005, conv. in L. 168/2005), per quella che lo ha abrogato e ridisciplinato (art. 358, co. 1 lett. i in relazione all'art. 285 d.p.r. 207/2010) ed infine per quella che lo disciplina ora (art. 4 lett. c D.M. 122/2017 in relazione all'art. 144, comma 5, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50), ha la funzione di individuare in che cosa consistano i buoni pasto in relazione all'affidamento pubblico della loro gestione ad appaltatori esterni, disponendo l'irrilevanza, a tali fini, della corrispondenza con pause pranzo, ma certamente non interferisce con i requisiti che la contrattazione collettiva di comparto o decentrato, nell'ambito del rapporto di lavoro, richieda per la loro attribuzione;
in definitiva, poiché è pacifico che le controricorrenti abbiano lavorato nei giorni interessati solo 5 ore e 12 minuti, il secondo motivo di ricorso va accolto e la domanda sui buoni pasto può essere definita nel merito, con il suo rigetto;
la cassazione comporta la ridefinizione delle spese di tutti i gradi di giudizio che, analogamente a quanto accadde nel precedente citato, vanno compensate per un quarto, in ragione della parziale soccombenza delle lavoratrici, con rimborso in loro favore dei restanti tre quarti, trattandosi delle parti prevalentemente vittoriose;
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo in parte qua nel merito, rigetta la domanda di riconoscimento del diritto ai buoni pasto. Compensa per un quarto le spese di tutti i gradi e condanna l'Agenzia al pagamento in favore delle controparti dei restanti tre quarti, quota che liquida, per compensi, in euro 1. 500,00 per il primo grado, in euro 2.415,00 per l'appello ed in euro 6.000,00 per il giudizio di cassazione, oltre ad euro 200,00 per esborsi e oltre a spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge, con distrazione in favore della difesa antistataria.